Le informazioni che l’RSPP deve acquisire “di sua iniziativa” per la VR
Fino a che punto l’RSPP e il consulente esterno devono attivarsi per reperire le informazioni necessarie alla valutazione dei rischi (al di là delle informazioni e oltre le informazioni che l’RSPP per legge deve necessariamente ricevere dal datore di lavoro ai sensi dell’articolo 18 c.2 D.Lgs.81/08)? Fino a che punto RSPP e consulente esterno devono effettuare sopralluoghi, conoscere nel dettaglio l’organizzazione (gli “aspetti logistici e organizzativi di ogni momento del processo lavorativo”, secondo le parole della Cassazione) e i suoi mutamenti e verificare le condizioni di lavoro?
Questo tema, da sempre molto dibattuto, è oggetto di alcune sentenze della Cassazione che vengono proposte di seguito, come sempre senza pretese di esaustività.
L’RSPP deve operare una “costante verifica delle condizioni di lavoro e di eventuali mutamenti, anche di fatto, dell’organizzazione aziendale”: Cassazione Penale, Sez.IV, 10 febbraio 2015 n.5983
Il principio espresso da questa sentenza è il seguente: “non è il datore di lavoro a dover informare il R.S.P.P. delle modalità e degli aspetti logistici e organizzativi di ogni momento del processo lavorativo e dei pericoli connessi ma è al contrario quest’ultimo a dover attentamente valutare tali elementi, attraverso una costante opera di controllo e verifica delle condizioni di lavoro e di eventuali mutamenti, anche di fatto, dell’organizzazione aziendale, da comunicare prontamente al datore di lavoro onde metterlo in grado di esercitare i suoi poteri/doveri di intervento a fini di prevenzione e sicurezza.”
Vediamo brevemente il caso.
Il datore di lavoro e l’RSPP di una ditta esercente attività di realizzazione di prefabbricati in cemento sono condannati per omicidio colposo per l’infortunio occorso ad un lavoratore che era adibito, “al momento del sinistro, al lavaggio tramite idropulitrice di pannelli in conglomerato cementizio, mantenuti in posizione verticale tramite rastrelliere, due dei quali gli rovinavano addosso provocandone la morte per schiacciamento.”
Al datore di lavoro “l’evento era ascritto […] per aver omesso di considerare, nel documento di valutazione dei rischi, il sistema utilizzato per mantenere in posizione verticale le pareti in conglomerato cementizio, mediante l’impiego di rastrelliere, durante le fasi di stoccaggio e lavaggio” mentre all’RSPP “si rimproverava, invece, di aver omesso di individuare e valutare i rischi connessi alla descritta lavorazione e alla relativa organizzazione e, dunque, di individuare le necessarie misure per la sicurezza e, comunque, di intraprendere ogni opportuna iniziativa volta ad eliminare la fonte di pericolo”.
L’RSPP nel ricorso sostiene di aver assolto ai propri compiti “sulla base di quanto egli conosceva e poteva materialmente conoscere circa l’organizzazione produttiva e i luoghi dell’azienda e che, a tal fine, egli poteva fare riferimento solo ed esclusivamente al documento di valutazione dei rischi, la cui redazione è per legge imposta al datore di lavoro” il quale ultimo, secondo il ricorrente, “aveva nel caso di specie negligentemente omesso di indicare all’interno del documento di valutazione dei rischi la fase di lavaggio delle pareti in cemento e la relativa organizzazione della zona dell’azienda a ciò destinata”.
Nel ricorso “evidenzia altresì che la pulitura delle pareti in cemento avveniva in una zona dello stabilimento che era destinata, nel documento di valutazione dei rischi, ad altre fasi della produzione. Osserva che, pertanto, mai egli avrebbe potuto avere conoscenza della fase di lavaggio delle pareti in cemento con idropulitrice” e che dal processo “non emerge prova certa che egli conoscesse effettivamente lo stato dei luoghi e, in particolare, la zona dove avveniva il lavaggio con idropulitrice delle pareti in cemento.”
