Per utilizzare questa funzionalità di condivisione sui social network è necessario accettare i cookie della categoria 'Marketing'.
Rischio aggressioni e atti criminali sul lavoro tra safety e security
Secondo la giurisprudenza, l’art.2087 del codice civile, ai sensi del quale “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, è da considerarsi “norma di chiusura del sistema antinfortunistico”.
In applicazione di tale disposizione, infatti, si ritiene che il datore di lavoro non abbia assolto i suoi obblighi in materia di salute e sicurezza sul lavoro quando, pur avendo osservato tutte le prescrizioni specifiche in materia (contenute nel D.Lgs.81/08 e norme collegate), non abbia adottato tutte le misure di prevenzione e protezione rese necessarie da particolarità del lavoro, esperienza e tecnica.
Più specificatamente, il datore di lavoro è tenuto all’adozione di tutte le misure organizzative, tecniche e procedurali necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore indipendentemente dal fatto che esse siano esplicitamente prescritte e imposte da una norma specifica in materia di salute e sicurezza (ad es. dal D.Lgs.81/08).
In tal senso, trattasi di misure cosiddette “innominate” o atipiche, ovvero non previste da norme specifiche ma comunque obbligatorie alla luce dell’art.2087 cod. civ., la cui violazione può avere rilevanza anche in sede penale per il datore di lavoro quale profilo di colpa specifica.
Infatti, la Suprema Corte ha costantemente ribadito che “l’eventuale silenzio della legge sulle misure antinfortunistiche da prendere non esime il datore di lavoro da responsabilità se, di volta in volta, la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono in grado di suggerirgli e, quindi, di imporgli idonee misure di sicurezza” (Cassazione Penale, Sez.IV, 3 marzo 1993 n.2054).
Tutto ciò rende ancora più utile e necessario, con riferimento a quei rischi che non sono specificatamente disciplinati dal D.Lgs.81/08 - ma che rientrano comunque nella nozione di “tutti i rischi” prevista da tale decreto sotto il profilo valutativo - trarre suggerimenti e spunti applicativi dalla giurisprudenza.
Quanto detto vale anche (e, a mio parere, soprattutto) per il rischio aggressioni, sulla base del principio giurisprudenziale secondo cui, “grazie al carattere di “norma di chiusura” del sistema antinfortunistico pacificamente riconosciuta all’art.2087 cod. civ., in esso la giurisprudenza ha inteso includere anche l’obbligo della adozione di ogni misura “atipica” diretta alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, come, ad esempio, le misure di sicurezza da adottare in concreto nella organizzazione tecnico-operativa del lavoro allo scopo di prevenire ogni possibile evento dannoso, ivi comprese leaggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi (v. anche Cass.22 marzo 2002, n.4129).”
Vediamo a questo punto quali principi si applicano all’obbligo datoriale di adozione delle misure di prevenzione dal rischio aggressioni e quali misure vengono indicate di volta in volta dai Giudici come idonee o insufficienti a fronte dei singoli casi concreti (e, quindi con riferimento solo ad essi, senza eccessive generalizzazioni), partendo dalla giurisprudenza penale di legittimità per poi passare a quella civile.
Con Cassazione Penale, Sez.IV, 2 agosto 2024 n.31665, la Suprema Corte, nell’escludere la responsabilità amministrativa della persona giuridica E. S.p.a. ai sensi del D.Lgs.231/01 (a seguito della condanna penale di tre membri del Consiglio di Amministrazione e del dirigente delegato M.) per il decesso di due tecnici italiani operanti per la E. S.p.a. durante un sequestro in Libia, si è soffermata sul tema del rischio aggressioni ai lavoratori.
Nel caso di specie, secondo la Corte, “il PG [Procuratore Generale, n.d.r.] ricorrente incentra il proprio sforzo argomentativo sulla circostanza - incontestata, in quanto la società sostiene di avere ritenuto che nel DVR dovessero essere specificate solo prescrizioni inerenti alla safety, ovvero ai rischi connessi allo svolgimento delle lavorazioni, e non quelli esogeni connessi alla security, ovvero agli spostamenti all’estero delle proprie maestranze, che aveva ritenuto di tutelare e procedimentalizzare attraverso documenti estranei al DVR - che il documento di valutazione dei rischi di E. Spa non contemplasse, esplicitamente, il rischio connesso agli spostamenti dei tecnici diretti al cantiere in Libia.”
