Sicurezza sul lavoro: che cosa è prevedibile e cosa non lo è?
Quando si affronta il delicato tema degli obblighi di prevenzione sui luoghi di lavoro e dell’ampiezza degli stessi, risultano centrali i concetti di “prevedibilità” e “prevenibilità”, ovvero rispettivamente di possibilità di “previsione” e di “prevenzione”.
Infatti una questione che spesso si pone come preliminare rispetto ad altre considerazioni, sia per il soggetto deputato a valutare i rischi che per il soggetto eventualmente chiamato ad attribuire le responsabilità ex post, è quella del se e fino a che punto un rischio o una circostanza sia o fosse prevedibile e, in caso affermativo, del se e fino a che punto esso od essa fosse prevenibile alla luce dei principi che regolano la materia.
Tutto parte in ogni caso, come risulta evidente, dal concetto di prevedibilità.
Da quali parametri è definita l’ampiezza dell’obbligo di previsione
Un paio di mesi fa, la Suprema Corte (Cassazione Penale, Sez.IV, 30 aprile 2020 n.13483) ha avuto modo di ribadire che “i cardini sui quali il datore di lavoro deve fondare l’analisi e la previsione dei rischi sono, dunque, in primo luogo, la ‘propria esperienza’, in secondo luogo l’evoluzione della scienza tecnica ed infine ‘la casistica’ verificabile nell’ambito della lavorazione considerata.”
Da questo principio consegue in maniera diretta che “la previsione e prevenzione del rischio deve ‘coprire’ qualsiasi fattore di pericolo evidenziato nell’evoluzione della ‘scienza tecnica’ e non solo dall’esperienza che l’imprenditore sviluppi su una certa attività o su uno specifico macchinario, che egli abbia potuto direttamente osservare.”
Dunque, secondo la Cassazione, “non basta, cioè, a giustificare la mancata previsione del pericolo né che la sua realizzazione non si sia mai presentata nello svolgimento dell’attività concreta all’interno dell’impresa, né che esso non rientri nell’esperienza indiretta del datore di lavoro, per considerare ‘non noto’ il rischio occorre che anche la scienza tecnica non abbia potuto osservare l’evento che lo realizza. Solo in questo caso viene meno l’obbligo previsionale del datore di lavoro, cui non può richiedersi di oltrepassare il limite del sapere tecnico-scientifico, con un pronostico individuale.”
La Cassazione chiarisce a questo punto che “la conclusione che deve trarsi da questa premessa è che l’evento ‘raro’, in quanto ‘non ignoto’, è sempre prevedibile e come tale deve essere previsto, in quanto rischio specifico e concretamente valutabile. L’evento raro, infatti, non è l’evento impossibile. Anzi è un evento che, per definizione, prima o poi si verifica.”
La prevedibilità e la percezione oggettiva della pericolosità di una condizione atmosferica avversa (nella fattispecie: il forte vento)
Con Cassazione Penale, Sez.IV, 30 aprile 2020 n.13494, la Suprema Corte ha confermato la responsabilità di un datore di lavoro e di un responsabile di cantiere per lesioni colpose ad un lavoratore il quale, “durante le operazioni di costruzione di un impianto per la produzione di energia elettrica alimentato a biogas e, segnatamente, durante la fase di disarmo, consistente nella rimozione delle barre metalliche (casseri) utilizzate per il sostegno delle pareti in calcestruzzo armato, precipitava da una scala a pioli mentre si trovava ad un’altezza di circa 5 metri dal suolo; scala che si ribaltava a seguito della spinta ricevuta dal brusco movimento del cassero che si stava rimuovendo e sul quale la scala poggiava, brusco movimento dovuto alla messa in tensione delle funi della gru, condotta dal D.M. [responsabile del cantiere, n.d.r.], ed alle quali il cassero era stato precedentemente agganciato dallo stesso infortunato.”
Nel loro ricorso gli imputati hanno fatto presente “che l’incidente si sarebbe verificato per un’improvvisa raffica di vento, fenomeno meteorologico imprevedibile nella zona occupata dal cantiere e tale da escludere la rimproverabilità soggettiva dell’evento.”
