Il consulente per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro
L’attuale situazione
Guardando ai dati diffusi dall’INAIL, nell’anno appena trascorso, sono in aumento le denunce presentate. In particolare, le denunce di infortunio tra gennaio e dicembre 2018 sono state 641.261 (+0,9% rispetto al 2017, quando erano state 635.433). Di queste, 1.133 con esito mortale (+10,1%, ossia 104 in più rispetto alle 1.029 del 2017). Sono risultate in aumento anche le patologie di origine professionale denunciate, che sono state 59.585 (+2,5%, pari a 1.456 casi in più rispetto ai 58.129 dell'anno precedente). Anche se, in effetti, sono dati in valore assoluto e che, per dare indicazioni su un effettivo trend, necessitano di essere “pesati” quantomeno sulle ore lavorate, restano comunque dati allarmanti.
L’aspetto più preoccupante di questa situazione è che, ancora oggi, la sicurezza sul lavoro viene percepita, dalla quasi totalità dei soggetti coinvolti, come un insieme di norme e procedure che non produce valore alcuno e, anzi, va ad intralciare le normali attività produttive.
Prova ne è che durante i dibattiti, nei vari convegni e seminari tenutisi nell’ultimo decennio, raramente sono state richieste, dai partecipanti, informazioni riguardanti le strategie aziendali da attuare per organizzare e gestire un sistema di prevenzione all'interno delle aziende.
La maggior parte dei convenuti si è preoccupata solo di conoscere quali fossero gli obblighi e le relative sanzioni e, soprattutto, quali potessero essere le azioni da attuare per diminuire l'impatto delle nuove norme sulla propria organizzazione aziendale.
Inoltre, molti degli “strumenti” proposti per risolvere i problemi delle aziende in materia di sicurezza e tutela della salute e diffusisi in questi anni, si sono rivelati palesemente inefficaci: pubblicazioni, software, ecc. .
Riguardo le cause degli infortuni, con una superficiale analisi, ci accorgeremmo che queste sono le stesse di più di sessanta anni fa, quando il legislatore aveva varato i famosi “decreti presidenziali” degli anni ‘50; ad esempio:
- in cantiere si muore perché si cade dall’alto per la mancanza di parapetti o per la rottura di un elemento di copertura o si viene schiacciati da macchine movimento terra, ecc.;
- in una carpenteria metallica, si muore perché si viene schiacciati in una pressa o perché si ribalta un muletto o schiacciati da un carico, ecc;
- in un’azienda agricola si muore perché il trattore si ribalta o perché esplode un silo di granaglie o per le esalazioni da una cisterna di liquame, ecc.;
- in un impianto petrolchimico si muore durante un intervento di manutenzione… ma con la differenza che adesso si tratta dei dipendenti delle imprese appaltatrici a cui è stato esternalizzato il lavoro.
Tutto ciò ha fatto e fa emergere, una volta ancora, l'approccio mentale con cui abbiamo sempre affrontato questi problemi; infatti, abbiamo sempre visto gli obblighi di legge del D. Lgs. n° 81/2008, solo come tali e non come una strada da seguire per promuovere e sviluppare una "cultura della sicurezza" a tutti i livelli ed i cui influssi positivi si traducano in una migliore organizzazione/razionalizzazione dei processi aziendali con il conseguente aumento dell'efficienza produttiva delle aziende.
Dunque, era ed è necessario non limitarsi ad intervenire sul livello oggettivo della sicurezza delle macchine, degli impianti e degli ambienti di lavoro ma è indispensabile verificare la consistenza e la coerenza organizzativa finalizzate all’attività preventiva verificando e, se necessario, intervenendo sullo spessore della politica aziendale, sul livello delle competenze interne e sul grado di definizione dei ruoli e delle funzioni.
Tutti questi fattori concorrono a determinare la “cultura della sicurezza dell’organizzazione” e cioè la provata esistenza della sicurezza sul lavoro tra i principi e i valori che regolano il rapporto tra gli individui e l’organizzazione stessa.
In generale, dunque, non ci si può limitare ad accrescere le conoscenze ed a sviluppare le capacità degli individui nell’ambito della sicurezza ma bisogna necessariamente agire sugli atteggiamenti verso di essa in modo da modificare i comportamenti.