A parere della Corte, “il tema, tuttavia, non è se tali disposizioni fossero contenute nel DVR ma se vi fosse un’organizzazione aziendale nota e conosciuta a preposti e lavoratori tesa a fronteggiare i rischi all’incolumità degli operai nei loro spostamenti in Libia. E tali disposizioni vengono ritenute anche nella sentenza impugnata come esistenti note al soggetto delegato, agli stessi lavoratori e solo per la prima volta in quella specifica occasione disattese.”
Infatti, sotto tale profilo, “risulta accertato che i lavoratori dipendenti della E. impiegati sul territorio libico fossero comunque a conoscenza della obbligatorietà dell’utilizzo del mezzo navale anziché terrestre per gli spostamenti da e per il sito di … D’altro canto l’obbligo di informazione posto in capo al datore di lavoro prevede solamente che il lavoratore riceva una adeguata informazione sui rischi specifici cui è esposto, in relazione alla attività svolta, alle normative di sicurezza e alle disposizioni aziendali in materia.”.
Ferma restando la già accertata responsabilità penale dei soggetti apicali su ricordati, per quanto riguarda invece la responsabilità della persona giuridica, la Cassazione sottolinea che dalle sentenze di merito “emerge un quadro che ha visto la E. Spa tenere adeguatamente conto nel proprio modello organizzativo d’impresa, con cantieri in trenta Paesi in ogni parte del mondo, del rischio connesso agli spostamenti dei propri dipendenti in zone che presentassero situazioni di rischio per la loro incolumità in relazione agli stessi.”
Un rischio, questo, che, “in ragione della diffusione del lavoro in ambito mondiale, non poteva che contemplare, com’è avvenuto, l’istituto della delega di funzioni. Perciò, nello specifico della Libia, il consiglio di amministrazione si era formalmente affidato alla figura dirigenziale di M., figura professionale - va ribadito - di comprovata capacità ed esperienza che gli venivano riconosciuti anche dai lavoratori sul posto, cui aveva conferito una valida delega con autonomi poteri di gestione e di spesa.”
Infatti “il consiglio di amministrazione di E. Spa, con apposita delibera, aveva affidato, alla figura di M., in qualità di operation manager del compound libico della E., autonomi poteri di gestione e di spesa, nonché il potere di adottare qualsivoglia misura idonea a garantire il rispetto della sicurezza dei lavoratori in un contesto delicato e difficile quale quello del territorio libico.”
Nello specifico, tale delega di funzioni “manifestava la volontà, da parte dell’organo amministrativo citato, di consentire la traduzione, sul piano concreto delle prescrizioni in materia di sicurezza sul luogo di lavoro, agevolando, in tal guisa, la tempestiva adozione di tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi di un ipotetico evento dannoso ai lavoratori.”
Utili indicazioni vengono poi fornite da Cassazione Civile, Sez. Lav., 6 novembre 2019 n.28516, con cui la Corte ha rigettato la richiesta di “risarcimento dei danni da inadempimento contrattuale (art.2087 cod. civ.), avanzata dal […] lavoratore nei confronti della società R.F.I. s.p.a., in relazione all’episodio subito mentre era in servizio in qualità di ferroviere, quando venne aggredito da due malavitosi, minacciato di morte e rinchiuso nel ripostiglio del treno e per tale motivo venne colto da infarto (poi riconosciuto dall’INAIL come infortunio sul lavoro).”
In tale occasione, la Suprema Corte ha precisato che “il concetto di specificità del rischio, da cui consegue l’obbligo del datore di provare di avere adottato le misure idonee a prevenire ragioni di danno al lavoratore, va inteso nel senso che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di allegare e provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra”, laddove “gli indici della nocività dell’ambiente lavorativo, che devono essere indicati dal lavoratore, non sono altro che i concreti fattori di rischio”.
Ciò in quanto è ormai consolidato “il principio per cui non può esigersi da parte del datore di lavoro la predisposizione di misure idonee a fronteggiare le cause di infortunio imprevedibili, dovendosi escludere che la responsabilità del datore di lavoro per violazione delle disposizioni dell’art.2087 cod.civ. configuri un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto detta responsabilità va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.”