La Cassazione ha sottolineato in proposito che “la Corte territoriale ha esaminato tale tesi difensiva […] e l’ha disattesa all’esito di puntuali e corrette considerazioni, rilevando che proprio la condizione atmosferica avversa, oggettivamente percepita come pericolosa rispetto al tipo di intervento in atto, avrebbe dovuto indurre alla sospensione immediata dei lavori, che si stavano svolgendo in quota in dispregio delle più elementari norme di sicurezza, su una scala a pioli del tutto instabile, non ancorata al suolo, senza la presenza di un secondo operatore a terra che la sorreggesse e senza che il lavoratore indossasse alcun presidio di protezione individuale.”
La Suprema Corte ha poi precisato che “proprio la presenza del forte vento - come osserva in maniera ineccepibile la Corte di merito - rende insuperabile, anche facendo ricorso solo alle norme di comune diligenza, l’affermazione della responsabilità degli imputati, posto che l’adozione di una di queste precauzioni idonee a stabilizzare la scala ancorandola al suolo ne avrebbe impedito il ribaltamento, cui è conseguita la caduta del lavoratore.”
La Cassazione ha altresì rigettato il motivo di ricorso degli imputati “con cui si invoca, indifferentemente, l’esimente del caso fortuito o della forza maggiore, richiamando gli arresti giurisprudenziali che definiscono il caso fortuito come “un avvenimento imprevisto che si inserisce all’improvviso nell’azione del soggetto e non può nemmeno a titolo di colpa farsi risalire all’attività psichica dell’agente” (Sez. 4, n. 6982/13 del 19/12/2012, Rv. 254479), e la forza maggiore come “una vis maior cui resisti non potest, cioè un evento derivante dalla natura o dai fatto dell’uomo, che non può essere prevedibile o, che, anche se prevedibile, non può essere impedito” (Sez. 6, n. 1018 del 05/07/1979, Rv. 144063).”
In conclusione, nel caso di specie è “evidente allora che, poste le plurime violazioni da parte degli imputati delle norme prevenzionali, il vento poteva solo contribuire a rendere ancor più pericoloso il lavoro in quota e dunque costituire ulteriore elemento che avrebbe dovuto indurre all’adozione delle necessarie cautele di sicurezza.”
La conoscibilità, la “concreta” prevedibilità ex ante e la prevenibilità
Con una sentenza di poco antecedente a quella appena esaminata (Cassazione Penale, Sez.IV, 9 marzo 2020 n.9216), la Suprema Corte ha accolto il ricorso di un datore di lavoro di un operaio (A.G.) operante in regime di somministrazione “quale addetto alle presse.”
La dinamica dell’infortunio è la seguente: “l’A.G., nell’eseguire un’operazione di stampaggio di componenti plastici su una pressa, posizionava tali componenti sul relativo stampo, introducendo in tale occasione il braccio sotto la matrice dopo avere aperto il riparo di protezione; prima che l’A.G. potesse chiudere tale riparo ed estrarre il braccio, la matrice iniziava a muoversi e colpiva la mano dell’operaio incastrandola sul punzone e cagionando le lesioni traumatiche da schiacciamento…”.
Pertanto, secondo l’addebito, il datore di lavoro “avrebbe violato in particolare l’art.71, comma 1, D.Lgs.n.81/2008, per avere messo a disposizione dei dipendenti un macchinario sprovvisto di adeguati sistemi di sicurezza, ossia nella specie di un’adeguata protezione che impedisse di raggiungere con gli arti la zona pericolosa della macchina.”
La Corte d’Appello aveva confermato la condanna dell’imputato.
La Cassazione invece, come anticipato, ha accolto il ricorso del datore di lavoro annullando con rinvio la sentenza della Corte d’Appello.
Secondo la Suprema Corte, sarebbe stata necessaria una “una verifica che si estenda dal profilo squisitamente causale […] alla stessa conoscibilità, prevedibilità ex ante e prevenibilità del rischio da parte dell’imputato, passando per le peculiarità che caratterizzano il caso di specie.”
Invece la Corte d’Appello sarebbe pervenuta “apoditticamente all’affermazione di responsabilità del G.R. [datore di lavoro, n.d.r.] attraverso i seguenti tre passaggi: l’infortunio si è verificato per un malfunzionamento del macchinario; il malfunzionamento era dovuto a cattiva manutenzione della macchina; la cattiva manutenzione della macchina era, come tale, imputabile al datore di lavoro”.
