Certificazione dei contratti e spazi confinati: dubbi e letture alternative
Urbino, 9 Lug – Il Decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 177 (Regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinanti) prescrive “la certificazione dei contratti di lavoro come strumento per garantire l’utilizzo di personale specializzato in attività ad alto rischio infortuni, come quelle che si svolgono negli ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento”. Questa normativa, sebbene sia “chiara nella finalità di promozione di una migliore cultura prevenzionistica in un settore connotato dal forte pericolo di tragici eventi lesivi”, ha tuttavia “generato, sin dalla sua introduzione, diverse perplessità, a partire dalla definizione dell’oggetto dell’obbligo certificatorio”.
Si tratta di dubbi che due note dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, la n. 694 del 24 gennaio 2024 e la n. 1937 del 7 marzo 2024, “cercano di dipanare, fornendo un’interpretazione letterale e restrittiva del perimetro applicativo della previsione contenuta nel regolamento del 2011”.
A raccontarlo è l’abstract di un contributo pubblicato sul numero 1/2024 di “Diritto della sicurezza sul lavoro”, rivista online dell'Osservatorio Olympus dell' Università degli Studi di Urbino, uno dei tanti contributi che in questi anni hanno affrontato il tema della certificazione dei contratti nell’ambito dei servizi resi in ambienti sospetti di inquinamento o confinati in regime di appalto o subappalto.
Il contributo – dal titolo “La certificazione dei contratti di lavoro in ambienti confinati e sospetti di inquinamento alla luce delle recenti note dell’INL” e a cura di Maria Barberio, ricercatrice di Diritto del lavoro dell’Università di Modena e Reggio Emilia – è un saggio che riproduce, con integrazioni e note bibliografiche, la relazione svolta il 12 aprile 2024 al convegno «La certificazione dei contratti di lavoro in ambienti confinati e sospetti di inquinamento (D.P.R. n. 177/2011). Criticità applicative alla luce delle Note dell’INL nn. 694 e 1937 del 2024», tenutosi presso la Fondazione Marco Biagi.
L’obiettivo del saggio è di verificare l’impatto delle suddette due note INL, “riflettendo sull’eventuale permanenza di criticità applicative” e “caldeggiando un’interpretazione estensiva dell’obbligo certificatorio in ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento, suggerita anche dalla valorizzazione dello strumento certificatorio in chiave di massima promozione della legalità in tema di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”.
Nel presentare il contributo ci soffermiamo sui seguenti temi:
- Gli spazi confinati, la certificazione e il DPR 177: i dubbi interpretativi
- Le risposte ai dubbi interpretativi e l’estensione della certificazione
- La certificazione come strumento per l’adempimento del ‘dovere di sapere’
Gli spazi confinati, la certificazione e il DPR 177: i dubbi interpretativi
Riguardo al contributo ci soffermiamo su quanto indicato dall’autrice nel punto 4 (L’oggetto dell’obbligo certificatorio: un confronto critico con le note INL nn. 694 e 1937 del 2024).
Si indica che “è estremamente complesso inquadrare l’oggetto dell’obbligo di certificazione previsto nel regolamento connesso al DPR 177/2011. E la difficoltà “deriva dalla formulazione, non proprio cristallina, della normativa in esame, che ha portato a sollecitare più volte, mediante diversi interpelli, l’intervento dell’INL” (nelle note si indica che l’intervento era stato anche sollecitato con l’Interpello n. 6/2015).
Il problema è relativo all’art. 2, lettera c), del d.P.R. n. 177/2011 che “caldeggia il ricorso ai contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato negli ambienti confinati e sospetti di inquinamento, scoraggiando, invece, l’utilizzo dei contratti atipici”. Alla suddetta lettera c) si richiede: ‘presenza di personale, in percentuale non inferiore al 30 per cento della forza lavoro, con esperienza almeno triennale relativa a lavori in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, assunta con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ovvero anche con altre tipologie contrattuali o di appalto, a condizione, in questa seconda ipotesi, che i relativi contratti siano stati preventivamente certificati ai sensi del Titolo VIII, Capo I, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. Tale esperienza deve essere necessariamente in possesso dei lavoratori che svolgono le funzioni di preposto’.
Dalla formulazione della norma emergono – continua il contributo - “alcuni dubbi interpretativi importanti. Il primo concerne il riferimento al trenta per cento della forza lavoro con esperienza triennale: questo limite vale solo per gli assunti a tempo indeterminato, mentre i lavoratori con contratti atipici devono avere tutti una esperienza triennale? Questi contratti devono essere tutti certificati o soltanto quelli che concorrono al raggiungimento del trenta per cento dei lavoratori con esperienza triennale? Inoltre, oggetto di certificazione sono solo i contratti atipici dei lavoratori impiegati dall’appaltatore od anche il contratto (commerciale) di appalto? Ed ancora, devono essere certificati pure i contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato stipulati con il committente ovvero anche con l’appaltatore”?
