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L’esposizione ad agenti cancerogeni e la sorveglianza sanitaria

L’esposizione ad agenti cancerogeni e la sorveglianza sanitaria
Tiziano Menduto

Autore: Tiziano Menduto

Categoria: Rischio cancerogeno, mutageno

19/10/2016

Un nuovo documento, elaborato da diversi operatori dei Servizi Asl, affronta il tema dell’esposizione agli agenti cancerogeni, della normativa vigente e della sorveglianza sanitaria. Quando intraprenderla e per quanto tempo protrarla?

L’esposizione ad agenti cancerogeni e la sorveglianza sanitaria

Un nuovo documento, elaborato da diversi operatori dei Servizi Asl, affronta il tema dell’esposizione agli agenti cancerogeni, della normativa vigente e della sorveglianza sanitaria. Quando intraprenderla e per quanto tempo protrarla?


Ancona, 19 Ott – Qualsiasi sistema sanitario che progetti e realizzi programmi di sorveglianza sanitaria non può “limitarsi ad obiettivi di natura conoscitiva generale, ma deve avere lo scopo di fare qualcosa di buono per i gruppi di popolazione in studio”. E l’applicazione dell'art. 242 del D.Lgs. 81/2008 per tutti i cancerogeni escluso l'amianto e dell'art. 259 del medesimo decreto per l'amianto “vuol dire, in primo luogo, progettare e realizzare dei programmi di sorveglianza sanitaria ad hoc che consentano la diagnosi precoce utile e il trattamento precoce utile di un numero adeguato di casi incidenti di tumore”.



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A sottolinearlo, parlando di sorveglianza sanitaria relativa ai cancerogeni occupazionali,  è un recente documento, elaborato e concluso nel mese di settembre 2016, da un nutrito gruppo di operatori dei Servizi ASL prendendo spunto dai documenti e dai confronti seguiti ad alcuni seminari e workshop che si sono tenuti ad Ancona nel mese di giugno, organizzati dalla Società Nazionale degli Operatori della Prevenzione ( SNOP) insieme ad ASUR Marche AV3.

Il documento – dal titolo “Applicazione degli artt. 236, 242, 243 e 244 del Dlgs 81/08. Valutazione dell'esposizione ad agenti cancerogeni e del rischio che ne consegue. Indicazioni per la classificazione dei lavoratori come ‘professionalmente esposti ad agenti cancerogeni’, la loro conseguente registrazione e lo svolgimento di programmi di sorveglianza sanitaria ad hoc. La questione degli ex-esposti ad agenti cancerogeni in ambiente di lavoro” – contiene varie proposte sia per modifiche evolutive di alcuni articoli del Titolo IX (Sostanze pericolose) del D.Lgs. 81/2008, sia per un'applicazione sostenibile ed efficace dell’attuale testo di legge. Una prospettiva di intervento di ampio respiro e particolare rilievo che – come ricordato da SNOP – è presentata in un momento storico in cui parrebbero farsi avanti solo ipotesi di revisioni normative "al ribasso" delle “già (nella pratica) insufficienti garanzie di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori nel nostro Paese”.

 

Il documento, che segue la struttura di un contributo di Roberto Calisti (SPreSAL Civitanova Marche - ASUR MARCHE – Area Vasta 3), riporta inizialmente la “storia” dell’attenzione al tema degli agenti cancerogeni occupazionali, mostrando come sia cambiata nel tempo la situazione, e si sofferma sulla “quantità” degli esposti agli agenti cancerogeni e sulla normativa vigente in Italia.

 

Riguardo alla normativa sono indicate alcune difficoltà oggettive di interpretazione e applicazione, soprattutto per le tre situazioni indicate:

- “l'esistenza di un' esposizione ad agenti cancerogeni non è immediatamente identificabile, ad esempio perché un cancerogeno chimico non è presente fin dall'inizio tra le materie prime e/o gli ausiliari di produzione in uso, ma viene a formarsi ex novo nel corso del processo produttivo;

- l'esistenza di un'esposizione ad agenti cancerogeni è nota, ma si tratta di agenti ubiquitari e presenti in ambiente di lavoro a livelli di intensità non particolarmente elevati, tali per cui non è immediatamente chiaro se si stia trattando, in realtà, di niente più che della situazione della popolazione generale non professionalmente esposta;

- l'esistenza di un' esposizione ad agenti cancerogeni è nota e questa si mostra, per tipologia degli agenti e livello di intensità dell'esposizione, di natura indiscutibilmente professionale, ma l'esposizione medesima è ‘sporadica’ e di ‘debole’ intensità”.

E manca tuttora, infine, una “chiarificazione inequivocabile del ‘perché?’ complessivo della registrazione di esposizioni ed esposti e dell'attivazione di programmi di sorveglianza sanitaria ad hoc, ad evitare che azioni impegnative, potenzialmente di grande rilevanza prevenzionistica ma anche, in potenza, tutt'altro che scevre di effetti collaterali negativi (soprattutto in un'epoca in cui molti spingono per una restrizione del welfare pubblico a tutto favore delle assicurazioni sanitarie private), si avviassero in maniera caotica e afinalistica, come meri adempimenti di legge da realizzare al solo scopo di mettersi al riparo da future contestazioni”.