I modelli comportamentali relativi alla sicurezza sul lavoro sono imposti da obblighi normativi e procedurali che, in quanto tali, determinano indirizzi e modalità attuative ma, di per sè, non forniscono motivazioni adeguate.
Il problema di fondo diventa dunque quello di cambiare un comportamento imposto e non sempre condiviso, in uno pienamente accettato, in quanto la sicurezza sul lavoro diventa parte integrante dell’esperienza lavorativa di ciascun individuo.
Progettare e attuare questo tipo di interventi non è semplice e necessita di competenze adeguate non sempre possedute da coloro che, all’interno o all’esterno delle aziende, hanno ricevuto l’incarico di guidare le stesse lungo un percorso in grado di portarle almeno a raggiungere e mantenere un accettabile livelli di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
Se da una parte l’incarico di responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP) è stato spesso assegnato a soggetti interni non in possesso di adeguate competenze, altrettanto può dirsi per gli incarichi consulenziali assegnati a professionisti e società esterne che si sono offerti alle aziende.
Ovviamente, dopo oltre un decennio, quest’andazzo ha concorso a produrre i risultati citati all’inizio di quest’articolo.
Alcune aziende tra le più attente e sensibili al problema, dopo aver speso decine se non centinaia di migliaia di euro con consulenti o società di consulenza per la sicurezza sul lavoro ( consulenti per la sicurezza), constatando che il più intuitivo degli indicatori reattivi come l’andamento degli infortuni sul lavoro, non aveva subito alcun mutamento, si stanno domandando cosa non abbia funzionato e, soprattutto, stanno cominciando a rivedere il rapporto con i consulenti della sicurezza sotto il profilo strettamente qualitativo del servizio offerto.
L’attività del consulente per la sicurezza
In genere la consulenza richiesta è funzione di quella che è la visione e la conoscenza del problema da parte delle stesse imprese. Al consulente, fino ad oggi, è stato prevalentemente richiesto di supportare l’azienda nell’adeguamento alle norme di legge vigenti fornendo o integrando le informazioni pertinenti, analizzando le situazioni lavorative, individuando i rischi presenti e indicando le misure di sicurezza da adottare per ovviare agli stessi e così via.
Ancor oggi, quasi mai ai consulenti viene richiesto di effettuare un'indagine approfondita, al fine di appurare l'esistenza di eventuali problemi organizzativi con ricadute sulla sicurezza, oppure difficoltà nei flussi comunicativi inerenti le tematiche della sicurezza e non, o, ancora, indicare dei modelli di comportamento per le aziende al fine di facilitare la soluzione dei problemi e i processi decisionali, ecc..
Tutto ciò porta al sorgere di due tipi di problemi.
Il primo riguarda il perpetuarsi di un'autodiagnosi errata dell'azienda (frutto principalmente della concezione esclusivamente normotecnica della sicurezza), che, credendo di sapere esattamente cosa vuole e come lo vuole, richiede esclusivamente un supporto tecnico-normativo al consulente, spesso scegliendo con il criterio del minor costo del servizio.
Questo approccia rafforza la validità del solito detto: <<Ogni azienda ha il consulente che si merita!>>
Il secondo tipo di problema riguarda l'interpretazione del ruolo del consulente; egli, in base alla richiesta dell'impresa, fornisce un supporto, insufficiente per comprendere e risolvere, nella globalità, i problemi esistenti.
In Italia, dalla disamina effettuata ed a più di un decennio dall’entrata in vigore del D. Lgs. n° 81/2008, affiora la necessità di organizzare e gestire l'attività di consulenza in materia di sicurezza e tutela della salute secondo criteri alternativi a quelli che, fino ad oggi, sono stati seguiti e rivedere completamente il ruolo rivestito dai consulenti ai quali buona parte delle aziende continueranno a ricorrere.
Oggi, nel nostro paese, esistono forti resistenze ad affrontare in modo diverso le tematiche della sicurezza e della tutela della salute, dovute per lo più ad una mentalità, largamente diffusa, non solo tra il personale delle aziende, ma anche tra tutti gli addetti ai lavori e gli organismi di vigilanza, secondo la quale sono stati sempre privilegiati gli aspetti tecnico-normativi della prevenzione, trascurando quasi completamente gli aspetti organizzativi, gestionali e sociopsicologici.
