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L’impatto della pandemia COVID-19 sul mondo del lavoro

L’impatto della pandemia COVID-19 sul mondo del lavoro
Tiziano Menduto

Autore: Tiziano Menduto

Categoria: Interviste e inchieste

03/04/2020

Come incide una pandemia sulla gestione della salute e della sicurezza in azienda? Qual è l’approccio più corretto riguardo a valutazione dei rischi e DPI? Ne parliamo con l’avvocato Maria Giovannone, responsabile scientifico SSL Anmil.

 

Brescia, 3 Apr – Se vogliamo affrontare meglio l’attuale emergenza COVID-19, con particolare riferimento al suo impatto sul mondo del lavoro e sulla sicurezza, è utile fare riferimento anche alle esperienze passate di emergenza e alle problematiche a suo tempo sollevate.

Ci sono studi e saggi in Italia sull’impatto in ambito lavorativo di precedenti virus epidemici o pandemici influenzali? Quali sono state le criticità nella gestione delle emergenze? Quali le difficoltà nell’attuare idoneamente le misure di prevenzione primaria?

 

Per affrontare le criticità dell’attuale emergenza partendo anche da precedenti esperienze e studi passati sulle conseguenze delle pandemie, abbiamo deciso di rivolgere qualche domanda alla Avv. Maria Giovannone, Responsabile scientifico Ufficio salute e sicurezza sul lavoro Anmil onlus e consulente in materia di salute e sicurezza sul lavoro e modelli di organizzazione.

 

Come ci racconta nell’intervista, l’Avv. Maria Giovannone ha infatti già affrontato in passato questi temi attraverso un documento pubblicato sul bollettino ADAPT del 6 ottobre 2009, in collaborazione con il Centro Studi Internazionali e Comparati Marco Biagi, dal titolo “Pandemia influenzale e ambienti di lavoro: tutela della salute pubblica e impatto sulla organizzazione del lavoro”. Un documento curato da Michele Tiraboschi (Professore ordinario di Diritto del lavoro presso l'Università di Modena e Reggio Emilia) e Maria Giovannone.

 

Nell’intervista si cerca non solo di capire come incide una pandemia, come quella correlata al virus Sars-CoV-2, sulla gestione della salute e della sicurezza in azienda, ma anche di avere un’opinione su vari aspetti: le opportunità offerte dallo smart working, la valutazione dei rischi, la dotazione di dispositivi di protezione, le responsabilità datoriali e la validità del “ Protocollo condiviso” firmato dalle parti sociali.

 

Questi gli argomenti affrontati nell’articolo:


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La gestione della pandemia e il lavoro agile

Il COVID-19, ufficialmente definito pandemia dall’OMS lo scorso 11 marzo, sta mettendo a dura prova la vita delle persone colpite e dei lavoratori dei settori più esposti che continuano a dare il loro contributo, anche in assenza dei necessari dispositivi di protezione individuale ed in condizioni di lavoro poco sicure. A suo avviso, da esperta che studia queste tematiche da lungo tempo, come incide una pandemia sulla gestione della salute e della sicurezza in azienda? Le misure adottate dai provvedimenti del Governo sono adeguate a gestire l’emergenza in corso?

 

Maria Giovannone: Mi fa piacere avere l’opportunità di confronto con Punto Sicuro su questo delicato tema, considerato peraltro che me ne sto occupando molto in questi giorni, nel corso della mia attività di consulenza e assistenza alle imprese, e che ho avuto modo di parlarne approfonditamente nell’ambito di un interessante webinar organizzato lo scorso 27 marzo.

Chiaramente, nell’approcciare l’argomento, non posso non rivolgere un pensiero preliminare a tutti gli operatori del sistema sanitario nazionale che, come tutti i lavoratori dei comparti considerati essenziali, anche ai limiti della resistenza fisica, incessantemente continuano a fornire il loro contributo umano e professionale nella lotta al virus; spesso anche a “mani nude”, in assenza dei necessari DPI.