Ancora, con Cassazione Civile, Sez. Lav., 12 giugno 2017 n.14566, la Suprema Corte ha dato ragione ad un infermiere di Pronto Soccorso (E.T.) che era stato aggredito “da parte del paziente mentre veniva trasportato in barella alla sala visite, dopo dieci minuti dalla registrazione”.
Il ricorso del lavoratore era stato rigettato dalla Corte d’Appello, secondo la quale “sull’episodio non aveva inciso l’inadeguatezza dell’organico che può costringere a lunghe attese” ed “era ininfluente l’assenza del carabiniere di servizio presso il posto fisso (comunque non addebitabile all’Azienda nella cui disponibilità non rientra la predisposizione della forza pubblica) o di un servizio di sorveglianza privata che, a meno di ipotizzare un irragionevole obbligo di vigilanza interna durante le visite dei pazienti, poteva solo essere esterna al luogo dell’aggressione.”
Inoltre, a parere della Corte d’Appello, “seppure doveva convenirsi circa la non occasionalità degli episodi come quello da lui subito il giorno 2002, deve, però, considerarsi che è pressoché inattuabile la predisposizione di mezzi di tutela di portata oggettivamente idonea ad elidere o anche solo a ridurre il rischio di aggressione fisica al personale infermieristico in servizio presso il Pronto soccorso, tenuto conto della specificità del lavoro, che implicando necessariamente il contatto fisico con i pazienti finalizzato a prestare le cure urgenti, non consente di frapporre, tra il lavoratore e l’utenza, barriere protettive, e della natura del comportamento di aggressione, che, manifestandosi all’improvviso e consumandosi in breve arco temporale, è difficilmente prevedibile e prevenibile.
Né il E.T. indicava misure concretamente idonee ad impedire l’evento”.
Di diverso avviso rispetto alla Corte d’Appello, la Cassazione ha invece accolto il ricorso del lavoratore, dal momento che “l’obbligo di prevenzione di cui all’art.2087 cod. civ. impone all’imprenditore di adottare non soltanto le misure tassativamente prescritte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, che rappresentano lo standard minimale fissato dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore, ma anche le altre misure richieste in concreto dalla specificità dei rischi connessi tanto all’impiego di attrezzi e macchinari, quanto all’ambiente di lavoro.”
La Suprema Corte ha così ricordato che “la responsabilità del datore di lavoro di cui all’art.2087 cod. civ. è di natura contrattuale. Ne consegue che, ai fini del relativo accertamento, incombe sul lavoratore […] l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro […] l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo”.
Entriamo ora ancora più nel merito delle specifiche misure di prevenzione atte a prevenire il rischio aggressioni (in relazione, ovviamente, a specifici casi).
Con Cassazione Civile, 20 aprile 2012 n.6208, la Corte si è pronunciata sulle responsabilità legate all’aggressione subita da una guardia giurata durante il servizio di vigilanza e piantonamento mobile presso un residence, ritenendo che “la misura di cautela che poteva essere adottata (la chiusura della porta della guardiola) era sufficiente ad evitare il rischio della aggressione in concreto verificatasi, sicché il fatto dannoso risultava imputabile non alla violazione dell’obbligo di sicurezza di cui all’art.2087 cod.civ., ma alla condotta negligente del lavoratore.”
Con Cassazione Civile 17 maggio 2013 n.12089, la Corte ha rigettato il ricorso sempre di una guardia giurata che, mentre “svolgeva il servizio notturno di vigilanza e pattugliamento” ad una festa di partito, “venne aggredito e malmenato da alcuni giovani i quali, in precedenza, avevano speronato l’auto di servizio su cui si trovava”.
Secondo la Corte, “il P. non ha affatto evidenziato in cosa fosse consistita la colpa della datrice di lavoro, limitandosi a dedurre che precedentemente (senza neppure chiarire se la stessa notte o in giorni precedenti), vi furono delle aggressioni all’interno del parco ove si svolgeva la “festa”...”.
Oltre a ciò, era stato “accertato che, oltre all’arma di servizio in possesso del P., la sua auto era dotata di apparecchio radio, con cui egli stesso chiese ed ottenne l’intervento dei Carabinieri, mentre dalle testimonianze raccolte, non risultava che egli avesse chiamato la centrale operativa dell’Istituto di Vigilanza.”