Le risposte ai dubbi interpretativi e l’estensione della certificazione
Con riferimento ai quesiti/dubbi posti, si indica che l’ultimo quesito sembrerebbe il più semplice da risolvere, “giacché la formulazione della norma, almeno in questo punto, pare chiara, nel momento in cui introduce l’obbligo di certificazione ‘in questa seconda ipotesi’, ossia quella in cui si ricorra ad altre tipologie contrattuali o di appalto”.
In realtà la formulazione della nota INL n. 694/2024 aveva “alimentato il dubbio che oggetto di certificazione fossero anche i contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Ragion per cui, l’INL ha, poi, chiarito di aver proposto una modifica alla norma del d.P.R. n. 177/2011, ma che nelle more di un intervento legislativo, e al fine di non sovraccaricare le attività delle Commissioni di certificazione e di evitare possibili contenziosi, occorra osservare la lettera della legge, che riferisce l’obbligo certificatorio ai soli contratti atipici e non anche ai contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato”.
Riguardo poi al dubbio inerente all’aspetto quantitativo della certificazione, “una prima interpretazione, meramente letterale, porterebbe a dire che debba avere esperienza triennale soltanto il trenta per cento dei lavoratori impiegati negli ambienti confinati o sospetti di inquinamento, assunti vuoi con contratto di lavoro a tempo indeterminato, vuoi con contratti atipici od impiegati in un appalto. A questa interpretazione sembra non aderire però la nota dell’INL n. 694 del 2024, che parla di ‘certificare i relativi contratti del personale utilizzati dall’appaltatore’, svincolandosi dal limite del trenta per cento indicato dalla norma e, dunque, dalla lettera della stessa”.
Si segnala che la previsione del trenta per cento “era probabilmente da valutare nell’introduzione del regolamento come un entry level, fissato per evitare di gravare immediatamente le imprese dell’onere di attivare tanti procedimenti certificatori; esso, dunque, potrebbe non essere più giustificabile a quasi 13 anni dall’entrata in vigore del regolamento”. Ma tale conclusione si scontra, però, con l’argomento letterale, chiaro ed univoco nel limitare l’oggetto della certificazione al trenta per cento della forza lavoro”. E di conseguenza, può affermarsi “che oggetto di certificazione sono i contratti di lavoro diversi da quello di tipo subordinato a tempo indeterminato, riferendosi, così, a tutte le altre tipologie contrattuali, laddove tali contratti concorrano a formare il trenta per cento dei lavoratori con esperienza triennale”.
Più complessa ancora è la questione dell’obbligo di certificazione dell’appalto, “escluso dall’INL sulla scorta dell’argomentazione per cui manca una previsione esplicita in tal senso, come quella presente per il subappalto. Si tratta di un’interpretazione letterale che difficilmente può essere messa in discussione: la norma parla solo di certificazione “dei relativi contratti di lavoro” quando si ricorra all’appalto. Il fatto che il dato letterale sia univoco non rende questa prospettiva necessariamente appagante, specie laddove vi siano altri argomenti che militano in senso opposto”.
Il contributo si sofferma su tali argomenti, a partire dal fatto che il DPR “trova(va) il suo referente normativo” nell’art. 27 del Decreto legislativo 81/2008, “il quale al primo comma, riferiva testualmente dell’applicazione di determinati standard contrattuali e organizzativi, ‘anche in relazione agli appalti e alle tipologie di lavoro flessibili certificati ai sensi degli artt. 75 e ss. del d.lgs. 276 del 2003’”. Inoltre “l’estensione all’appalto sarebbe giustificata dalla comunanza di ragioni con il divieto di stipula di subappalti non autorizzati e non certificati, contenuto all’ultimo comma dell’art. 2 del d.P.R. n. 177/2011. Siffatto divieto poggia sul chiaro nesso ravvisabile tra frammentazione del lavoro, decentramento produttivo e integrazione delle attività produttive in più imprese, da un lato, e aumento del rischio per salute e sicurezza sul lavoro dall’altro, derivante vuoi dalla possibile evanescenza della titolarità dell’obbligo prevenzionistico, vuoi dall’aggiunta di rischi aggiuntivi ed interferenziali, derivanti dalla sovrapposizione spazio-temporale delle attività produttive”.
Ed è dalla valorizzazione di alcuni principi in tema di salute e sicurezza, “tra cui quello dell’esistenza di un dovere pubblicistico di sicurezza, di effettività della posizione di garanzia e di responsabilizzazione del committente, nonché da un’interpretazione sistematica e teleologica delle norme menzionate e dalla qualificazione della certificazione come strumento di due diligence che si può ritenere che l’appalto debba essere certificato”.
Comunque è chiaro che, “se si cerca un riferimento letterale a quest’obbligo, esso manca, come correttamente afferma l’INL, salvo volerlo trovare nel comma 1 dell’art. 27 TUSL; ma è altrettanto vero che i principi dell’impianto prevenzionistico e di qualificazione dell’impresa potrebbero suffragare l’estensione della certificazione anche al contratto di appalto”.
