
Il preposto non deve uniformarsi alle scelte imprudenti dei superiori

Una domanda che mi viene spesso rivolta nelle aule di formazione è la seguente: cosa è tenuto a fare il preposto quando le prassi pericolose praticate in azienda vengono tollerate e, talvolta, addirittura indotte e ispirate dai suoi stessi superiori gerarchici (ad esempio il dirigente a lui sovraordinato)?
Di solito poi, a seguito di questa domanda, viene posto l’ulteriore quesito: ma il preposto non dovrebbe essere liberato dalle sue responsabilità penali - legate all’omessa vigilanza e alla mancata segnalazione delle situazioni di pericolo - per il fatto che il “messaggio” di adottare tali prassi disapplicative provenga dall’alto, in maniera esplicita o implicita?
Nel fornire una risposta a tali quesiti, che sia il più possibile chiara, partiamo da una prima considerazione banale: non vi è alcun dubbio che il datore di lavoro o il dirigente che avalli o persino favorisca delle pratiche scorrette sotto il profilo della salute e sicurezza sarà ovviamente responsabile penalmente per gli infortuni o le malattie professionali che dovessero occorrere di conseguenza, ove tali eventi si pongano in un nesso di causalità con tale condotta.
Quella che va chiarita in questo caso, dunque, è la posizione del preposto.
Pur riconoscendo che, nell’eventualità in cui sia il dirigente stesso ad ispirare delle pratiche scorrette (magari per esigenze di produttività, accelerazione dei tempi di lavoro etc.), la posizione del preposto può essere definita - suo malgrado - assolutamente delicata e spinosa, ciò non toglie che tale comportamento del superiore gerarchico non avrà l’effetto di liberare il preposto stesso dalla propria responsabilità nel caso anche quest’ultimo tolleri tali prassi, avendo egli una posizione di garanzia che, per quanto interconnessa a quella del dirigente e con essa interagente, è comunque giuridicamente definita “autonoma” dalla giurisprudenza.
Vi sono in particolare tre elementi di rilevanza giuridica che, sul piano concettuale, concorrono a definire tale orientamento giurisprudenziale e che saranno oggetto di approfondimento in questo contributo:
1) il concetto di “pluralità delle posizioni di garanzia” o “pluralità di garanti” (allorché vi siano più titolari delle posizioni di garanzia) e la giurisprudenza correlata;
2) il concetto di “autonomia” della posizione di garanzia del preposto;
3) il concetto di obblighi “personali” del preposto.
Tutti i principi che abbiamo esposto finora sono stati applicati concretamente in una importante sentenza di dieci giorni fa ( Cassazione Penale, Sez.IV, 17 marzo 2025 n.10460), con cui la Corte ha confermato la condanna del dirigente A. (manager del reparto di produzione sterile di un’azienda) e di tre preposti operanti all’interno del medesimo reparto (B. caporeparto, C. capoturno e D. vice capoturno) per il reato di lesioni personali colpose gravissime - con perdita di un arto (amputazione del braccio) - in danno di un operaio apprendista assunto da pochi mesi.
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Partiamo dalla posizione del dirigente A., il quale è stato ritenuto penalmente responsabile dell’infortunio per violazione dell’art.18 c.1 lett.f) D.Lgs.81/08 (e quindi per omessa vigilanza), “istituendo, avallando e non impedendo la prassi consolidata e quotidiana volta all’ulteriore lavaggio del filtro essiccatore MD1 […], dopo il lavaggio automatico, effettuata tramite l’apertura del portello metallico del boccaporto e la rotazione del filtro essiccatore di 180, così da portare la rete del filtro in posizione da poterla lavare con la canna dell’acqua facendo cadere a terra le impurità per gravità.”
Era stato accertato nei precedenti gradi di giudizio che “tale operazione prevedeva che venisse aperto e sfilato il portello metallico del boccaporto (affinché non cadesse al suolo per gravità nel momento in cui il filtro veniva ruotato) e venisse disattivato il sensore di sicurezza (sensore induttivo) tramite l’applicazione di un bullone nastrato sul sensore stesso, così da simulare la presenza del portello metallico.”
Pertanto, “in tal modo, anche in assenza del portello metallico del boccaporto, è possibile ruotare il filtro essiccatore sul proprio asse orizzontale e azionare la rotazione della pala del sistema di agitazione interna per verificare il grado di pulizia della macchina”.
E’ importante sottolineare che “è rimasto provato che l’operazione che era stata posta in essere al momento dell’infortunio era un’operazione che era divenuta prassi quotidiana, ad ogni cambio lotto, ad ogni passaggio da un prodotto ad un altro della stessa tipologia.”
Peraltro, la sentenza d’appello dava anche atto che il manager “A. ha riferito in interrogatorio che si occupava della prima formazione dei neoassunti, il training on the job” e che “all’interno del reparto sterile vi era, inoltre, una cassetta con tutto l’occorrente (nastro adesivo, cacciavite eccetera) per smontare i bulloni del boccaporto e disattivare il sensore del filtro essiccatore”; pertanto, “in esito all’istruttoria vi è più che la ragionevole certezza che l’appellante (come i preposti a lui subordinati) fosse consapevole della prassi di lavaggio manuale del filtro, per averla anzi egli imposta nello stabilimento...”.