Dunque, “seppure è vero che la giurisprudenza di legittimità ha affermato che può sussistere […] la responsabilità del datore di lavoro, ex art.2087 c.c., anche laddove l’evento dannoso sia derivato dall’azione, anche delittuosa, di terzi, è altrettanto vero che il fondamento della responsabilità è sempre stato ravvisato in un elemento colposo di questi, così come, nel caso della rapina, allorquando pur a fronte di ripetuti e denunciati episodi criminali, la datrice di lavoro non abbia adottato alcuna misura idonea ad evitare il danno”.
Passiamo a Cassazione Civile, Sez. Lav., 21 maggio 2013 n.12413, con cui è stata accertata la “carenza di idonee misure di sicurezza per i dipendenti degli uffici postali dove si erano verificati i due tentativi di rapina - per quanto riguarda in particolare l’assenza delle uscite di sicurezza di cui avrebbero dovuto essere dotati gli stessi uffici”.
La sentenza aggiunge che, “con riferimento al primo dei due uffici […], due testimoni avevano escluso la presenza di una porta di servizio all’epoca della tentata rapina, mentre era risultato provato che lo stesso ufficio aveva subito una ristrutturazione in epoca successiva.”
Le testimonianze erano confermate anche dal “contenuto della denuncia di infortunio presentata all’lnail, nella quale veniva indicato che il detto ufficio era sprovvisto di un’uscita di emergenza, precisandosi che l’eventuale incendio del bancone (che i rapinatori avevano cosparso di benzina) avrebbe impedito ai dipendenti di raggiungere la (unica) via di uscita.”
Pertanto, “nessun idoneo elemento di prova in ordine all’esistenza di idonee “vie di fuga” per il personale era stato offerto dalla società neppure con riferimento all’altro ufficio dove si era verificato il secondo tentativo di rapina, avendo i giudici di merito rilevato che la planimetria prodotta dall’appellante era priva di data certa e non consentiva, quindi, una affidabile ricostruzione dello stato dei luoghi all’epoca della tentata rapina.”
Sempre sul tema della rapina si è pronunciata Cassazione Civile, Sez. Lav., 5 gennaio 2016 n.34, che ha confermato la condanna di una Società per Azioni che gestiva una Tangenziale al risarcimento del danno in favore di un lavoratore casellante che aveva contratto una patologia cardiaca a seguito di una rapina a mano armata subita durante l’attività lavorativa.
Secondo la Corte, la Società non ha “dimostrato di aver fornito strumenti volti a fornire sicurezza ai casellanti, come vetri blindati, telecamere a circuito chiuso etc.”
Infine, con Cassazione Civile, Sez. Lav., 3 agosto 2007 n.17066, la Corte ha rigettato il ricorso di un’azienda ospedaliera per le lesioni con postumi permanenti subite da un’infermiera aggredita da un ricoverato (paziente oligofrenico) presso il Centro Residenziale Handicap.
Era risultato accertato “che il paziente V., quello stesso pomeriggio dell’infortunio, aveva aggredito un’altra infermiera (Va.) sicché versava già in una situazione critica” e “che l’organico delle infermiere era incompleto al momento dell’infortunio perché la stessa Va., vittima della prima aggressione, era stata autorizzata ad andare a casa”, per cui “fu la sola infermiera G., senza la collaborazione di altro operatore, a prendere in carico il V. dopo la sedazione”.
Inoltre “il V. era stato fatto uscire dalla stanza di contenimento perché non vi poteva rimanere la notte in quanto la stessa avrebbe dovuto essere occupata da altro paziente autolesionista, circostanza questa che denunciava in sostanza un’insufficiente disponibilità di locali di tal genere.”
Secondo la Cassazione, “le possibili reazioni aggressive dei pazienti oligofrenici di un Centro di igiene mentale rientrano di norma nel rischio assunto dal Centro con l’espletamento dell’attività di assistenza agli stessi; se poi tale attività è esercitata in forma imprenditoriale, si tratta null’altro che del rischio d’impresa”; in tal senso, “una reazione aggressiva “imprevedibile” […] non esonera ex se il datore di lavoro; occorre anche la prova in positivo dell’adozione di tutte le misure di sicurezza e di prevenzione, quali protocolli di comportamento per il personale sanitario nel caso di stato di agitazione di tali pazienti, astrattamente idonee ad evitare danni ai lavoratori.”