Secondo la Cassazione, che rigetta il ricorso, premesso che “tra i compiti del R.S.P.P., dettagliati dalla richiamata normativa, rientra proprio quello di individuare i fattori di rischio e suggerire le misure da adottare”, di conseguenza “al riguardo l’assunto del ricorrente secondo cui tale obbligo presuppone l’indicazione, da parte del datore di lavoro, nel documento di valutazione dei rischi, dello specifico aspetto organizzativo interessato dalla possibile insorgenza di rischi non trova alcun appiglio nel dato positivo e ancor prima è manifestamente illogico dal momento che finisce con l’invertire il rapporto di collaborazione tra responsabile del servizio di prevenzione e protezione e datore di lavoro, quale presupposto dalla norma, e in definitiva, come detto, a privare di senso la stessa previsione della figura del R.S.P.P.”
La Corte chiarisce che “è evidente, infatti, che non è il datore di lavoro a dover informare il R.S.P.P. delle modalità e degli aspetti logistici e organizzativi di ogni momento del processo lavorativo e dei pericoli connessi ma è al contrario quest’ultimo a dover attentamente valutare tali elementi, attraverso una costante opera di controllo e verifica delle condizioni di lavoro e di eventuali mutamenti, anche di fatto, dell’organizzazione aziendale, da comunicare prontamente al datore di lavoro onde metterlo in grado di esercitare i suoi poteri/doveri di intervento a fini di prevenzione e sicurezza.”
Qualora si ragionasse “diversamente, peraltro, è evidente che, come detto, la previsione di una siffatta figura di collaboratore non avrebbe significato alcuno dal momento che, postulandosi un onere informativo in capo allo stesso datore di lavoro, si presuppone per ciò stesso, contrariamente al vero, che lo stesso sia sempre e comunque in grado di procurarsi ex se le informazioni necessarie al fine di un compiuto espletamento dei doveri prevenzionali su di lui gravanti (si pensi all’esistenza di rischi la cui conoscenza derivi da competenze specialistiche).”
Infine, dal punto di vista delle circostanze concrete, secondo la Cassazione è fuori di dubbio il fatto che l’RSPP ricorrente “fosse in condizioni di potersi rendere conto, ove avesse diligentemente assolto all’incarico affidatogli, dei pericoli connessi al luogo e al modo con cui si provvedeva al lavaggio delle pareti di cemento. Tale valutazione, invero, è ampiamente e adeguatamente motivata nella sentenza impugnata attraverso ampio e puntuale richiamo di pertinenti emergenze processuali e segnatamente delle deposizioni dei testi A.R. e D.M. (i quali hanno riferito che: le rastrelliere sulle quali erano appoggiate le pareti del lavaggio venivano usate già da tempo; erano state realizzate in loco su decisione del C. e con l’approvazione del L.; il luogo in cui Ca.Mi. stava eseguendo il lavaggio era stato provvisoriamente individuato da circa due settimane, in quanto nella diversa zona del capannone destinata a tale attività erano in corso dei lavori per la realizzazione di una vasca nel rispetto delle norme ambientali e di sicurezza dei lavoratori)…”.
Il consulente esterno “sia esso Rspp o esperto estraneo all’organigramma aziendale” deve “acquisire le informazioni necessarie al corretto assolvimento del suo compito, che in prima istanza consiste nella “individuazione dei fattori di rischio ... sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione aziendale”: Cassazione Penale, Sez.IV, 25 giugno 2015 n.26993
Questa sentenza esprime il seguente principio: “Non v’é dubbio che [il datore di lavoro], quale dominus dell’organizzazione aziendale, sia depositario di tutte le informazioni influenti sulla valutazione dei rischi; e che mentre talune devono essere necessariamente veicolate al consulente perché questi ne possa avere conoscenza, altre sono agevolmente reperibili da questo solo che il rapporto di consulenza abbia una sua dimensione reale.