Lo scenario del mondo del lavoro, in continua evoluzione in questi giorni, mostra come la pandemia, nell’arco di poche settimane, possa mettere in seria difficoltà il sistema economico e produttivo del nostro Paese, nel contesto delle catene globali del valore, minandone le fondamenta e gli asset ma, d’altra parte, necessariamente stimolando risposte ordinamentali che, attraverso una rapida produzione normativa e regolamentare, incidono inevitabilmente anche sulle consuete regole di funzionamento della gestione degli adempimenti prevenzionistici sul posto di lavoro.

Ritengo pertanto che, nel parlare di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro nel corso dell'emergenza COVID-19, dobbiamo tenere presente che la normativa emanata nel nostro Paese, dallo scorso febbraio e tuttora in corso, volta a fronteggiare gli effetti sanitari, sociali, economici e lavoristici della pandemia, miri al bilanciamento di più valori costituzionali, quali: la salute, la libertà personale, la libertà di circolazione, la libertà di iniziativa economica privata, il diritto al lavoro ed alla sicurezza nei luoghi di lavoro. Si tratta di una operazione molto delicata e tutt’altro che scontata, specie in un ordinamento giuridico come il nostro in cui, diversamente da altri Paesi (come la Germania, la Spagna, la Francia o gli Stati Uniti), non esiste una norma - né di rango costituzionale né di legge ordinaria - precipuamente diretta alla gestione delle emergenze sanitarie.

Un bilanciamento di valori che attinge alle sensibilità sociali, morali e giuridiche più profonde ed il cui risultato pratico, rebus sic stantibus (stando così le cose, ndr), integra un cosiddetto “testo unico dell’emergenza”, fatto di regole speciali che si succedono nel tempo in modo rapido e che tutti gli addetti ai lavori – consulenti, avvocati, medici, RSPP, RLS, CSE, CSP, esperti di organizzazione aziendale, psicologi - si trovano a dover “maneggiare”, senza tuttavia perdere di vista il contesto ed i principi generali dell’ordinamento vigente. A questo principio, a mio avviso, va quindi ispirata tutta l’attività di consulenza e assistenza alle imprese ed ai lavoratori in questo periodo, sin dalla elaborazione degli appositi protocolli di sicurezza.

 

Per i settori non interessati dalla sospensione delle attività, i provvedimenti di urgenza hanno promosso il ricorso allo smart work sostanzialmente in deroga alla disciplina ordinaria. Queste norme, secondo lei, sono fonte di un maggior rischio o di una nuova opportunità per i lavoratori e le aziende interessati?

 

M.G.: Lo scenario globale ci mostra come la pandemia da COVID-19 stia impattando su un mondo del lavoro fortemente digitalizzato, i cui modelli di organizzazione sono già da tempo in evoluzione.

Un esempio emblematico, a tal riguardo, è sicuramente rappresentato dalla mutata ratio di impiego, nel contesto emergenziale, dello smart work (lavoro agile) che, da strumento innovativo di welfare aziendale per l’incremento della produttività ed il migliore bilanciamento tra vita personale e vita lavorativa - come era stato concepito nella sua legge istitutiva ( l. n. 81/2017) - è stato convertito in un incredibile strumento per il migliore bilanciamento tra salute pubblica, sicurezza sul lavoro e conservazione del posto di lavoro; ciò a fronte della ben più drammatica prospettiva delineata dalla crisi aziendale, dal ricorso alla cassa integrazione, dalla sospensione totale delle attività ovvero dalla diffusione ancor più rapida della infezione virale, negli ambienti di lavoro in cui si continua ad operare in assenza di idonee protezioni.

 

Alla luce di queste considerazioni, pertanto, intravedo nell’uso dello smart work una grande opportunità, non soltanto di gestione dell’emergenza, ma anche di ripensamento serio delle modalità di svolgimento della prestazione di lavoro subordinato anche per il futuro. Chiaramente, ciò sempre che la modalità agile sia compatibile con le mansioni svolte e che ne venga garantito un utilizzo rispettoso della disciplina lavoristica vigente e, al tempo stesso, delle norme prevenzionistiche e di tutela della privacy richieste.