Nel caso di specie, dunque, ciò che la Corte d’Appello (la cui sentenza viene annullata con rinvio) avrebbe dovuto verificare era “quale era il protocollo di comportamento per il personale infermieristico - specifica misura di prevenzione di tale genere di eventi dannosi - nel caso particolare di pazienti oligofrenici con tendenze aggressive e se l’attività di sedazione, rivelatasi ex post insufficiente, fosse stata correttamente eseguita”.
Anna Guardavilla
Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro
I contenuti presenti sul sito PuntoSicuro non possono essere utilizzati al fine di addestrare sistemi di intelligenza artificiale.
Per visualizzare questo banner informativo è necessario accettare i cookie della categoria 'Marketing'
Pubblica un commento
| Rispondi Autore: Massimiliano | 31/10/2025 (07:21:45) |
| Trovo davvero singolare la pronuncia n. 28516/2019 (RFI) rispetto ad altre sentenze afferenti a casi di aggressione. Ma prima del 2019 non sono mai accaduti episodi analoghi in tali contesti lavorativi?? Come si può attribuire esclusivamente al lavoratore l'indicazione degli "indici della nocività dell’ambiente lavorativo" peraltro esplicitamente equiparati ai "concreti fattori di rischio". Ma la valutazione dei rischi non è uno degli obblighi indelegabile attribuito al DL? Come purtroppo spesso accade, occorre provare a seguire l'imperfetto orientamento giurisprudenziale su tematiche sensibili come quella trattata (peraltro non specificatamente normate!). | |
| Rispondi Autore: avv. Rolando Dubini | 31/10/2025 (09:00:35) |
| Responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. e obbligo penalistico di valutazione dei rischi: si tratta di piani distinti e complementari In materia di obblighi di protezione del datore di lavoro, la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che spetta al lavoratore, il quale lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa, un danno alla salute, l’onere di allegare e provare, oltre all’esistenza del danno, la nocività dell’ambiente di lavoro e il nesso causale tra tale nocività e il pregiudizio patito. Gli indici di nocività rappresentano, in sostanza, i concreti fattori di rischio connessi alle modalità e alla tipologia della prestazione, che ai sensi dell’art. 2087 c.c. avrebbero dovuto indurre il datore di lavoro ad adottare tutte le misure di sicurezza idonee a prevenire situazioni dannose per la salute fisica e la personalità morale del lavoratore. Questo principio, ribadito dalla Cassazione civile (Sez. Lav., 6 novembre 2019, n. 28516, confermando App. Bari n. 1599/2014), opera nell’ambito civilistico del risarcimento del danno, e non incide sull’autonomo obbligo penalmente sanzionato del datore di lavoro di valutare tutti i rischi lavorativi. Nel caso esaminato, il ricorrente, ferroviere aggredito durante il servizio, non aveva fornito prova degli specifici indicatori di pericolosità connessi alla prestazione (tempi, luogo, precedenti analoghi), né delle misure di sicurezza che l’azienda avrebbe dovuto predisporre; pertanto, la Corte ha escluso la responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., rilevando che la mera allegazione di un’aggressione criminale non può, di per sé, integrare la violazione dell’obbligo di sicurezza, in assenza di elementi concreti idonei a differenziare il rischio professionale da quello generico cui è esposto ogni cittadino. La Cassazione ha così precisato che la responsabilità ex art. 2087 c.c. non ha natura oggettiva, ma presuppone la colpa del datore di lavoro, intesa come difetto di diligenza nella predisposizione delle misure di prevenzione necessarie, nominate o innominate, secondo le conoscenze tecniche e scientifiche del momento (Cass. nn. 12089/2013; 14102/2012; 14066/2019; 8911/2019). In altri termini, la responsabilità datoriale non deriva automaticamente dal verificarsi del danno, ma dalla violazione di regole di condotta imposte dalla legge o dalla migliore tecnica disponibile, dirette a garantire un ambiente di lavoro sicuro e privo di rischi prevedibili. Il lavoratore che invochi tutela risarcitoria deve dunque dimostrare l’esistenza del danno, la violazione di una specifica misura di sicurezza — prevista dalla normativa o suggerita dall’esperienza e dalla tecnica — e il nesso causale tra tale omissione e l’evento lesivo (Cass. nn. 26495/2018; 24742/2018). In difetto di tali elementi, l’inadempimento datoriale