Ma erra l’esponente nel derivare dalla previsione dell’art.9 co. 2 d.lgs. n.626/1994 (norma vigente al momento del fatto; oggi il riferimento è all’art. 33 d.lgs. n. 81/2008) l’insussistenza dell’obbligo del consulente nella valutazione dei rischi (sia esso Rspp o esperto estraneo all’organigramma aziendale) di acquisire le informazioni necessarie al corretto assolvimento del suo compito, che in prima istanza consiste nella “individuazione dei fattori di rischio ... sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione aziendale”.”
Per quanto riguarda il caso oggetto della sentenza, un dipendente di una Fattoria era “alla guida di un trattore Fiat 605 al quale era attaccato l’attrezzo denominato “raccoglisarmenti” quando era caduto con il mezzo d’opera in un dirupo durante una manovra eseguita in prossimità del ciglio dello stesso ed era rimasto schiacciato dal trattore, riportando lesioni personali gravissime.”
La Cassazione Penale ha confermato la condanna del “consulente esterno in materia di sicurezza sul lavoro del datore di lavoro, M.M. (la cui posizione era stata definita con sentenza di patteggiamento), che aveva predisposto un documento di valutazione dei rischi incompleto, generico e superficiale, avendo omesso in particolare di analizzare i rischi connessi all’uso del veicolo con il quale era avvenuto l’infortunio in quello specifico ambiente lavorativo nel quale l’evento si era prodotto e di segnalare la necessità dell’adeguamento del veicolo alla vigente normativa, dotandolo di dispositivo antiribaltamento e di cinture di sicurezza.”
La Corte di appello aveva ricordato che “l’imputato medesimo aveva confermato di aver predisposto il documento di valutazione nell’anno 2004 e che la sua opera di consulenza era proseguita negli anni, ha ritenuto che egli avrebbe dovuto segnalare l’inidoneità del veicolo, palesemente obsoleto e privo di dispositivi di sicurezza già all’epoca previsti dalla legge, e comunque prescrivere limitazioni al suo utilizzo, anche al fine di rendere il datore di lavoro edotto dei rischi connessi all’uso del mezzo.” E che “per contro il documento di valutazione dei rischi descriveva il trattore in questione come in buone condizioni così configurandosi l’omessa valutazione del rischio connesso all’uso del predetto veicolo, certamente in relazione causale con l’infortunio avvenuto.”
Nei motivi di ricorso il consulente esterno fa presente che la “sentenza impugnata ha disconosciuto che l’opera del consulente é condizionata dai dati conoscitivi offerti dal datore di lavoro. Nel caso di specie è emerso dalla istruttoria dibattimentale che le informazioni fornite dal datore di lavoro al consulente indicavano che il trattore in questione non era adoperato per le lavorazioni agricole nella Fattoria di C. ma era confinato nella Fattoria di S. La Corte di appello ha ritenuto che il B.L. [il ricorrente, n.d.r.] dovesse verificare personalmente tali informazioni ma tale obbligo non è previsto normativamente. Non costituendo il trattore una fonte di pericolo, esso non doveva essere preso in considerazione ai fini della valutazione del rischio.”
La Corte, nel rigettare il ricorso, sottolinea che “nel caso che occupa, nel quale il B.L. assunse su base contrattuale - ancorché priva di forma scritta - il compito di collaborare con il M.M. nell’attività di risk assessment che esita nella redazione del documento di valutazione dei rischi […], assumendo il compito di collaborare nel risk assessment, il B.L. si é fatto co-gestore del rischio determinato dalle attività dell’impresa, sia pure limitatamente alla fase della valutazione dei rischi specifici connessi alle diverse lavorazioni e componenti del processo produttivo.”
La Corte considera infondato anche “il rilievo dell’esponente che evidenzia il condizionamento dell’opera del consulente alle informazioni trasmesse dal datore di lavoro” in quanto “non v’é dubbio che quest’ultimo, quale dominus dell’organizzazione aziendale, sia depositario di tutte le informazioni influenti sulla valutazione dei rischi; e che mentre talune devono essere necessariamente veicolate al consulente perché questi ne possa avere conoscenza, altre sono agevolmente reperibili da questo solo che il rapporto di consulenza abbia una sua dimensione reale.