 

Valutazione dei rischi, DPI e responsabilità dei datori di lavoro

Tra i nodi più problematici di questo periodo, per gli addetti ai lavori, vi sono sicuramente quello relativo all’eventuale aggiornamento del DVR e quello relativo alla dotazione di idonei DPI. Quale è la sua opinione al riguardo?

 

M.G.: Come noto a tutti gli addetti ai lavori, la valutazione del rischio e la dotazione degli idonei DPI ai lavoratori, sono due capisaldi del nostro ordinario sistema prevenzionistico, come delineato dal Testo Unico Sicurezza; istituti che rispondono a norme generali con cui vanno opportunamente e cautamente coordinate le disposizioni speciali adottate nel corso dell’emergenza COVID-19 attraverso decreti-legge, D.P.C.M. ed ordinanze.

Tra le due, però, la questione relativa al DVR è quella più controversa da un punto di vista tecnico-giuridico, in questo frangente, considerato che sul punto la decretazione d’urgenza non si è pronunciata chiaramente, diversamente da quanto fatto per i DPI. Quella sui DPI lo è forse di più dal punto di vista della burocrazia e della concorrenza nel mercato globale di questi prodotti. Lo dimostra del resto il dibattito nato tra gli esperti in queste settimane.

Infatti, relativamente ai DPI, sin dai primissimi atti europei emergenziali – a partire dal regolamento di esecuzione (UE) 2020/402 che ha stabilito misure straordinarie per garantire l’approvvigionamento relativo ai DPI – si è inteso garantire tanto il repentino rifornimento di tali dispositivi da parte degli Stati membri, quanto la celerità dei controlli di conformità ai requisiti di sicurezza (si veda, a tal proposito, la Raccomandazione (UE) 2020/403). Per il rapido approvvigionamento dei DPI, poi, la Commissione europea ha predisposto, con le decisioni di esecuzione n. 2020/414 e n. 2020/452, la costituzione di scorte attraverso la riserva europea rescEU, e si è adoperata per fornire orientamenti comuni sull’adozione di misure straordinarie, pur previste dall’ordinamento europeo, in diversi ambiti: dalla gestione delle frontiere esterne per l’approvvigionamento dei beni essenziali (si veda la Comunicazione 2020/C 96 I/01) nonché del trasporto aereo per il medesimo scopo (Comunicazione 2020/C 100 I/01), guidando altresì gli Stati membri all’acquisto dei DPI attraverso procedure più snelle nell’ambito degli appalti pubblici (Comunicazione 2020/C 108 I/01).

 

Dal punto di vista nazionale, poi, è stato in particolare l’art. 16 del D.L. n. 18/2020 a prevedere che, per tutti i lavoratori che nello svolgimento della loro attività siano oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro, debbano essere considerati dispositivi di protezione individuale (DPI) le mascherine chirurgiche reperibili in commercio. Dunque, il problema in questo caso, riguarderebbe soprattutto il congestionamento burocratico inerente alle procedure di certificazione richieste, riguardanti tanto l’INAIL quanto l’ISS, per la produzione interna delle due macro-tipologie di mascherine oggi necessarie: quelle professionali (vale a dire le ormai note Ffp2 e Ffp3) e quelle chirurgiche. Come si può leggere da vari organi di stampa, pare che presso gli istituti direttamente coinvolti pervengano, quotidianamente, centinaia di richieste di certificazione, da parte di piccoli artigiani e grandi aziende, alle cui istanze è obbligatorio dare risposta, poiché inviate tramite posta certificata. Questo fenomeno sarebbe dunque alla base di uno stallo burocratico, data anche l’impossibilità di garantire un filtro preliminare tra richieste più e meno qualificate (anche per via del parallelo, necessario ricorso allo smart working da parte di chi ha il compito di occuparsi della valutazione delle stesse). Se a ciò si aggiunge anche l’ulteriore passaggio richiesto qualora non si disponga di materiali già certificati (e dunque pronti per essere trasformati in mascherine), volto alla certificazione di un tessuto che sia compatibile ai prerequisiti imposti, i tempi delle procedure non possono che allungarsi ulteriormente, e la soluzione più rapida, dato lo stato di emergenza attuale, rimane l’acquisto di mascherine dall’estero.