La maggioranza degli operatori del settore non sono ancora attrezzati nè funzionalmente, nè psicologicamente, per assolvere questi compiti, ma soprattutto non possiedono le competenze richieste per gestire il proprio ruolo.
Non riesce ad emergere una vera funzione di supporto e di consulenza, mentre è proprio su questa nuova interpretazione del ruolo, indirizzata allo sviluppo di capacità non solo tecniche, ma anche organizzative, gestionali e relazionali, che è necessario insistere per la reale integrazione della sicurezza nel processo produttivo.
Ovviamente, è necessario chiarire che non si sta parlando di un “tuttologo” o del “consulente universale”, in grado di risolvere tutti i problemi di sicurezza di un’azienda, in quanto questa figura non esiste e non esisterà mai proprio per le tante variabili che caratterizzano qualunque iniziativa riguardante la sicurezza sul lavoro (normotecniche, economiche, comportamentali, organizzative, ecc.). Si sta parlando, invece, di un soggetto in grado di assumere un ruolo di "catalizzatore", con alle spalle un back-ground culturale in materia non indifferente, che unisca, alla tradizionale formazione tecnica specialistica, anche la capacità di spaziare in altri campi, come ad esempio quello organizzativo, gestionale, comportamentale, ecc., in modo tale da poter individuare i problemi complessi tipici dell'attività di prevenzione e protezione dai rischi.
In altre parole, i consulenti devono, fondamentalmente, possedere la capacità di analizzare e valutare i processi organizzativi per la gestione della sicurezza, di definire i reali bisogni delle imprese individuando le aree di intervento e consigliando le azioni specialistiche da adottare (sull’organizzazione, sui comportamenti, ecc., ovviamente con specialisti in questi campi) nonchè supportando le varie figure aziendali nei processi decisionali.
I consulenti dovrebbero possedere soprattutto le capacità diagnostiche necessarie per individuare i malfunzionamenti dell'organizzazione impresa aventi ricadute sulla sicurezza e determinare le azioni correttive da apportare.
Il ruolo del consulente non può, quindi, limitarsi ad esaudire una domanda formulata da una clientela che, nella maggior parte dei casi, non ha che una parziale visione del problema, ma deve, invece, indirizzarsi verso un'interpretazione del ruolo atta far percepire e comprendere, alle aziende clienti, le reali dimensioni del problema e le possibilità di intervento.
Ciò comporta la necessità di dover, quasi sempre, ridefinire la domanda del cliente, indirizzandolo e stimolandolo adeguatamente, in modo da farne emergere i reali bisogni.
Il ruolo del consulente, vuoi per la domanda di mercato, vuoi per le competenze esclusivamente limitate al campo tecnico-normativo, è stato sempre percepito dalle aziende come depositario del sapere, dispensatore di aiuto, erogatore di norme e procedure di sicurezza, risolutore dei problemi aventi carattere esclusivamente normativo e tecnico.
Non riesce, invece, ad emergere un ruolo tendente a supportare le imprese clienti nell'individuazione delle soluzioni, facilitandone i processi decisionali e cioè, in definitiva, creando o favorendo l'orientamento a ricercare al proprio interno, ove possibile, le capacità necessarie per comprendere, affrontare e risolvere i problemi connessi alla sicurezza ed alla tutela della salute.
Tradurre, anche con supporti specialistici, questi concetti in azioni efficaci nelle aziende è indubbiamente tutt'altro che facile.
Ancora oggi, non possiamo negarlo, in molte aziende, a prescindere dalle dimensioni, ci si trova di fronte, principalmente, problemi inerenti i ruoli organizzativi (in genere non chiaramente definiti), insufficienti competenze dei soggetti coinvolti, insufficiente capacità di percezione dei rischi da parte del personale e, soprattutto, insufficienti motivazioni a lavorare in sicurezza.
All'interno dell'azienda tutto il personale, nelle differenti funzioni e ai vari livelli, deve essere coinvolto nella organizzazione e gestione della sicurezza, mediante la costituzione di gruppi di lavoro al fine di favorire l’individuazione degli obiettivi di sicurezza; esso deve esser coinvolto nell'individuazione delle azioni da realizzare, singolarmente o collettivamente.