Come si è già avuto modo di ricordare, in cooperazione colposa col dirigente A. sono stati condannati anche tutti e tre i preposti del reparto di produzione sterile: B. in qualità di caporeparto, C. quale capoturno e D. quale vice capoturno, per violazione dell’art.19 c.1 lettera a) D.Lgs.81/08, “in quanto omettevano di sovraintendere e vigilare sull’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro e, posta la prassi consolidata e quotidiana volta al lavaggio del filtro essiccatore MD1 con inosservanza delle disposizioni di sicurezza […], omettevano di informare i superiori diretti”.
Il coinvolgimento di tutti questi soggetti - ciascuno responsabile per l’intero, come vedremo oltre - si spiega a fronte del quadro emerso a seguito degli accertamenti condotti dal Tribunale e dalla Corte d’Appello.
Infatti, “secondo i giudici di merito era possibile trarre la conclusione per cui la procedura di lavaggio a boccaporto aperto fosse dunque invalsa tra i lavoratori del reparto sterile dello stabilimento ACSD8 di S.”, dal momento che “essa veniva tramandata dai lavoratori con più anzianità di servizio a quelli neoassunti, su indicazione dei capiturno e dei vice capiturno i quali, a loro volta, prendevano ordini dal caporeparto, che, a sua volta, riceveva le direttive dal manager del reparto sterile A.”
Ora arriviamo al punto che maggiormente ci interessa, partendo dal presupposto che ai tre preposti era stato contestato il fatto che essi “avrebbero dovuto portare a conoscenza della procedura in uso per il lavaggio del filtro essiccatore non solo i “superiori diretti” come indicato nel capo d’imputazione, ma anche “altre figure”.”
A fronte di tale contestazione, nel loro ricorso i tre imputati B., C. e D. hanno fatto presente che, “come è pacificamente emerso dall’istruttoria - nell’ambito della quale è stato addirittura evidenziato come all’interno dello stabilimento si respirasse una sorta di clima di terrore -, i lavoratori seguivano pedissequamente quanto ordinato dall’A., con la conseguenza che, anche aggiungendo mentalmente la condotta dei ricorrenti volta a far seguire la corretta procedura di lavaggio, questa non avrebbe comunque scongiurato l’evento, in quanto non sarebbe stata nemmeno presa in considerazione da chi aveva la responsabilità di decidere in che modo si doveva lavorare.”
Sempre secondo i preposti ricorrenti, poi, “quanto invece all’omessa condotta di informare i superiori diretti, […] trattandosi di “consolidata prassi”, tutti erano evidentemente a conoscenza della stessa”.
Sotto questo profilo la difesa dei preposti fa notare che, in pratica, “il capo d’imputazione contesta agli imputati di non aver informato i superiori diretti: in sostanza, contesta al D. di non aver informato il C., al C. di non aver informato il B. e, infine, al B. di non aver informato l’A., vale a dire colui che ha istituito e imposto all’interno dello stabilimento tale “consolidata procedura”.”
La Cassazione rigetta tutti i ricorsi confermando le condanne del dirigente e di tutti e tre i preposti (compreso il vice capoturno D., sulla cui posizione si era particolarmente concentrato, in termini difensivi, il ricorso).
Anzitutto, la Corte premette che “gli altri ricorrenti diversi dall’A. insistono molto in ordine all’effettività della loro presenza in loco all’atto dell’incidente trascurando che, laddove i giudici di merito hanno evidenziato che l’incidente in questione è occorso in virtù dell’invalsa prassi di aggirare i presidi antinfortunistici tesi ad impedire che si operasse a portellone aperto, la responsabilità va ascritta a coloro che quella prassi, in ragione della collocazione nell’organigramma aziendale, avevano tollerato se non favorito.”
Ciò detto, “la tesi che si sostiene [da parte di B., C. e D., n.d.r.] è che non era possibile contrastare le sue decisioni, come dimostrava la vicenda del M., che, a seguito delle proprie rimostranze, era stato costretto a trasferirsi.”
Ma secondo la Cassazione tale argomentazione difensiva non può essere condivisa, in quanto “l’obbligo di segnalazione non si esauriva con le eventuali comunicazioni all’A., quale manager del reparto (peraltro mai effettuate) ma poteva investire altre figure; ad esempio la segnalazione poteva essere fatta ai delegati in materia di igiene e sicurezza nel corso delle riunioni periodiche cui avevano accesso anche i capiturno.”
A questo proposito, la Corte richiama “la testimonianza del V., delegato in materia di sicurezza, il quale ha riferito che la prassi scorretta dì lavaggio in uso nello stabilimento di San Giuliano Milanese non era seguita in alcun altro stabilimento della società e non gli era stata mai segnalata, perché altrimenti sarebbe intervenuto essendo tale pratica, oltre che pericolosa, anche controproducente per la sterilità del prodotto”.