 

Quanto al DVR, mi sento di suggerire agli operatori un approccio prudenziale e per gradi. Più in particolare, con riferimento ai settori normalmente esposti al rischio biologico e quindi ricadenti nell’ambito di applicazione del Titolo X del TU Sicurezza, ritengo sia necessario provvedere ad un aggiornamento della valutazione dei rischi e, di conseguenza, del DVR, secondo le regole contemplate dallo stesso Titolo X.

 

Al di fuori di quelle attività in cui l’esposizione al rischio biologico, ancorché accidentale è maggiore, ritengo che siano sottratte al campo di applicazione del Titolo X le organizzazioni produttive caratterizzate da un rischio biologico di tipo generico, ovvero del tutto assimilabile a quello cui è esposta la popolazione non lavorativa, ricorrendo in questo caso il classico “rischio da contatto accidentale aggravato”. Ciò non esclude, però, per le attività che esulano dall’ambito di applicazione del Titolo X, che si debba dare corso ad un dinamico aggiornamento della valutazione del rischio pandemia, secondo le regole più generali di cui agli artt. 15, 28 e 29 del TU Sicurezza, oltre che dell’art. 2087 c.c. In tal senso, del resto, pare si possa argomentare quantomeno indirettamente leggendo le battute finali della nota dell’INL del 13 marzo 2020, volta a fornire chiarimenti sul tema.

 

Proprio alla luce delle disposizioni sopra richiamate, infatti, va a mio avviso letta la prescrizione fatta dal DPCM 11 marzo 2020, di assumere protocolli di sicurezza anti-contagio che, molte aziende stanno poi materialmente traducendo nella adozione di documenti allegati al DVR, sotto forma di addendum, ispirati a loro volta ai contenuti del Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto tra le Parti sociali il 14 marzo 2020.

 

Sia chiaro, però, quanto appena detto, non significa che i DVR attualmente in possesso delle aziende siano da “buttar via”, ma che, nell’ottica di tutelare al meglio le nostre aziende e gli stessi lavoratori che continuano ad operarvi in tempo di emergenza, sia opportuno integrare detti documenti con appositi addendum che, di fatto ed anche in base alla luce del principio di effettività che informa tuta la materia, andranno a costituire un sostanziale aggiornamento della valutazione dei rischi correlato a quelle modifiche all’organizzazione del lavoro che la pandemia impone e che l’art. 29 prescrive.

 

Tale operazione, peraltro, si renderebbe tanto più opportuna alla luce del fatto che l’art. 42, co. 2, del d.l. Cura Italia (d.l. n. 18/2020), ha equiparato l’infezione da coronavirus, contratta in occasione di lavoro, ad infortunio sul lavoro per causa virulenta, prevedendo l’accesso dell’infortunato alla tutela INAIL, ai sensi delle vigenti disposizioni. Una disposizione opportuna che, a mio avviso, lascia anche presagire l’emersione di possibili futuri contenziosi volti a far valere articolate rivendicazioni nei confronti di aziende operanti nei più svariati settori, che abbiano omesso di valutare e prevenire il rischio compiutamente.

Peraltro, anche ai fini di una corretta ed efficace attuazione del Modello di Organizzazione e Gestione, di cui l’azienda fosse eventualmente dotata ai fini esimenti della responsabilità dell’ente, per omicidio colposo o lesioni colpose dovute all’inosservanza delle norme antinfortunistiche; una siffatta operazione di aggiornamento sarebbe in ogni caso auspicabile per una migliore tutela processuale dell’azienda stessa oltre che per la migliore protezione dei lavoratori.

 

Che responsabilità è possibile immaginare in capo al datore di lavoro per l’inosservanza delle corrette tutele prevenzionistiche in relazione alle conseguenze del nuovo coronavirus?

 

M.G.: La risposta a questa domanda è in buona parte correlata alla precedente, considerato che, adottate anche qui le cautele del caso, le disposizioni sanzionatorie eventualmente coinvolte sono varie e di diversa gravità e intensità, a seconda di come si configurano gli obblighi datoriali in campo.