Gli obiettivi fissati secondo una ben precisa priorità, dovranno consentire non solo di ottenere e mantenere nell’azienda condizioni di sicurezza e tutela della salute rispondenti alle norme di legge vigenti ma, soprattutto, spingere l’organizzazione verso percorsi di miglioramento continuo delle proprie prestazioni.
La loro realizzazione, o non realizzazione, dovrà essere controllabile, prevedendo, eventualmente, le azioni correttive in caso di mancata o insufficiente raggiungimento.
Una volta fissati, gli obiettivi dovranno essere ampiamente pubblicizzati e diffusi all'interno dell'azienda.
Fondamentale risulta poi una chiara ripartizione dei compiti di prevenzione, definendo nel dettaglio le funzioni, le responsabilità e l'autonomia decisoria.
Il fine è quello di poter affrontare, in modo efficiente, le problematiche della sicurezza, favorendo, nel contempo, l'integrazione tra le diverse competenze presenti; con questa azione sarà, inoltre, possibile attivare un processo di crescita professionale per i protagonisti, in quanto il chiaro e diretto coinvolgimento nelle attività organizzative e gestionali della sicurezza, porterà ciascuno a considerare la sicurezza e la tutela della salute come elemento essenziale delle proprie funzioni, nell'ambito delle proprie competenze e responsabilità.
Infine, oltre a motivare il personale, nelle varie funzioni ai differenti livelli, attivando processi partecipativi alle decisioni che riguardano la sicurezza e la salute, sarà possibile ottenere il miglioramento della qualità dei processi comunicativi, essenziali per il buon funzionamento di tutte le strutture organizzative.
Quindi, il consulente deve far comprendere all’azienda cliente l’assoluta necessità di intervenire sugli individui, ai vari livelli e nelle differenti funzioni, affinchè si sviluppino motivazioni adeguate al raggiungimento degli obiettivi inerenti la sicurezza e la tutela della salute, tenendone conto, ad esempio, nei sistemi di valutazione delle prestazioni, nei piani di sviluppo di carriera, ecc., in modo da far percepire l’impegno concreto dell’azienda su queste problematiche.
Il consulente deve convincere l’azienda cliente che il proprio obiettivo fondamentale deve essere quello di cambiare il “modo di essere” dei propri addetti nei confronti della sicurezza.
Ciascun individuo deve essere messo in grado di percepire il problema del cambiamento come un suo problema personale in quanto, gli atteggiamenti e poi i comportamenti possono mutare solo se accanto all’acquisizione di conoscenze, egli percepisce nuove situazioni e, soprattutto, nuovi valori di riferimento da condividere.
Un programma per il miglioramento del livello di sicurezza rischia di rimanere un semplice esercizio didattico se non progressivamente adattato alle dinamiche del processo produttivo.
In altri termini, è fondamentale che il consulente si adoperi affinchè si attivi un continuo processo di applicazione e sperimentazione delle misure di sicurezza, in grado di determinare un feedback correttivo sulle modalità di organizzazione e gestione delle attività all'interno dell'azienda.
Ciò potrà ottenersi organizzando un sistema di monitoraggio e controllo con la partecipazione di tutto il personale; funzione principale del sistema sarà appunto quella di governare il processo di individuazione, valutazione e controllo dei rischi che si manifestano nei reparti e la successiva adozione di idonee misure di sicurezza e comportamenti adeguati.
Per ogni singolo reparto dovranno essere definiti i criteri da adottare per il controllo della sicurezza nelle relative aree di pertinenza.
Per far sì che questo avvenga è necessario, come detto in precedenza, attivare un continuo processo di informazione, formazione e sensibilizzazione di tutto il personale presente in azienda, in modo tale che esso possa acquisire una maggiore capacità nel percepire i rischi esistenti segnalandone l'esistenza e, soprattutto, sviluppare una maggiore capacità nell'adottare i comportamenti più adatti per prevenirli.
Il consulente, quindi, dovrà agire in modo tale che l’attività di monitoraggio e controllo venga percepita da tutto il personale dell'azienda come momento di potenziale apprendimento (intervento, colloquio, comprensione del problema e ricerca comune di soluzioni).