Ma erra l’esponente nel derivare dalla previsione dell’art.9 co. 2 d.lgs. n.626/1994 (norma vigente al momento del fatto; oggi il riferimento è all’art. 33 d.lgs. n. 81/2008) l’insussistenza dell’obbligo del consulente nella valutazione dei rischi (sia esso Rspp o esperto estraneo all’organigramma aziendale) di acquisire le informazioni necessarie al corretto assolvimento del suo compito, che in prima istanza consiste nella “individuazione dei fattori di rischio ... sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione aziendale”.”
Infatti - precisa la Cassazione - “nel caso che occupa i giudici di merito rammentano che il B.L. effettuò una visita presso le varie sedi dell’azienda, venendo così a conoscere dell’unitarietà della gestione pur a fronte delle diverse intestazioni; che egli esaminò il trattore, già allora obsoleto e non dotato di essenziali ed obbligatori dispositivi di sicurezza quali il rollbar e le cinture di sicurezza, e ciò nonostante lo indicò come “in buone condizioni”, senza evidenziare che non era idoneo all’utilizzo su qualsiasi tipo di terreno. Puntualizzazioni che descrivono il pertinente bagaglio informativo in possesso del B.L. e che rendono privo di pregio l’argomento difensivo della mancanza di conoscenza nel consulente B.L. dell’uso del mezzo d’opera presso la fattoria di C. (circostanza peraltro esclusa in fatto dalla Corte di Appello).”
Infine “il restante motivo, alla luce di quanto appena esplicato, risulta manifestamente infondato, siccome prende le mosse da una sottolineatura della novità dell’adibizione del trattore ai lavori presso la fattoria di S.. Si é appena dimostrata che siffatta circostanza é di nessun rilievo, per la originaria e totale inidoneità del mezzo all’utilizzo su qualsiasi terreno.”
I sopralluoghi in azienda dell’RSPP/Consulente esterno e le informazioni desumibili dalle circostanze concrete che non possono “non essere notate” e “la cui esistenza non può essere ignorata da alcuno”: Cassazione Penale, Sez.IV, 18 gennaio 2017 n.2406
Chiudiamo con una sentenza di quest’anno, che ha giudicato le responsabilità - per omicidio colposo aggravato connesso ad un infortunio sul lavoro - del presidente del C.d.A di una S.p.A., del direttore tecnico e responsabile della produzione e dell’RSPP sul quale ultimo incombeva “l'obbligo di valutare con diligenza e prudenza i processi produttivi, individuando i possibili fattori di rischio e segnalandoli al datore di lavoro per l'adozione degli opportuni provvedimenti.” Nel caso di specie, “egli avrebbe omesso di segnalare al datore di lavoro il grave rischio connesso all'esistenza dei depositi di materiale infiammabile ed alle procedure di travaso”.
Secondo la Cassazione,“al B.E., quale professionista esperto, prima consulente e poi RSPP dell’azienda A. (specializzata nella produzione di antine in legno per arredamenti, dotata di un reparto di tinteggiatura ove normalmente vengono utilizzati smalti, vernici e diluenti), non poteva sfuggire la valutazione del “dove” e “come” venissero depositati, spostati, travasati, usati e poi smaltiti i detti materiali liquidi altamente infiammabili; né esorbitava dai suoi obblighi la ponderazione della collocazione e dell’utilizzo delle cisterne presenti nel piazzale dell’azienda (di dimensioni tali da non poter essere “non notate”).”
“Eppure” - sottolinea la Corte - “di tutto ciò non v’è traccia nei documenti di valutazione dei rischi redatti dal ricorrente” e “nel caso in esame, oltretutto, l’oggetto della mancata valutazione non era certamente marginale o poco evidente, trattandosi di un deposito di alcune grandi cisterne poste in un’apposita area al di fuori dello stabilimento, la cui esistenza non poteva essere ignorata da alcuno..”