 

Con riferimento alla valutazione dei rischi, per i settori estranei al campo di applicazione del Titolo X del Testo Unico Sicurezza, si possono delineare due distinti scenari.

 

Più in particolare, aderendo alla tesi restrittiva per la quale il datore di lavoro deve dare attuazione esclusivamente alle misure dettate dalle disposizioni speciali adottate nel corso dell’emergenza COVID-19, fino all’entrata in vigore del D.L. n. 19/2020, trova applicazione l’articolo 650 c.p. (Inosservanza dei provvedimenti dell'autorità) e sempre che il fatto non costituisse più grave reato.

Tuttavia, a seguito della modifica del quadro sanzionatorio operato dall’articolo 4 del richiamato D.L. n. 19/2020, la violazione delle misure di contenimento disposte dal Legislatore per l’emergenza da COVID-19 non costituisce più illecito di natura penale ex art. 605 c.p., bensì di natura amministrativa (e sempre che il fatto non costituisca più grave reato).

 

Aderendo invece all’orientamento meno restrittivo in tema di valutazione dei rischi, in base al quale si ritiene che per tutti i settori lavorativi il datore di lavoro debba aggiornare il DVR, potremmo ritenere applicabili le misure sanzionatorie previste, ex art. 55 del d.lgs. n. 81/2008, per il datore di lavoro in violazione dell’obbligo di aggiornamento del DVR ai sensi dell’articolo 29, comma 3, del d.lgs. n. 81/2008. Diversamente, con riferimento ai settori rientranti nell’ambito di applicazione del Titolo X del d.lgs. n. 81/2008, troverebbe de plano applicazione il quadro sanzionatorio ivi previsto.

 

Con riferimento infine ai DPI, il Legislatore, nel già richiamato articolo 16 del D.L. n. 18/2020, ha espressamente previsto che le mascherine chirurgiche debbano essere considerati DPI, ai sensi dell’articolo 74, comma 1 del d.lgs. n. 81/2008, per cui si devono ritenere applicabili le sanzioni previste dal Titolo III Titolo in materi di uso dei dispositivi di protezione individuale.

In generale, poi, ove da tali inosservanze derivassero i più gravi reati di cui agli artt. 589 o 590 c.p., si potrebbero ritenere applicabili le sanzioni ivi previste. Resterebbero poi da valutarsi, in ogni caso, i più ampi scenari sanzionatori riconducibili alla violazione dell’obbligazione contrattuale ex art. 2087 c.c., oltre che quelli legati alle responsabilità “penale-amministrativa” di cui al d.lgs. n. 231/2001.

 

La malattia da COVID-19 e la valenza del protocollo condiviso

Al centro del dibattito di questi giorni vi è anche il tema relativo alla qualificazione della malattia da COVID-19 come infortunio sul lavoro a causa virulenta. Ci può spiegare per quali categorie di lavoratori è previsto e come funziona il riconoscimento di questa tipologia di infortunio da parte dell’INAIL?

 

M.G.: L’art. 42, comma 2, del D.L. n. 18/2020 ha disposto che nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) contratta in occasione di lavoro, il medico certificatore rediga il consueto certificato di infortunio e lo invii telematicamente all’INAIL che deve assicurare la relativa tutela dell’infortunato. È stato altresì precisato che le prestazioni INAIL, nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro, debbano essere erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato, con la conseguente astensione dal lavoro. Le disposizioni dell’articolo 42 si applicano ai datori di lavoro pubblici e privati.

Dal dato normativo emerge dunque l’equiparazione tra i casi accertati di contagio da COVID-19 in occasione di lavoro e l’infortunio sul lavoro, con conseguente diritto alle prestazioni erogate dall’INAIL.

 

Precisamente, la tutela INAIL nei casi di infezione da nuovo Coronavirus copre l’assenza lavorativa dovuta a quarantena o isolamento domiciliare fiduciario per l’intero periodo, nonché quello eventualmente successivo, dovuto a prolungamento di malattia che determini una inabilità temporanea assoluta.

Per usufruire delle prestazioni dell’Istituto, è necessario che il medico compili un certificato di infortunio e lo invii telematicamente all’INAIL.