 

Il documento con lo scopo di sollecitare “un'adeguata attenzione istituzionale e scientifica al problema “cancerogeni occupazionali e tumori professionali” e di fornire un contributo tecnico per l'individuazione di soluzioni ai problemi tuttora aperti”, ha cercato di sviluppare tre argomenti che sono rimasti negli anni particolarmente critici:

- chi considerare professionalmente esposto ad agenti cancerogeni;

 - come articolare un programma di sorveglianza sanitaria ad hoc, attivato ai sensi dell'art. 242 del Dlgs 81/2008;

- cosa deve conseguire alla registrazione dell'esposizione occupazionale a cancerogeni e all'istituzione di un'apposita cartella sanitaria e di rischio in applicazione dell'art. 243 del Dlgs 81/2008.

 

Ci soffermiamo brevemente sul tema della sorveglianza sanitaria.

 

Ad esempio gli autori ricordano che va definito “da quando intraprendere la sorveglianza sanitaria e per quanto tempo protrarla”.

Infatti i tumori hanno “tempi di induzione-latenza diversi ma comunque dell'ordine degli anni (da alcuni anni, come per una parte delle leucemie, a diversi decenni, come per mesoteliomi e carcinomi naso-sinusali). Nessun tumore di origine professionale insorgerà quindi nei ‘primi’ anni dopo l'inizio dell'esposizione (a fini operativi, il termine ‘primi’ va espressamente definito per ciascun tipo di neoplasia)”. Insomma – continuano gli autori – va definito, per ciascun tipo di neoplasia da monitorare, “un lag temporale prima che sia trascorso il quale sarà inutile far entrare un soggetto in un programma di sorveglianza sanitaria ad hoc, peraltro non eccessivamente lungo, ad evitare che sfuggano proprio le alterazioni precoci di cui si va alla ricerca”. Inoltre “dobbiamo attenderci che solo una quota dei tumori professionali insorgerà in soggetti ancora esposti e che molti di essi si manifesteranno invece in soggetti non più esposti (o perché continuano a lavorare, ma l'esposizione è cessata, o perché proprio non lavorano più). Una volta entrato in un programma di sorveglianza sanitaria ad hoc, va previsto che un soggetto vi rimanga per anni, anche dopo il termine dell'esposizione”.

Ma, d'altra parte, è anche ragionevole “aspettarsi che l'effetto cancerogeno dell'esposizione, pur protraendosi a lungo, tenderà a scemare con il trascorrere del tempo dalla cessazione dell'esposizione medesima, per cui il gettito di nuovi casi di cancro alla cui causazione essa ha contributo tenderà a diminuire”. Tuttavia questa diminuzione dell'effetto dell'esposizione “ha tempistiche diverse a seconda dei tipi di agente e di cancro: va quindi definito, caso per caso, per quanto tempo sia utile protrarre la sorveglianza sanitaria ad hoc dopo la cessazione dell'esposizione, tenuto conto del numero delle persone da tenere sotto osservazione e del numero di casi di cancro che ci si aspetta di poter individuare precocemente tra di esse”.

 

Il documento, che vi invitiamo a leggere integralmente, si sofferma poi sul programma di screening oncologico e le condizioni di sostenibilità, sull’importanza di fornire informazioni e counselling adeguati e su altri molti aspetti ed elementi utili alla sorveglianza sanitaria.

 

Concludiamo ricordando quanto indicato dagli autori riguardo ai soggetti che abbiano sperimentato un'esposizione a cancerogeni significativa, ma limitata nel tempo: “come devono essere considerati e, soprattutto, cosa deve essere loro garantito”?

 

Si indica che, a tal proposito, è di supporto l'articolato del D.Lgs. 81/2008 specificamente dedicato all'amianto, “la cui logica si propone di estendere anche a tutti gli altri agenti cancerogeni”.

Il documento ne riporta uno stralcio: ‘I lavoratori che durante la loro attività sono stati iscritti anche una sola volta nel registro degli esposti di cui all'art. 243, comma 1, sono sottoposti ad una visita medica all'atto della cessazione del rapporto di lavoro; in tale occasione il medico competente deve fornire al lavoratore le indicazioni relative alle prescrizioni mediche da osservare ed all'opportunità di sottoporsi a successivi accertamenti sanitari’. Si tratta di una parte dell’art. 259 (Sorveglianza sanitaria) che si applica ai lavoratori che sono o sono stati esposti all'amianto. Quindi: “l'iscrizione nel registro degli esposti configura una condizione che, una volta instaurata, non si mantiene in automatico ‘vita natural-durante’, ma viene a cessare una volta che sia cessata l'esposizione (anche se dell'esposizione pregressa dovrà rimanere traccia documentale stabile)”; ed è inoltre “prevista espressamente un'attività di informazione mirata su ciò che gli esposti e gli ex-esposti dovrebbero fare (e poter fare) una volta cessato il rapporto di lavoro”.