La Corte conclude: “nel presente procedimento il B.E. assume la doppia veste di consulente esterno del datore di lavoro nell’elaborazione del documento di valutazione e di RSPP successivamente nominato. Egli non poteva ignorare, e se lo ha fatto ciò è ascrivibile a colpa, l’esistenza del deposito esterno formato da cisterne di materiale infiammabile. Come ha correttamente rilevato il perito nella propria relazione, gli accordi fra lo studio professionale del B.E. e la A. prevedevano sopralluoghi periodici in azienda al fine di verificare i rischi presenti. L’appellante non può quindi giustificare la (asserita) mancata conoscenza del deposito con la constatazione che esso non fosse indicato nelle planimetrie.”
Anna Guardavilla
Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro
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Rispondi Autore: alessandro mazzeranghi - likes: 0 | 23/03/2017 (11:47:14) |
Grazie Anna, molto molto interessante (e anche un po' preoccupante) Alessandro |
Rispondi Autore: Anna Guardavilla - likes: 0 | 23/03/2017 (12:32:43) |
Grazie a te Alessandro per il tuo prezioso e per me utilissimo feedback. Anna |
Rispondi Autore: Paolo Giuntini - likes: 0 | 23/03/2017 (15:24:40) |
Ottima la selezione delle sentenze, come sempre molto esaurienti ed utili le sintesi. Grazie |
Rispondi Autore: Anna Guardavilla - likes: 0 | 23/03/2017 (16:17:16) |
Grazie Paolo! |
Rispondi Autore: Fabian Nocker - likes: 0 | 23/03/2017 (17:23:25) |
Articolo molto ben fatto e chiaro. Complimenti. |
Rispondi Autore: Anna Guardavilla - likes: 0 | 23/03/2017 (20:25:15) |
Grazie, gentilissimo. Un cordiale saluto, Anna Guardavilla |
Rispondi Autore: Aldo Belli - likes: 0 | 24/03/2017 (09:46:44) |
Concordo con la responsabilizzazione dei R.S.P.P. e dei consulenti esterni, ma questo articolo andrebbe diffuso in maniera capillare ai datori di lavoro che devono remunerare il servizio di consulenza espletato dai suddetti soggetti. Qual è il tempo "congruo" all'erogazione di un tale servizio e, conseguentemente, qual è il corrispettivo da esigere considerando le responsabilità penali a cui i R.S.P.P./consulenti sono esposti? Questa mia considerazione, ovviamente, non vuole giustificare in alcun modo l'imperizia che concorre a causare un danno al lavoratore e che va, pertanto, condannata. Detto ciò, aggiungo un'ulteriore piccola e marginale considerazione: tutti possiamo sbagliare ed è giusto che rispondiamo, soprattutto quando il danno incide sulla vita delle persone: i solerti magistrati che a volte, nonostante la conclamata competenza professionale, emettono sentenze sbagliate, come rispondono alle conseguenze dei propri errori? Dalla lettura dell'articolo della bravissima Anna Guardavilla, a cui vanno tutti i miei complimenti e che sottoscrivo in toto, si deduce che i giudici "fanno le pulci" ai consulenti, ma il giudizio, lo dico provocatoriamente, viene da una casta che è notoriamente INTOCCABILE. Colleghi R.S.P.P./consulenti, che ne dite, proponiamo uno scambio di ruoli? Magari, dopo, qualcuno riflette un po' di più sull'emissione di condanne a destra e a manca rispolverando il vecchio e abusato concetto del "non poteva non sapere". Scusate la polemica, ma il mio lavoro lo faccio con tutta la convinzione ed abnegazione possibili e, in certe circostanze, questi signori mi fanno veramente alterare (sono un "gentleman" e voglio tenere bassi i toni, ma la parola sarebbe un'altra). |
Rispondi Autore: Gian Piero Leoni - likes: 0 | 25/03/2017 (10:29:45) |
Mi preoccupa la "costante opera di controllo e verifica delle condizioni di lavoro" che l'RSPP dovrebbbe garantire. Incompatibile, a mio parere, con un ruolo di RSPP esterno all'azienda. Con il termine "costante" cosa si intende? E' ciò che realmente pretende la norma? |