 

A riguardo, all’articolo 26 comma 6 del D.L. n. 18/2020 il Legislatore ha precisato che, in caso di malattia accertata da COVID-19 del lavoratore, il certificato sia redatto dal medico curante nelle consuete modalità telematiche, senza necessità di alcun provvedimento da parte dell’operatore di sanità pubblica.

Inoltre, per l’indennizzabilità da parte dell’INAIL delle conseguenze lesive dell’integrità psicofisica causate dall’infezione da coronavirus, trovano applicazione le disposizioni del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, alla stregua delle quali, per essere indennizzabile, la malattia-infortunio deve costituire una conseguenza dell’esposizione del soggetto infortunato a un determinato rischio professionale.

 

Riguardo alla sfera soggettiva, è necessario chiarire in quali fattispecie possa ritenersi sussistente la presunzione di origine professionale.

Per quanto riguarda la trattazione dei casi di COVID-19 del personale sanitario dipendente, l’INAIL, nella nota del 17 marzo 2020, ha specificato che medici, infermieri e gli altri operatori sanitari di strutture pubbliche e private hanno diritto alle prestazioni dell’Istituto assicuratore anche quando l’identificazione della causa del contagio si presenti problematica.

Per i lavoratori diversi dagli operatori sanitari, quelli con frequenti contatti con il pubblico nonché per che abbiano avuto contatti con un collega di lavoro positivo o sintomatico, ritengo che l’origine professionale dell’infezione debba essere ritenuta provata in presenza di fonte di contagio accertata.

Inoltre, per tutti i casi di lavoratori che abbiano contratto l’infezione e che abbiano utilizzato i mezzi di trasporto pubblico, sembra possa ritenersi applicabile la presunzione semplice di origine professionale, sempre che venga comprovato l’utilizzo degli stessi come necessitati. D’altra parte, potrebbero anche rientrare nei c.d. infortuni in itinere anche i casi d’infezione da COVID-19 contratti nei percorsi casa lavoro con un mezzo privato. Infatti, alla luce dei suggerimenti delle Istituzioni sui comportamenti da tenere per contrastare e contenere il diffondersi del coronavirus, l’utilizzo del mezzo di trasporto privato potrebbe ritenersi necessitato.

Al riguardo resta comunque auspicabile un intervento chiarificatore da parte delle Istituzioni o della prassi amministrativa.

 

Il dibattitto sulla gestione dell’emergenza ha inevitabilmente investito i lavoratori e le parti sociali, come testimonia il “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro”, sottoscritto il 14 marzo 2020. Per le aziende questo protocollo, a cui si fa riferimento anche nel DPCM del 22 marzo 2020, ha un valore cogente? E a suo parere si potrebbero configurare i presupposti per una astensione collettiva o individuale dei lavoratori, dallo svolgimento della prestazione, ove non siano fornite le giuste tutele?

 

M.G.: Considerati i valori costituzionali in gioco, era inevitabile che il dibattito coinvolgesse anzitutto le Parti sociali e, a tal proposito, l‘adozione del Protocollo interconfederale (come dei protocolli di categoria che pure si stanno sottoscrivendo in alcuni settori) è una importante manifestazione di quelle pratiche di concertazione e dialogo sociale di cui il nostro Paese ha bisogno, non solo in tempi di emergenza. Ciò detto, una delle prime osservazioni mosse in questi giorni, nei confronti del Protocollo, è proprio quella relativa alla sua cogenza. Non dobbiamo infatti dimenticare che, in quanto manifestazione dell’autonomia negoziale interconfederale, il protocollo, come tutti i contratti collettivi, non ha efficacia erga omnes, quindi non è un atto generalmente cogente, ma efficace tra i soggetti che lo hanno sottoscritto. Tuttavia, ove tale atto venga recepito materialmente in provvedimenti o procedure adottate a livello aziendale o territoriale, vincolando le parti al suo rispetto, la sua cogenza potrebbe dunque espandersi e, specularmente, la sua inosservanza potrebbe essere fonte di responsabilità e di applicazione di eventuali sanzioni.