Solo così la funzione di "controllo" potrà evolversi, integrandosi nelle normali procedure di controllo dell'efficienza organizzativa ed assumere la funzione di indicatore dell'affidabilità del sistema produttivo azienda, in quanto, è bene ricordarlo, gli infortuni e gli incidenti ma anche, più tardi al manifestarsi, le malattie professionali, non sono altro che gli indicatori di un malfunzionamento del sistema organizzativo in cui essi si verificano.
Carmelo G. Catanoso
Ingegnere Consulente di Direzione
I contenuti presenti sul sito PuntoSicuro non possono essere utilizzati al fine di addestrare sistemi di intelligenza artificiale.
Pubblica un commento
Rispondi Autore: Marco Comazzi - likes: 0 | 07/02/2019 (08:21:23) |
Condivido appieno l'analisi dell'Ing. Catanoso in merito alla consulenza in tema di sicurezza. Da anni ormai mi occupo di progettazione formativa e di docenza per il percorso Formativo "Tecnico Ambiente Energia e Sicurezza" erogato sul profilo professionale standard relativo, presso Euroqualità Soc. Coop. Ente Formativo acccreditato presso la Regione Piemonte, e prima ancora presso altri Agenzie. La specializzazione in uscita (EQF 5) è quella di un metodologo capace di vedere come la gestione della sicurezza e dell'impatto ambientale debbano necessariamente integrarsi con i processi organizzativi aziendali. Il processo di allontanamento dalla percezione del consulente della sicurezza come un tuttologo tecnico deve essere l'obiettivo comune, nella convinzione che l'azienda è una ed i sistemi che la governano debbano essere necessariamente integrati e funzionali alla sua gestione. |
Rispondi Autore: Dott. Agr. Maurizio Aurgi - likes: 0 | 07/02/2019 (09:07:20) |
Condivido le idee dell'Ing. Catanoso e anche quelle di Marco Monzazzi rispetto a quanto possano fare i consulenti ed i formatori per creare nelle aziende la consapevolezza delll'importanza della sicurezza e della salute dei lavoratori. Mi permetto di aggiungere che anche l'ente di controllo dovrebbe, a mio avviso, attivarsi ed agire in questo senso, perchè una iniziativa dell'ente di controllo volta alla prevenzione puo' essere molto incisiva e convincente per le aziende. |
Rispondi Autore: CARLO TIMILLERO - likes: 0 | 07/02/2019 (10:43:53) |
Condivido e riassumo - meno FORMA più SOSTANZA. Ricordando ciò che dice l'81 rispetto al DVR ( art.28 c.2): " La scelta dei criteri di redazione del documento è rimessa al datore di lavoro, che vi provvede con criteri di semplicità, brevità e comprensibilità, in modo da garantirne la completezza e l’idoneità quale strumento operativo di pianificazione degli interventi aziendali e di prevenzione. Se gli organi di vigilanza iniziassero a verificare questo aspetto probabilmente qualcosa cambierebbe. |
Rispondi Autore: Leonardo cornacchia - likes: 0 | 10/02/2019 (09:02:41) |
Dal 2018 esiste l'ordine/albo dei tecnici della prevenzione, formati a livello universitario e capaci di fare sicurezza. Se pensiamo che un geometra possa sostituirsi a questa professione avanti tutta evviva l'Italia dove tutti possono fare tutto e intanto si pagano gli ordini che non tutelano la professione. |
Rispondi Autore: carmelo catanoso - likes: 0 | 11/02/2019 (19:21:34) |
Non vedo perché un geometra non possa occuparsi di sicurezza sul lavoro, ad esempio, per un'impresa edile. Poi non conta solo il titolo di studio ma anche l'esperienza maturata sul campo. Del resto, vale la pena di ricordare che tra i TdP citati, una buona parte di coloro che operano negli organismi di vigilanza e già attivi nei primi anni del duemila ed in possesso del solo diploma, hanno conseguito la laurea non con un corso triennale o quinquennale ma con un anno di corso presso alcune università italiane e dimostrando di aver maturato 5 anni di esperienza di servizio nell'ente di vigilanza. Evidentemente, conta anche l'esperienza anche e soprattutto per i TdP che operano nel settore pubblico. Ovviamente ricordo che quel conta realmente è la QUALITA' dell'esperienza e non la quantità perché l'esperienza di 30 anni potrebbe essere l'esperienza di un anno ripetuta 30 volte. |