Rispondi Autore: KOTecnico - likes: 0 | 26/03/2017 (11:25:18) |
Ringrazio A. Guardavilla per la sintetica disanima delle sentenze qui proposte. Costituzione, codici, leggi e decreti... responsabilità professionale... però: 1) Cassazione Penale, Sez.IV, 10 febbraio 2015 n.5983 Il principio espresso dalla sentenza, così come rilevato dall'autrice dell'articolo, è, a mio parere, errato: vedi art 18 comma 2. Il "principio" ribalta specularmente quanto richiesto dall'81. Che per la Corte, questa Corte, "è evidente che..." è una conclusione opinabile, almeno quanto la mie. Inoltre sarebbe ora di chiarire, una volta per tutte quali sono le gerarchie del SPP, l'articolo 33 non nomina mai il RSPP. Che non vuol dire che il RSPP non debba conoscere tutto quanto serve per fare le sue valutazioni (un 2087 cc sui generis). 2) Cassazione Penale, Sez.IV, 25 giugno 2015 n.26993 Davvero poco da dire: ritenere colpevole il RSPP esterno (ma non ritengo ci sia differenza differenza se fosse stato interno, ma mi sarebbe piaciuto leggere in questo caso cosa avrebbe scritto la Corte nella sentenza!) per una errata conduzione di un mezzo raggiunge la fantasia più sviluppata. Non mi sfugge che l'evento è accaduto in regime 626, ma non cambia nulla, nemmeno se fossimo dopo l'accordo CSR del 22 febbraio 2102: se ti avvicini troppo ad un dirupo, e ti hanno detto di non farlo o di chiedere ad esempio delle valutazioni tecniche sullo stato del terreno è molto probabile che ci caschi dentro. Se il mezzo non era idoneo, come risulta dalle dichiarazioni, resta una colpa a carico di chi doveva vigilare (che non è il RSPP), ma la condotta personale del lavoratore è altra cosa. 3) Cassazione Penale, Sez.IV, 18 gennaio 2017 n.2406 Mi trovo d'accordo con le motivazioni della Corte. Diverso sarebbe stato qualora il RSPP (interno o esterno) avessero individuato il pericolo, valutato il rischio e indicato le misure di prevenzione e protezione relative. Questa la mia posizione che conta poco, lo so bene, il giudice ha come scopo primario quello di trovare un colpevole e "permettere" il risarcimento civile. Non mi trova d'accordo se per raggiungere il suo obiettivo arriva a capovolgere le indicazioni date dal decreto di riferimento (l'81/08) . Che non significa che il RSPP non è reponsabile di nulla. Spesso leggo queste analisi delle sentenze, sempre elaborate da esperti nella materia come A. Guardavilla, sono sintesi che, traducendo il linguaggio della giurisprudenza spesso incomprensibile ai comuni mortali, ne permettono la comprensione. Rilevo sempre, però, l'assenza di un'analisi critica delle stesse. Ringraziando ancora Guardavilla, la invito a segnalarmi, qualora lo ritenga necessario, dove il mio parere discordante con le prime due sentenze è sbagliato, che possa ravvedermi. |
Rispondi Autore: Fausto Pane - likes: 0 | 29/03/2017 (16:19:30) |
Vedi Cassazione Penale, Sez. 4, 04 febbraio 2010, n. 4917 - Mancata segnalazione al RSPP. Continua l'opera di confusione giurisprudenziale delle varie sezioni di Cassazione. Io, da par mio, continuo a ficcare il naso in ogni angolo dei capannoni dei miei clienti ed andare in cantiere, anche a sorpresa ('Passavo di qua....'). Quando sarà ora, mi rimetterò alla bonta della corte: oggettivamente, a leggere la sentenza del 2010, io, che avvocato non sono, rinuncio a capire. I giudici sono uomini anche loro, POSSONO sbagliare, ma così, non, non è possibile scrivere sentenze che ne contrastano altre e che sono considerate da altri giudici, che scelgono su quale 'filone giurisprudenziale' fondare le loro prossime decisioni. Questa non è giustizia, è sentenziare sulla base di un'opinione, non di una legge. Si è capito che per me, se una legge deve essere interpretata, è una pessima legge? Saluti Fausto Pane |