L’attività di indagine preliminare e quella ispettiva degli UPG
In questa sentenza la Corte di Cassazione, nel decidere su di un ricorso presentato da un datore di lavoro che era stato condannato dal Tribunale alla pena di 3.000 euro di ammenda perché dichiarato colpevole del reato di cui agli artt. 71 comma 1 e 87 comma 1 lett. b) del D. Lgs. n. 81/2008, ha fornito dei chiarimenti in merito alla natura e alla finalità dell’attività di ispezione o di vigilanza svolta dagli ufficiali di polizia giudiziaria in materia di salute e sicurezza sul lavoro e sulla differenza esistente fra la stessa e l’attività di indagine preliminare.
L’attività ispettiva degli UPG, ha infatti sostenuto la suprema Corte, non è una attività di indagine preliminare che presuppone l’esistenza di una “notitia criminis” ma è finalizzata a raccogliere indizi di reato e altri elementi utili per l'applicazione della legge penale. Secondo l'art. 220 sulle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, infatti, quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale sono compiuti con l'osservanza delle disposizioni del codice. Il confine quindi tra l'attività ispettiva e quella di indagine preliminare è segnato dalla mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall'inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata.
Nel caso in esame, avendo l’imputato sostenuto nel suo ricorso di non avere assunto la posizione di datore di lavoro e che la prova raccolta dall’ufficiale di polizia giudiziaria dell’organo ispettivo di vigilanza era inutilizzabile, la Corte di Cassazione ha sottolineato che tale posizione era stata correttamente individuata dal giudice sulla base e degli elementi dallo stesso raccolti e ha pertanto dichiarato inammissibile il ricorso stesso.
Il fatto, la condanna e il ricorso per cassazione.
Il datore di lavoro di un’impresa ha ricorso alla Corte di Cassazione per l'annullamento della sentenza del Tribunale con la quale lo aveva dichiarato colpevole del reato di cui agli artt. 71, comma 1, e 87, n. 1), lett. b), del D. Lgs. n. 81 del 2008, e, previa applicazione delle circostanze attenuanti generiche, lo aveva condannato alla pena di 3.000,00 euro di ammenda.
Con un primo motivo il ricorrente ha dedotto una erronea applicazione degli artt. 71, comma 1 del D. Lgs. n. 81/2008, nonché degli artt. 63, 191, 194, 195, comma 4, del codice di procedura penale per mancanza di prova della propria qualifica di "datore di lavoro". Ha dedotto, al riguardo, l'inutilizzabilità assoluta della testimonianza resa, sul punto, dal maresciallo dei Carabinieri in servizio presso il Nucleo Ispettorato del Lavoro del Comando locale dei Carabinieri. il quale aveva riferito di aver accertato nell'immediatezza del sopralluogo, interloquendo con i soggetti presenti in cantiere, che l'appaltatore dei lavori in atto era, appunto l’imputato e che un altro lavoratore lo stava coadiuvando nella loro esecuzione.
Secondo il ricorrente le cause di inutilizzabilità erano precisamente il divieto di testimonianza indiretta di cui all'art. 195, comma 4, del codice di procedura penale che non conosce deroghe, nemmeno se si tratta di informazioni assunte dall'agente/ufficiale di PG nel corso dell'attività amministrativa di vigilanza e che la generica indicazione delle fonti delle informazioni apprese non esclude che il testimone possa aver acquisito la conoscenza del dato riferito in udienza direttamente dall'imputato, in evidente violazione dell'art. 63 del codice di procedura penale e, ciò sul rilievo che al sopralluogo erano presenti soltanto lui ed un'altra persona.
Come secondo motivo il ricorrente ha dedotto il travisamento della visura camerale dalla quale era risultato che la sua impresa non era più operativa da tempo, in quanto fallita, e della sua stessa testimonianza nella parte in cui aveva riferito di non sapere a chi appartenessero i beni strumentali (betoniera a frullino) rinvenuti in occasione della verifica. Né possono essere desunti, ha aggiunto ancora l’imputato, elementi di responsabilità dai comportamenti da lui stesso tenuti nel corso del procedimento, extraprocessuale, disciplinato dal D. Lgs. n. 758 del 1994, o da presunti oneri di allegazione a suo carico.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.
Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione. Dalla lettura della sentenza impugnata, ha osservato la stessa, risulta che: a) i militari in servizio presso il Nucleo Ispettorato del Lavoro del Comando locale dei Carabinieri avevano effettuato una verifica presso un cantiere nel quale erano in corso opere di ristrutturazione di un edificio poderale; b) sul posto erano presenti il ricorrente ed un'altra persona che, avvalendosi anche di attrezzature alimentate elettricamente (un frullino ed una betoniera), stavano provvedendo alla messa in sicurezza di una trave; c) il maresciallo dei Carabinieri aveva constatato che le apparecchiature erano collegate direttamente ad una presa di corrente senza la protezione di un quadro elettrico, con conseguente violazione degli artt. 70, 71 e 80 del D. Lgs. n. 81 del 2008.