 

 

 

“ Applicazione degli artt. 236, 242, 243 e 244 del Dlgs 81/08. Valutazione dell'esposizione ad agenti cancerogeni e del rischio che ne consegue. Indicazioni per la classificazione dei lavoratori come ‘professionalmente esposti ad agenti cancerogeni’, la loro conseguente registrazione e lo svolgimento di programmi di sorveglianza sanitaria ad hoc. La questione degli ex-esposti ad agenti cancerogeni in ambiente di lavoro”, a cura di Antonio BARBONI, Pietro Gino BARBIERI, Lucia BOLOGNINI, Ettore BRUNELLI, Roberto CALISTI, Fabio CAPACCI, Anna Maria DI GIAMMARCO, Fabrizio FERRARIS, Sabrina FILIBERTO, Sonia FONTANA, Silvia FUSTINONI, Tonina Enza IAIA, Stanislao LORIA, Antonello LUPI, Carolina MENSI, Lucia MILIGI, Dario MIRABELLI, Patrizia PERTICAROLI, Aldo PETTINARI, Rossella RAMBALDI, Paolo RAVALLI, Cosimo SCARNERA – documento del 6 settembre 2016 (formato PDF, 273 kB).

 

 

Tiziano Menduto



Creative Commons License Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

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Rispondi Autore: armando mattioli immagine like - likes: 0
29/10/2016 (21:58:17)
Il contributo che i colleghi hanno sottoposto al confronto tocca un argomento di grande interesse e complessità che necessariamente dovrà vedere momenti di approfondimento e coinvolgimento più ampi, rispetto non al solo mondo degli operatori delle USL, ma anche all'insieme del mondo scientifico e della ricerca. Per parte mia sottopongo solo alcune riflessioni su argomenti affrontati in modo marginale nel documento, ma che sono fondamentali in tema di valutazione del rischio cancerogeno. Richiamato il canonico schema: 1) valutazione pericolo; 2) valutazione dose - risposta; 3) valutazione dell'esposizione; 4) caratterizzazione del rischio, a me sembra che l'attenzione del documento si sia focalizzata solo sul punto 3. Termini imprescindibili come "inahalation unit risk" o "inhalation slope factor", che attengono alla potenza del cancerogeno non sono presenti nel documento. Ridurre il concetto di debole intensità al mero dato di esposizione ambientale sembra essere poco utile, se non fuorviante, qualora non sia collegato alla potenza, in modo da poter caratterizzare il rischio in termine di stima dell'incremento delle neoplasie. Prendiamo l'esempio dell'ESEDI amianto: ai livelli massimi di esposizione (60 ore/anno per 40 anni a 10f/lt) da esso previsto, corrisponde un rischio incrementale, calcolato con l'IUR dell'US EPA, di circa 1E10-5. Sembra logico che per ogni altro cancerogeno l'intensità espositiva per l' ESEDI sia scelta in modo tale da portare ad un rischio incrementale analogo, che, sia detto per inciso, corrisponde al livelli di accettabilità previsto in un caso particolare anche dalla normativa italiana. Non so se sia trattato di casualità o scelta precisa, ma questo elemento mi dà lo spunto per aprire il dibattito anche sul DMEL. Altra questione che andrebbe a mio giudizio approfondita, è quella della vexata quaestio dei valori soglia, previsti dallo SCOEL e da tutta la letteratura scientifica. Argomento spinoso; voglio solo ricordare che sono 30 anni che sulle diossine si dibatte nel mondo scientifico se esista o meno un livello soglia di esposizione per i tumori, con l'US EPA in perfetta solitudine a sostenere che non esiste.
Rispondi Autore: armando mattioli immagine like - likes: 0
19/11/2016 (14:36:22)
La recentissima (15.11.2016) "LINEA GUIDA REGIONALE SULLA STIMA E GESTIONE DEL RISCHIO DA ESPOSIZIONE A FORMALDEIDE: RAZIONALIZZAZIONE DEL PROBLEMA E PROPOSTA OPERATIVA" della regione Lombardia, dà una risposta al tema che avevo posto del valore soglia per il rischio cancerogeno e che in ambito di dibattito nella mia regione (Umbria) avevo posto negli stessi termini, prendendo atto cioè delle indicazioni dello SCOEL, che indicano per la FA, cancerogeno di gruppo C, un valore di 0,369 mg/m3 per l'OEL-TWA(8h) e di 0,738 mg/m3 per l'OEL-STEL al di sotto dei quali non c'è rischio cancerogeno. Per livelli espositivi lavorativi al di sotto di tali valori, non si attiva la sorveglianza sanitaria. La linea guida sostiene che definendo "...gli OEL per i cancerogeni di gruppo C e D, la direzione presa dal pensiero scientifico pare dunque al momento attuale non ignorare più quelle opinioni che da anni richiamano l’attenzione su un aspetto di questa questione, certamente critico e difficile, ma comunque non ovviabile con soluzioni perentorie e dogmatiche" e cioè quelle attestate sulla difesa del modello
cosiddetto LNT (Linear Non-Threshold – Lineare Senza Soglia).

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