non può considerarsi provato. Tuttavia, questi principi civilistici operano unicamente sul piano risarcitorio, senza attenuare né contraddire l’obbligo di natura penalistica che grava sul datore di lavoro ai sensi degli artt. 17, 28 e 29 del D.Lgs. 81/2008, obbligo che impone la valutazione preventiva, globale e documentata di tutti i rischi presenti nell’organizzazione lavorativa, anche solo potenziali. Mentre la responsabilità civile ex art. 2087 c.c. postula la prova del danno e del nesso causale, l’obbligo penalmente sanzionato di valutazione dei rischi ha natura autonoma, preventiva e inderogabile, e la sua violazione è sanzionata anche in assenza di infortunio. Si tratta di un dovere strutturale e continuo di organizzazione della sicurezza, che costituisce il fondamento del sistema prevenzionistico e che, sul piano penale, configura una posizione di garanzia indelegabile del datore di lavoro. In sintesi, la prova civilistica del danno e la valutazione penale del rischio si collocano su piani distinti ma complementari: la prima mira a fondare il diritto al risarcimento, la seconda a prevenire l’evento lesivo mediante l’attuazione sistematica delle misure di tutela previste dal D.Lgs. 81/2008. | |
| Rispondi Autore: Pablo | 31/10/2025 (10:07:48) |
| La sentenza della Cassazione 31665/2024 pone una pietra tombale su quanti (e sono sempre più del lecito) insistono con pervicacia che nel DVR debbano trovare spazio anche i rischi per la security. La sentenza riguarda la tragica morte di due lavoratori della Bonatti in Libia: all'accusa di primo grado e Appello secondo cui fattore dirimente per la responsabilità dell'Ente fosse la mancata previsione nel DVR di misure di prevenzione e protezione relative alla security del personale all'estero (permettendo, quindi, al dirigente delegato di eludere le misure aziendali che pure esistevano), la Cassazione ha risposto, semplicemente, che il tema non rileva. La mancata trattazione di questi rischi nel DVR per la Cassazione è un non-argomento, dal momento che la Bonatti non solo ne aveva affidato la gestione ad un dirigente delegato, ma policy, procedure ed istruzioni operative esistevano eccome, erano note a tutti gli interessati e venivano trattate separatamente rispetto al DVR che, correttamente secondo la Bonatti, contiene le misure relative alla safety dei lavoratori e non anche alla security. Speriamo che la sentenza serva a mettere a tacere chi si aspetta che nel DVR trovi spazio l'intero codice penale. | |
| Rispondi Autore: Massimiliano | 01/11/2025 (07:32:37) |
| Dal mio punto di vista non trovo né coerente sul piano normativo (la valutazione dei rischi è un obbligo a carico del DL) né, conseguentemente, equilibrato in un ambito dibattimentale che il soggetto offeso debba fornire prova "delle misure di sicurezza che l’azienda avrebbe dovuto predisporre". E' sufficiente individuare precedenti casi analoghi per configurare la responsabilità e, quindi, far emergere la posizione di garanzia del DL (probabilmente non solo: RSPP) che non ha riconosciuto ab origine la possibilità (dunque la probabilità) e, conseguentemente, il rischio d'aggressione prevedendo delle misure/procedure operative atte a "minimizzare ovvero annullare" il fattore considerato. Mi chiedo come avrebbe potuto il lavoratore aggredito enunciare le misure da adottarsi in tale caso (non ne avrebbe le competenze e le conoscenze no??). Inoltre, caso strano RFI, dopo una serie di questi episodi ha disposto che, almeno negli orari di maggiore frequentazione e nelle tratte più sensibili, il personale a bordo fosse raddoppiato (2 controllori): VdR ex post!! Che la prova del danno sia a carico del lavoratore è chiaro ma che del danno stesso debba rispondere il DL, in caso di mancata valutazione del rischio associato, direi sia ancor più evidente. Ricordo che il c. 1 dell'art. 28 del 81 prevede che "La valutazione di cui all'articolo 17, comma 1, lettera a), anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei miscele chimiche impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari". Per Pablo: se con il suo commento finale si riferisce a me vorrei chiarirle che non mi riferisco al fatto di enunciare "l'intero cp" nel DVR ma credo che sia doveroso trattare almeno i rischi correlati ad un accadimento noto o quantomeno ben prevedibile questo sì. Anche solo per non doverlo andare a "spiegare" al 3^ grado di giudizio no?!! | |