 

Quanto ai profili di astensione dalla prestazione lavorativa, poi, è chiaro come l’importanza dei valori in gioco – la vita, la salute (pubblica e privata), il lavoro, la libertà di iniziativa economica – e la difficoltà di bilanciamento tra gli stessi, specie nella fase di progressiva definizione dei settori da sospendere e di quelli essenziali, abbia agitato, in determinati comparti, il “vento dello sciopero”. Al riguardo, non vi è dubbio che, in punto di diritto, una astensione collettiva dalla prestazione lavorativa, avrebbe potuto legittimamente configurarsi; tuttavia, da un punto di vista fattuale, credo che questo più che il momento del conflitto, sia il momento del dialogo e della concertazione proattiva nella ricerca di soluzioni condivise. A confermarcelo, in fin dei conti, è lo stesso esito delle trattative tra le Parti sociali, avvenute sotto la regia del Governo.

 

Per quanto riguarda invece, l’astensione individuale dalla prestazione lavorativa da parte del lavoratore, è opportuno distinguere due ipotesi.

La prima è quella in cui, a causa della pandemia, il lavoratore si trovi a fronte di un pericolo grave ed immediato (di per sé non sempre facile da dimostrare). Non vi è dubbio che in tale ipotesi, al lavoratore si possano applicarsi le tutele e le prerogative di cui agli artt. 43, comma 4, e 44 del Testo Unico Sicurezza. La seconda ipotesi, è invece quella in cui, pur in assenza delle condizioni di pericolo grave ed immediato di cui alle predette disposizioni, il lavoratore sia costretto a tornare a lavoro in assenza delle necessarie cautele prevenzionistiche di legge (dotazione di DPI, sanificazione degli ambienti, adozione di idonei protocolli, etc…); in tal caso, pur non potendosi ricorrere direttamente alle previsioni degli artt. 43 e 44 del d.lgs. n. 81/2008, si potrebbe comunque configurare un legittimo rifiuto dello stesso allo svolgimento della prestazione, come la stessa giurisprudenza di legittimità conferma; ciò sulla base della eccezione di inadempimento che il lavoratore potrebbe sollevare nei confronti del datore di lavoro che violi le obbligazioni sullo stesso gravanti ex art. 2087 c.c. (cfr. Cass., n. 836/2016; Cass., n. 6631/2015; Cass. n. 12725/2013; Cass., n. 14375/2012; Cass. n. 11664/2006; Cass., n. 9576/2005).

 

Già nel 2009, lei si è occupata di pandemie influenzali e ambienti di lavoro con riferimento all’emergenza della influenza pandemica AH1N1v. Mi pare che anche in quel caso emergesse una sottovalutazione dell’impatto dei rischi sulla salute e sull’intera organizzazione del lavoro e una difficoltà nel coordinamento dei comportamenti e delle azioni da mettere in campo. Cosa possiamo imparare, per il futuro del mondo del lavoro, dall’emergenza COVID-19?

 

M.G.: Sì, in effetti in tempi non sospetti e nel corso dei miei studi per il conseguimento del titolo di Dottore di Ricerca in Diritto del Lavoro presso l’Università di Modena ed pochi mesi dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 106/2009, ebbi modo di occuparmi di questa complessa tematica (cfr. M. Giovannone, M. Tiraboschi, Pandemia influenzale e ambienti di lavoro: tutela della salute pubblica e impatto sulla organizzazione del lavoro, in Bollettino Speciale ADAPT del 6 ottobre 2009).

 

Anche allora, sebbene ci trovassimo di fronte ad una problematica di minore portata - sia in termini di gravità che di estensione territoriale - rispetto a quelle del COVID-19, ebbi modo di sottolineare come alla luce del Testo Unico Sicurezza (artt. 28 e 29), il DVR è assurto sempre più al ruolo di strumento dinamico di prevenzione, non cristallizzato sui rischi già noti e censiti, ma sempre aperto alla integrazione ed alla gestione dei cosiddetti “nuovi rischi”, anche di quelli meramente contingenti o stagionali, tra cui una pandemia può rientrare. Proprio a tal riguardo, ritengo infatti poco condivisibile la tesi sostenuta da coloro che hanno rigettato tout court la opportunità di operare una qualsivoglia valutazione del rischio COVID-19 negli ambienti di lavoro esclusi dal campo di applicazione del Titolo X del Testo Unico, partendo dalla configurazione dello stesso come un mero “rischio esogeno”.