Peraltro la sentenza sottolinea anche il fatto che, a livello logistico, “l’obbligo di vigilanza di tutti era inoltre agevolmente eseguibile essendo l’ufficio dei capiturno e vicecapiturno diviso dal reparto in cui si trovava il filtro essiccatore da una semplice vetrata ed essendo presente nel reparto un impianto di videosorveglianza.”
Dunque, a parere della Cassazione, “la linea difensiva riproposta in questa sede” nell’interesse dei tre preposti, “secondo cui il fatto che fosse stato l’A. l’ispiratore della prassi di cui si è più volte detto, per cui non c’era nessun onere da parte loro di informare i superiori che ben conoscevano la stessa non poteva evidentemente trovare accoglimento da parte di giudici del merito.”
Ciò anzitutto perché “l’A. poteva essere bypassato rivolgendosi ad altri soggetti investiti di garanzie nell’ambito della tutela della sicurezza dei lavoratori.”
Sotto questo profilo, a parere della Corte, “l’esempio del M.” - quale preposto che aveva a suo tempo denunciato ed era stato trasferito - “al contrario di quello che sostengono i ricorrenti, dimostra che denunciare si poteva”.
La sentenza prosegue: “ma soprattutto” - e qui risiede il nodo della questione dal punto di vista giuridico - il ricorso non può essere accolto in quanto “B., C. e D. ricoprivano, ciascuno nell’ambito dei loro compiti, autonome posizioni di garanzia che non hanno adempiuto.”
La Cassazione afferma così il seguente principio di diritto: “il fatto che si venga meno al proprio obbligo di vigilanza sul rispetto delle normative prevenzionistiche in materia di sicurezza del lavoro in esecuzione di precise scelte organizzative da parte dei propri superiori non esonera i sottoposti che rivestono specifiche ed autonome posizioni di garanzia dalla loro responsabilità avendo gli stessi il dovere di non uniformarsi e di denunciare la pratica di prassi lavorative che mettano a rischio l’incolumità dei lavoratori.”
Tale principio rappresenta una derivazione di quello più generale (e assai risalente nel tempo) secondo cui, “in tema di prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è, per intero, destinatario dell’obbligo di tutela imposto dalla legge, sicché l’omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile a ogni singolo obbligato (Sez.4, n.28 del 28/09/2022, dep.2023, Bocchio, Rv.284086-01 […])”.
Con particolare riferimento alle figure del dirigente e del preposto, poi, la giurisprudenza ha chiarito da tempo che, “in tema di infortuni sul lavoro, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascun garante risulta per intero destinatario dell’obbligo di impedire l’evento, fino a che non si esaurisca il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia: in particolare, […] dirigente e preposto sono titolari di autonome posizioni di garanzia, seppure a distinti livelli di responsabilità, dell’obbligo di dare attuazione alle norme dettate in materia di sicurezza sul lavoro.” (Cassazione Penale, Sez. IV, 21 gennaio 2016 n.2539.)
Per quanto concerne nello specifico il preposto, la Cassazione ha avuto modo di precisare che “tra i doveri dei capo cantiere rientra, ad esempio, quello di segnalare situazioni di pericolo per l’incolumità dei lavoratori e di impedire prassi lavorative contra legem (Sez.IV, n.4340 del 24/11/2015-dep.2016, Zelanda e altri, Rv.265977); e, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia - con conseguente assunzione da parte di ciascun garante dell’obbligo di impedire l’evento-, il capo cantiere è in particolare destinatario diretto dell’obbligo di verificare che le concrete modalità di esecuzione delle prestazioni lavorative all’interno del cantiere rispettino le normative antinfortunistiche” ( Cassazione Penale, Sez.IV, 19 maggio 2017 n.24948).
E’ chiaro, in conclusione, che è a questi aspetti che la giurisprudenza fa riferimento quando parla di obblighi “personali” del preposto in correlazione con l’“autonomia” della posizione di garanzia di tale soggetto.
In tal senso, infatti, secondo la Suprema Corte il preposto è “personalmente tenuto a fare adottare ai dipendenti i necessari mezzi di protezione individuale adeguati al tipo di lavoro che devono compiere, svolgendo a tal fine specifica attività di vigilanza e controllo; altrimenti, in caso di insorgenza di rischi all’integrità fisica dei lavoratori, deve segnalare al datore di lavoro la carenza o inadeguatezza del mezzo di protezione individuale dato in uso ai dipendenti.” ( Cassazione Penale, Sez. IV, 11 marzo 2008 n.10812).
Anna Guardavilla
Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro.

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Rispondi Autore: Stefano ![]() | 28/03/2025 (09:10:01) |
In poche parole il preposto si trova sempre più tra l'incudine ed il martello. Vero è che non può subire pregiudizio alcuno (art 18 c.1 l. b-bis), ma di fatto basta un trasferimento, uno spostamento ad una mansione meno favorevole, per rovinare la vita di sto povero cristo. Quindi la scelta è: o denunci, stai tranquillo penalmente ma ti rovini la vita, o te la rischi penalmente ma stai tranquillo a lavoro. Se il preposto segnala e il dirigente se ne frega, perchè a pagare deve essere il preposto?! Non la vedo assolutamente una cosa corretta. |