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Sulla responsabilità per infortuni nell’uso di macchine non sicure
Commento
Viene ribadito dalla Corte di Cassazione un questa sentenza un principio ormai abbastanza consolidato in giurisprudenza e relativo alla individuazione delle responsabilità per un infortunio occorso a un lavoratore durante l’utilizzazione in azienda di una macchina priva dei requisiti essenziali di sicurezza (RES) richiesti dalle disposizioni di legge in materia di salute e di sicurezza sul lavoro. A rispondere dell’evento infortunistico possono essere chiamati a rispondere sia il costruttore che il datore di lavoro dell’infortunato se quanto accaduto risulta essere collegato ad una carenza delle necessarie misure di sicurezza, il costruttore per avere costruito la macchina senza avere eliminato il rischio che ha portato all’infortunio e il datore di lavoro per avere messo a disposizione di un proprio dipendente una macchina carente delle misure di sicurezza previste dalle vigenti disposizioni di legge in materia di salute e di sicurezza sul lavoro.
Il fatto e il ricorso in Cassazione
La Corte di Appello, in riforma di una sentenza del Tribunale che li aveva assolti, ha condannato l’amministratore unico e legale rappresentante di una ditta costruttrice e il rappresentante legale e datore di lavoro di una società alla pena di un mese e dieci giorni di reclusione, ciascuno con i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione, per il delitto di cui all'art. 590 c.p., commi 1 e 3. Era stato contestato agli stessi di avere, per colpa ossia per negligenza, imprudenza ed inosservanza di leggi e regolamenti, cagionato lesioni personali gravi a una dipendente la quale, durante le fasi di lavorazione mediante un macchinario, mentre tentava di rimuovere una falda in alluminio mal posizionata all'interno della stazione di saldatura, veniva in contatto con le teste di termosaldatura della macchina, riportando lo schiacciamento e l'ustione dell'apice del dito indice della mano destra con inabilità al lavoro per complessivi 93 giorni. La contestazione aveva riguardato, in particolare, la violazione dell’art. 6 comma 2 del D. Lgs. n. 626/1994 per il costruttore e dell'art. 35 comma 1 del D. Lgs. n. 626/1994 per il datore di lavoro.
Avverso la sentenza della Corte di Appello i due imputati hanno fatto ricorso per cassazione.
Il datore di lavoro ha motivato il suo ricorso sul fatto che quanto accaduto non era a lui imputabile trattandosi di una mera fatalità eccezionale, abnorme esorbitante ed estranea alle mansioni della dipendente determinata da una sua iniziativa imprevedibile e dalla mancanza di comunicazione tra la stessa e la capomacchina. Il costruttore, dal canto suo, ha contestato l'affermazione fatta dalla Corte di Appello secondo la quale la causa dell'infortunio era da ricollegare al mancato rispetto di una specifica disposizione normativa contenuta nel D.P.R. 24/7/1996 n. 459.
Le decisioni della Corte di Cassazione
I ricorsi sono stati ritenuti dalla Corte di Cassazione infondati e sono stati, pertanto, rigettati. Secondo la stessa Corte la sentenza impugnata aveva offerto una motivazione ampia e congrua e esente da qualsivoglia vizio logico o giuridico, rifacendosi in merito alla ricostruzione del fatto, a quella, ritenuta corretta, della sentenza assolutoria di primo grado. Tale ricostruzione si era rifatta alle dichiarazioni della persona offesa la quale aveva riferito che il giorno dell'infortunio era addetta a posizionare i grissini all'interno delle vaschette ed a controllare che sulle stesse fosse appoggiata correttamente la falda che poi sarebbe stata sigillata. Essendosi la stessa accorta che una di tali falde non era messa bene e sapendo che ciò avrebbe comportato che l'intera vaschetta sarebbe stata scartata, aveva detto a una collega di fermare la macchina cosa che in effetti la stessa ha fatto. La lavoratrice infortunata aveva sistemato la falda ed aveva dato ordine alla collega di riavviare la macchina; tuttavia, accorgendosi, in quel momento, che anche un'altra falda era storta, aveva detto alla collega di aspettare ad azionare il macchinario ma costei lo aveva già fatto, cosicché, all'atto di sistemare anche questa seconda falda, il dito indice della sua mano destra era rimasto schiacciato dalla pressa e l'apice dello stesso veniva ustionato dall'impianto di termo saldatura, poiché quando la macchina era ripartita lei aveva ancora il dito sotto la griglia. L’infortunata aveva poi riferito che seppure le era stato espressamente detto dal datore di lavoro che le falde storte dovevano essere raddrizzate, le era stato anche dato l'avviso che tale operazione avrebbe dovuto essere effettuata a macchina ferma.