La certificazione come strumento per l’adempimento del ‘dovere di sapere’
Il contributo nelle sue conclusioni (5. Conclusioni: la certificazione come strumento per l’adempimento del “dovere di sapere” di subappalti) ricorda che, come dimostrato anche dai recenti drammatici fatti di Suviana, “il rapporto tra salute e sicurezza e subappalti è tanto immediato quanto tragico. Ciò spiega l’attenzione mostrata anche dal d.P.R. n. 177/2011 al subappalto, atteso, poi, che in alcuni settori la catena produttiva non è mai corta e lineare e raramente si ferma all’appalto”.
E diventa, dunque, indispensabile “responsabilizzare il committente, il quale deve promuovere la protezione antinfortunistica al fine di far aderire la valutazione dei rischi, l’organizzazione della sicurezza e l’apparato di misure predisposto per fronteggiarla, all’evoluzione impressa all’esecuzione dell’attività lavorativa attraverso successivi contratti di subappalto derivati dal contratto di appalto originario; essi infatti innalzano il livello di rischio per la sicurezza sul lavoro, ove non fronteggiato nei termini imposti dalla legge”. E, nello specifico, la certificazione “ha il merito di contribuire a rendere meno evanescente la titolarità dell’obbligo prevenzionistico, cristallizzando tutti gli snodi contrattuali che compongono la catena produttiva. Se l’obbligo di certificazione, difatti, coprisse tutta la filiera, quest’ultima sarebbe passata in rassegna dalla Commissione di certificazione nella sua interezza, a partire dal contratto di appalto che spesso contiene divieti di subappalto che divengono mere clausole di stile, utilizzate per deresponsabilizzare il committente. Ai certifiers sarebbe, quindi, affidato il compito di sensibilizzare le parti, mediante una precisa l’interpretazione letterale, in presenza di situazioni diverse accumunate però, lo si ribadisce, dagli stessi rischi”.
In questa situazione, la certificazione “diventa uno strumento per l’adempimento del «dovere di sapere del subappalto (di informarsi, di prendere conoscenza dell’evoluzione della attività produttiva)» che appare ovviamente strumentale, rappresentando un’essenziale precondizione all’assolvimento dell’obbligo prevenzionistico” (Cass. Civ., Sez. VI, 24 giugno 2020, n. 12465).
Quanto detto nel contributo porta dunque a sostenere che “vi siano diversi elementi che suffragano una lettura alternativa della normativa in esame, che l’INL comprensibilmente rifugge per la preoccupazione di estendere eccessivamente le maglie dell’obbligo certificatorio in assenza di un chiaro dettato normativo”. In particolare, il timore di gravare eccessivamente sulle imprese con oneri certificatori “emerge chiaramente laddove si precisa che ‘Tali certificazioni, ovviamente, potranno essere utilizzate dall’appaltatore per tutta la durata dei rapporti di lavoro cui si riferiscono, a prescindere dalla circostanza che la certificazione sia stata effettuata in occasione dell’appalto’”.
Tuttavia quest’affermazione – indica l’autrice - è preoccupante, “giacché la verifica dei requisiti del d.P.R. n. 177/2011 non può prescindere dalla valutazione degli elementi di rischio delle differenti tipologie di ambienti confinati o sospetti di inquinamento, quali caratteristiche conformative dell’ambiente, dei lavori che devono essere eseguiti e dalla loro durata, nonché dall’analisi degli specifici fattori individuali che possono favorire l’accadimento di eventi infortunistici”. E, al contempo, “anche la formazione e l’addestramento devono essere mirate rispetto alla specifica lavorazione da eseguire: non può immaginarsi che siano verificate una tantum e che, quindi, la certificazione sia dotata del dogma dell’immanenza, senza accertarsi neppure dell’aggiornamento e dell’adeguatezza delle stesse”.
Dopo aver parlato dell’importanza dello strumento della certificazione, l’autrice, in conclusione, evidenzia che “nessuna forma di compliance funziona se non è oggetto di revisione ogni qualvolta intervengano cambiamenti organizzativi e normativi, perché questi impattano sulla mappatura dei rischi, anche in tema di salute e sicurezza”. E la certificazione “può assolvere all’ambizioso ruolo di strumento collettore di cultura prevenzionistica come espediente di un più ampio sistema di qualificazione delle imprese, ma solo se non la si svilisce in un ‘bollino’ valido per tutte le stagioni”.
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Rispondi Autore: Adriano Paolo Bacchetta - likes: 0 | 09/07/2024 (00:31:30) |
Premesso che sarà mia premura leggere con attenzione il contributo da cui è stato tratto l'articolo, io continuo a porre la stessa domanda: dopo quasi tredici anni di applicazione del Decreto, qualcuno è in grado di dirci quanti contratti sono stati certificati? 100, 1.000, 10.000 ? Ma quanti accessi in ambienti sospetti di inquinamento o confinati ci saranno stati nello stesso periodo: 100.000, 1.000.000 o più? Quale sarà il rapporto tra attività certificate e attività svolte senza certificazione? Questo è un dato che sarebbe interessante analizzare. Inoltre, al di là delle opinioni personali, è possibile dimostrare che la certificazione dei contratti di cui al DPR 177/2011 abbia realmente inciso sulle dinamiche infortunistiche favorendo la sicurezza delle attività in questi particolari ambienti di lavoro, ovvero abbia avuto l'effetto desiderato dal Legislatore? |