A tale impostazione la Cassazione ha obiettato però che “tuttavia, dei suddetti tre passaggi, solo il primo risulta univocamente accertato, essendo certo e incontestato che il difetto insito nel macchinario (che si metteva in movimento prima che lo sportellino di protezione si chiudesse) rappresentasse oggettivamente uno scostamento rispetto alle corrette modalità di funzionamento di tale dispositivo di sicurezza...”.
Invece “sul fatto che tale malfunzionamento fosse dovuto a manutenzione, l’assunto della Corte distrettuale è assertivo, ma risulta contrastato dal contenuto della deposizione del teste di riferimento (M., tecnico della prevenzione): il quale, come correttamente osservato dal ricorrente, ha individuato la carenza di manutenzione come una tra le possibili cause del difetto, ma non come la causa esclusiva.”
Inoltre - secondo la Cassazione - la Corte d’Appello “si sarebbe dovuta confrontare con i dati offerti dal teste a discarico A. sulla regolarità delle manutenzioni del macchinario, dati riscontrati dalla scheda di manutenzione della macchina, in base alla quale risulta che addirittura la manutenzione venne effettuata anche il giorno prima.”
In ogni caso, “anche volendo ipotizzare che effettivamente vi fosse stato un difetto di manutenzione tale da impedire che venisse corretto il malfunzionamento del dispositivo di sicurezza, occorrerebbe poi - e siamo al terzo passaggio - accertare che di tale difetto di manutenzione debba rispondere il datore di lavoro. Per far ciò occorrerebbe però verificare se le eventuali carenze nella manutenzione del macchinario fossero conosciute o conoscibili da parte del G.R., nella sua qualità datoriale.”
In particolare, “risulta che egli [il datore di lavoro, n.d.r.] avesse designato un responsabile per la manutenzione delle macchine (nella persona dell’A., chiamato a deporre come teste a discarico) e che fosse disponibile una scheda manutenzione indicante che tale operazione veniva eseguita con frequenza settimanale; non risulta, viceversa, che l’inconveniente al dispositivo di sicurezza alla base dell’infortunio si fosse mai precedentemente verificato.”
Dunque a parere della Cassazione la Corte d’Appello “non ha argomentato, ma ha meramente asserito, che il presunto - e non dimostrato - difetto di manutenzione fosse tale da conclamare la responsabilità datoriale, senza alcuna disamina in ordine alla conoscibilità di tale difetto e, conseguentemente, alla concreta prevedibilità ex ante, da parte dell’odierno ricorrente, del verificarsi di un infortunio del tipo di quello occorso alla persona offesa, nonché alla possibilità di disporre un apposito intervento per prevenire ed evitare simili eventi, in presenza di compiti di manutenzione che risultavano comunque affidati a soggetto fiduciario appositamente individuato (l’A.) ed assolti con la dovuta frequenza; e non essendo emersi precedenti, analoghi episodi di malfunzionamento.”
La prevedibilità e la condotta colposa del lavoratore
Concludiamo questo sintetico contributo, condotto come sempre senza pretese di esaustività, con il principio espresso (o, per meglio dire anche in questo caso, ribadito) dalla recente Cassazione Penale, Sez.IV, 2 marzo 2020 n.8164 secondo cui “in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia”.
Come ricordato dalla Cassazione, “anche recentemente, questa stessa Sezione ha avuto modo di affermare che, in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore faccia venir meno la responsabilità del datore di lavoro, occorre un vero e proprio contegno abnorme del lavoratore medesimo, configurabile come un fatto assolutamente eccezionale e del tutto al di fuori della normale prevedibilità, quale non può considerarsi la condotta che si discosti fisiologicamente dal virtuale ideale (cfr. Sez.4, n.7188 del 10/01/2018 Ud. - dep.14/02/2018- Rv.272222 Sez.4, n.22249 del 14/03/2014 Ud.-dep.29/05/2014- Rv.259227).”
Anna Guardavilla
Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro
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Rispondi Autore: Enzo - likes: 0 | 01/07/2020 (09:09:28) |
Articolo molto interessante |
Rispondi Autore: Anna Guardavilla - likes: 0 | 01/07/2020 (12:46:14) |
Grazie Enzo, molto gentile. Anna Guardavilla |
Rispondi Autore: lui che sa - likes: 0 | 02/07/2020 (11:28:31) |
Concordo, articolo SNELLO e chiaro. Complimenti. |
Rispondi Autore: Anna Guardavilla - likes: 0 | 02/07/2020 (14:14:26) |
Grazie mille, ne sono davvero lieta. |