Ha evidenziato ancora la suprema Corte che la penale responsabilità dell'imputato e la sua qualifica di "datore di lavoro", tenuto all'osservanza del precetto, erano state affermate dal Tribunale in base: a) alla sua testimonianza per avere riferito che nell'immediatezza del sopralluogo aveva interloquito con i soggetti presenti; b) alla visura camerale in atti dalla quale era risultato che l’imputato era titolare di impresa esercente attività edile; c) al fatto che, in merito alle contestazioni sollevate e formalizzate nel verbale di accertamento, l’imputato non aveva avuto nulla da dichiarare; d) al fatto che aveva provveduto a sanare le irregolarità contestate (senza però procedere al pagamento dell'oblazione alla quale era stato ammesso).
Secondo l'art. 220 sulle disposizioni attuative del codice di procedura penale, ha sottolineato la Sez. III, «quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale sono compiuti con l'osservanza delle disposizioni del codice». Il confine, quindi, tra l'attività ispettiva e quella di indagine preliminare è segnato dalla mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall'inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata.
Il fatto che l'attività ispettiva sia stata effettuata da un maresciallo dei carabinieri, in quanto tale ufficiale di polizia giudiziaria (art. 55, comma 1, lett. b, del codice di procedura penale, ha aggiunto la suprema Corte, non qualifica l'attività ispettiva e di vigilanza come indagine preliminare ai sensi del codice di rito. Anche gli ispettori del lavoro, nei limiti del servizio a cui sono destinati, e secondo le attribuzioni ad essi conferite dalle singole leggi e dai regolamenti, sono ufficiali di polizia giudiziaria (art. 8, del D.P.R. 19 marzo 1955 n. 520 sulla Riorganizzazione centrale e periferica del Ministero del lavoro e della previdenza sociale). Sono altresì ufficiali di polizia giudiziaria gli addetti ai servizi di ciascuna unità sanitaria locale, nonché ai dipartimenti di prevenzione, in relazione alle funzioni ispettive e di controllo da essi esercitate relativamente all'applicazione della legislazione sulla sicurezza del lavoro (art. 21 della legge 23 dicembre 1978 n. 833).
“Ciò che rileva, dunque”, ha sottolineato la Sezione III, “è esclusivamente lo svolgimento di un'attività ispettiva o di vigilanza nel corso della quale possano emergere indizi di reato; l'attività di indagine preliminare, invece, presuppone l'esistenza di una "notitia criminis". La questione posta dal ricorrente, dunque, ha riguardato l'individuazione del momento esatto nel quale l'UPG ha accertato l'esistenza della violazione penalmente rilevante: se cioè prima o dopo aver interpellato l'imputato e l’altro lavoratore presente sulla titolarità dell'impresa che stava eseguendo i lavori. Si tratta, dunque, di una questione di fatto che logicamente precede quella relativa alla inutilizzabilità della prova e che non può essere proposta per la prima volta in sede di legittimità se richiede valutazioni di fatto su cui è necessario il previo vaglio, in contraddittorio, da parte del giudice di merito.
Il ricorso presentato, sul punto, ha così sottolineato la suprema Corte è stato del tutto silente (e generico) avendo posto la questione in termini assertivi di errata applicazione delle norme sostanziali e processuali indicate nel titolo del primo motivo senza alcun riferimento alla concreta dinamica dell'accertamento.
Per quanto riguarda il secondo motivo lo stesso è stato ritenuto dalla Corte di Cassazione inammissibile perché manifestamente infondato e proposto al di fuori dei casi consentiti dalla legge nella fase di legittimità. Nella logica decisoria, le risultanze della visura camerale hanno avuto un peso decisivo, insieme con il comportamento tenuto dall'imputato che ha adempiuto alle prescrizioni imposte.
Il ricorrente ha dedotto il travisamento della visura, ha così concluso la suprema Corte, ma, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso, non ha allegato il documento al ricorso. Quando si deduce la omessa valutazione o il travisamento del contenuto di specifici atti del processo penale, è onere del ricorrente, in virtù del principio di "autosufficienza del ricorso" suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell'integrale contenuto degli atti medesimi (ovviamente nei limiti di quanto era già stato dedotto in sede di appello), dovendosi ritenere precluso al giudice di legittimità il loro esame diretto, a meno che il "fumus" del vizio dedotto non emerga all'evidenza dalla stessa articolazione del ricorso.
E' necessario, pertanto: a) identificare l'atto processuale omesso o travisato; b) individuare l'elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell'elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell'atto processuale su cui tale prova si fonda;
d) indicare le ragioni per cui l'atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l'intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale "incompatibilità" all'interno dell'impianto argomentativo del provvedimento impugnato.
Il comportamento tenuto dall'imputato che ha adempiuto alle prescrizioni, infine, non può essere liquidato, secondo la suprema Corte, come "tutt'altro che univoco" trattandosi di condotta che invece ha dato dimostrazione dell'effettiva titolarità dell'impresa da parte del ricorrente.
Al rigetto del ricorso è susseguita la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Gerardo Porreca
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