Infatti, se è vero che il rischio da COVID-19 nasce come esterno a specifiche lavorazioni, dunque esogeno poiché relativo all’intera popolazione e non a specifici settori o lavorazioni, nel momento in cui esso entra nei luoghi di lavoro e diventa oggetto di una modificazione dell’attività produttiva oltre che della organizzazione del lavoro, lo stesso diventa in qualche misura integrato e prevedibile nell’attività produttiva, dunque endogeno, seppur temporaneamente e in modo contingente alla durata della pandemia stessa.

 

Inoltre, pur volendo continuare a configurarlo come esogeno, è importante ricordare come la stessa giurisprudenza in materia di rischi esogeni, sebbene con riferimento a diverse fattispecie, è consolidata nel ritenere che “L’obbligo dell’imprenditore di tutelare l’integrità fisiopsichica dei dipendenti impone l’adozione non solo di misure di tipo igienico sanitario o antinfortunistico, ma anche di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di detta integrità nell’ambiente od in costanza di lavoro in relazione ad attività, pur se allo stesso non collegate direttamente […], in relazione alla frequenza assunta da tale fenomeno rispetto a determinate imprese ed alla probabilità del verificarsi del relativo rischio, non essendo detti eventi coperti dalla tutela antinfortunistica di cui al dpr. n. 1124 del 1965 e giustificandosi l’interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua del rilievo costituzionale del diritto alla salute che dei principi di correttezza e buona fede” (cfr. Cass. n. 4012/1998).

Si tratta di norme che, anche alla luce della loro congenita ratio, prestano il fianco ad una più sistematica interpretazione delle stesse raccomandazioni fornite dalle istituzioni in tempo di emergenza e sulla base della cui precettività si potrebbe procedere ad una implementazione condivisa di linee guida funzionali alla concreta individuazione, da parte del mondo produttivo, delle misure organizzative idonee e veramente necessarie per una prevenzione effettiva, scevra da sbavature allarmistiche.

 

Ciò considerato che, al fine di una maggiore effettività e di una contestualizzazione delle specifiche misure rispetto al singolo settore, è necessario fornire supporto agli addetti ai lavori nella puntuale delineazione dei compiti e delle attività dei singoli attori della sicurezza, dai datori di lavoro, dirigenti e lavoratori, sino ai medici competenti, i cui protocolli rappresentano in tale ottica uno snodo centrale.

 

Dunque ora, proprio come allora, penso ancora che, anche con riferimento alla gestione degli adempimenti prevenzionistici, ci troviamo di fronte ad una grandissima sfida; anzitutto nel campo medico-scientifico, in cui si devono trovare rimedi farmacologici idonei a sconfiggere il virus e della cui scoperta, anche la tutela della sicurezza sul lavoro si beneficerà certamente. La sfida, però, investe anche le tecniche di politica legislativa e di concertazione - a livello sindacale ed aziendale - delle soluzioni di valutazione, gestione e mitigazione del rischio e, al contempo di rafforzamento delle capacità di predizione di tali eventi e di resilienza di fronte ai prossimi che si verificheranno. Tutto ciò, anche per meglio accompagnare la complessa quanto auspicata fase del rientro in attività.

 

 

Link al documento “Pandemia influenzale e ambienti di lavoro: tutela della salute pubblica e impatto sulla organizzazione del lavoro”.

 

 

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

 

 

Scarica la normativa di riferimento:

Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro.

 

DECRETO-LEGGE 25 marzo 2020, n. 19 - Misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19.

 

DECRETO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 22 marzo 2020 - Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19, applicabili sull'intero territorio nazionale.

 

DECRETO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 11 marzo 2020 - Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19, applicabili sull'intero territorio nazionale.

 

 

 

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Rispondi Autore: avv. Rolando Dubini - likes: 0
04/04/2020 (11:33:01)
Una riflessione ponderata e intelligente che innalza finalmente il livello della discussione.

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