La Corte suprema ha fatto presente che, alla luce della deposizione resa da un dipendente del Dipartimento di Prevenzione della A.S.S. che aveva effettuato un sopralluogo a circa 6-7 mesi dall'infortunio, era emerso che, nonostante la corretta attività di formazione del personale organizzata all'interno dell'azienda, il macchinario che aveva cagionato il sinistro non rispettava la normativa sulle protezioni per impedire lesioni alle mani, carenza a cui il datore di lavoro ovviava dopo l'infortunio, dotando il macchinario di una copertura in plexiglass in corrispondenza del passaggio ove era avvenuto il sinistro, copertura apribile schiacciando un microinterruttore che bloccava automaticamente lo scorrimento del nastro.
L'inosservanza di tale regola cautelare, ha fatto presente la Sez. IV, come correttamente del resto ritenuto dalla Corte territoriale, ha implicato la responsabilità di entrambi i ricorrenti che avrebbero ben dovuto acquisire la consapevolezza circa l'inadeguatezza della griglia di protezione esistente all'epoca dell'infortunio, alla luce della oggettiva circostanza che tale presidio era posto a ben 4 cm. dal piano di scorrimento e quindi ad una distanza ampiamente superiore rispetto a quella imposta dalla sopracitata normativa specifica in materia (UNI EN 294). “Né l'intervento manuale, benché imprudente, della lavoratrice”, ha proseguito la suprema Corte, “era idoneo ad interrompere il nesso causale tra la violazione e l'evento dannoso, sicché non si poteva ravvisare una condotta dell'infortunata abnorme ed anomala nonché esorbitante dalle mansioni alle quali la stessa era in concreto adibita e rispetto al procedimento lavorativo, tale da assurgere ad unica ed esclusiva causa dell'infortunio in quanto la sua pur estemporanea iniziativa costituiva comportamento ampiamente prevedibile e compatibile con le caratteristiche tecniche del procedimento produttivo al momento dell'infortunio (da ultimo: Cass. Pen. Sez. 4^, n. 23292 del 28.4.2011, Rv. 250710), onde, al massimo, siffatto comportamento poteva spiegare un'efficienza eziologica concorrente dell'evento lesivo, tenuto conto della oggettiva carenza nel macchinario di appositi strumenti antinfortunistici tesi alla salvaguardia di eventuali lesioni alle mani”.
Considerata la carenza costruttiva riscontrata, ha così concluso la Sez. IV, “non può ritenersi che la ‘Direttiva Macchine’ di cui al richiamato D.P.R. n. 459 del 1996, di tenore palesemente astratto e programmatico, sia stata rispettata in ogni sua parte, proprio perché non risultano ‘eliminati o ridotti i rischi nel miglior modo possibile’, dovendosi, nella previsione dei rischi, includere necessariamente anche quelli scaturenti da gesti che inavvertitamente ovvero istintivamente e finanche imprudentemente (ovvero anche per disattenzione o assuefazione al pericolo: cfr. Cass. pen. Sez. 4^, n. 1352 del 9.10.1992, Rv. 193038), il lavoratore eventualmente ponga in essere durante l'attivazione del macchinario cui è addetto: del resto, la disposizione di cui al D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 68, che fissa le misure protettive per le macchine con riguardo alle zone di operazione in cui si compiono le normali attività durante le quali gli operai possono venire accidentalmente a contatto con gli organi lavoratori delle macchine, non è stata superata dalla previsione di cui al D.P.R. 24 luglio 1996, n. 459”.
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