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Il formatore, un lavoro che scompone e che prova

Il formatore, un lavoro che scompone e che prova
Tiziano Menduto

Autore: Tiziano Menduto

Categoria: Formatori

18/01/2017

Un documento Inail si sofferma sulla qualificazione del formatore e riporta alcune riflessioni: la formazione come esperienza da condividere, la sicurezza reciproca e l’attività del formatore come un “lavoro che scompone e che prova”.


Roma, 18 Gen – Se un livello adeguato di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro costituisce un importante indicatore del livello di civiltà di un Paese, la formazione alla sicurezza “rappresenta un aspetto sostanziale nella strategia di prevenzione e contrasto al fenomeno degli infortuni e delle malattie professionali”. Tuttavia solo se realizzata in maniera efficace “permette di accrescere le conoscenze e le competenze di tutti gli ‘attori’ coinvolti nei processi di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro”.


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A fare queste affermazioni e ad affrontare il tema della qualità della formazione e dei formatori, è una pubblicazione realizzata dal Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro ed ambientale dell’ Inail, dal titolo “ La qualificazione del formatore alla salute e sicurezza sul lavoro tra idealizzazione e valutazione”. Una pubblicazione che ha presentato i risultati di una ricerca, realizzata dall’Inail in collaborazione con l’Università degli Studi di Bergamo, che ha permesso di identificare aree di competenza e indicatori per la valutazione della qualità di un formatore in materia di salute e sicurezza.

 

Dopo aver raccolto, nelle scorse settimane, indicazioni relative alle aree di competenza e agliindicatori per la valutazione della qualità di un formatore, raccogliamo oggi le riflessioni conclusive degli autori sul lavoro, le funzioni, i compiti e le potenzialità del delicato ruolo di docente formatore alla sicurezza.

 

Nel capitolo finale del documento, capitolo dal titolo esplicativo “Conclusioni: qualificare la formazione alla salute ed alla sicurezza sul lavoro”, ci si sofferma innanzitutto su un concetto: la “formazione è un’esperienza”.

 

Gli autori ricordano che “quando si apre un percorso di formazione con uomini e donne attorno ai temi del lavoro, delle competenze e delle responsabilità si lavora sempre per realizzare un incrocio significativo di storie diverse. Un incrocio sul quale si provano significati, incontri, orientamenti; un incrocio sul quale sono sempre in gioco elementi di identità e appartenenza”. E nel gruppo “si incontrano storie di lavoro e di vita, non solo partecipanti o corsisti”, si incontrano esperienze. E in fondo è proprio “dentro i momenti e i cammini personali” che i temi all’attenzione, i temi del percorso formativo assumono rilevanza.

 

Si indica dunque che chi giunge in formazione “ha una sua storia ed una sua esperienza; sa e fa con pratiche, abitudini e competenze maturate nel tempo; ha già avuto spesso responsabilità, ha risposto a difficoltà, se l’è cavata. Il suo modo di stare e fare con altri ha ragioni e motivazioni: nel lavoro si sente abbastanza sicuro, la formazione gli chiede di sentirsi un po’ insicuro, di mettersi in discussione, di acquisire pratiche e conoscenze che non sono già sue”.

 

In questo senso “proporre la formazione come esperienza bella e arricchente vuol dire costruirla come luogo nel quale si accolgano e si apprezzino le esperienze e le storie di ognuno, dove le differenze sono preziose e arricchiscono, dove si lavora insieme e non si resta in solitudine”.

A volte ci troviamo di fronte alla “durezza dell’agire specialistico, a volte autoreferenziale e chiuso, alle frontiere rigide di certe comunità tecniche, alle pratiche e alle ragioni settoriali. Non si può vivere di durezza, non si crea un legame, né si stabilisce fiducia; non si riesce a lavorare insieme, non si fa un buon lavoro”.

Invece chi si occupa di sicurezza e salute “ha da essere, piuttosto, un buon regista che cura processi e relazioni, che cura le connessioni e le distanze, che gestisce conflitti in modo evolutivo”.

 

Insomma un gruppo di lavoro per essere tale “necessita di una cura educativa come tutti i contesti interumani nei quali: si vive la dinamica di una trasmissione di saperi e di pratiche; si costruisce conoscenza condivisa attorno a problemi sui quali si interviene operativamente; si produce un’interazione complessa tra ruoli, saperi, tecniche diversi e specifici; si deve sviluppare un’attenzione continua su processi e situazioni in evoluzione; si deve sapere comunicare efficacemente e tempestivamente; si vive un conflitto  delle interpretazioni assumendo storie di lavoro e di relazione; si giocano emozioni e vissuti, si agisce con un investimento di motivazioni e senso”. Ed è allora importante che “si sviluppino nei percorsi educativi e formativi esperienze che alimentino il pensiero partecipativo, complesso, pluralistico”: la formazione ben costruita è come una ‘indagine pratica’ sul lavoro che si fa, “permette di dire e rappresentare le proprie pratiche ed i propri posizionamenti sul lavoro, nell’organizzazione.  Se ne può uscire con un di più di conoscenza e di senso del valore di quel che si fa. E con una, non scontata, considerazione dell’importanza di fidarsi e di essere affidabili”.

 

Rimandando ad una lettura integrale di questa interessanti considerazioni, espresse dagli autori con un linguaggio molto espressivo, ci soffermiamo più brevemente sulla parte relativa alle “competenze per la cura di sé e la messa in sicurezza reciproca”. 

 

Si indica che “una delle parti più ricche e preziose del presente lavoro è rappresentata certamente dalla elaborazione attorno alle aree di competenza del formatore alla salute ed alla sicurezza. Attorno alla attività di artigianato che ogni formatore deve sviluppare attorno ad esse”. E nell’attività formativa è importante “saper trafficare con la propria vulnerabilità, accogliendola, ripensandola come condizione per il progetto e per il legame, con altri e per altri”. È altresì importante “lavorare riflessivamente su di sé, sul proprio sentire, sui vissuti e sulle emozioni (per sapere cosa farsene), per dare buona destinazione e senso alle energie interiori; per saper fare buon impiego nell’incontro e nell’azione con altri”.

Bisogna “mettersi in sicurezza reciproca, vegliare gli uni sugli altri, responsabili e affidabili, capaci di fidarsi e di esporsi; tessendo reciprocità, mantenendo la parola”. Il significato di quel che facciamo “(il senso, il valore, il rinvio ad altro) è da curare e, insieme, da svelare come richiesta di legame, di incontro, di riconoscimento”.

 

Un’ultima parte del documento riconosce che siamo di fronte ad “un lavoro che scompone e che prova”.

 

Infatti “sempre più spesso i formatori (come gli operatori dei servizi) incontrano non domande ma storie: si narrano loro di fratture biografiche, o le difficoltà a tenere i progetti familiari in equilibrio, l’incapacità di gestire, di immaginare nuove possibilità e ricomposizioni delle condizioni materiali della vita, di un lavoro incerto o sullo sfondo delle preoccupazioni”.

Ma come riuscire a “farsi attenti alle diverse storie, alle diverse attese e alle diverse ansie di lavoratori che vivono le dinamiche scomposte di mercati del lavoro segmentati per generazioni, per generi, per culture, per riferimenti normativi e contrattuali? Lavoratori e lavoratrici vivono non di rado la realtà del lavoro e il lavorare come esperienza di vulnerabilità, mentre un tempo era punto forte di acquisizione di stabilità, di diritti, di spazi di libertà e di progetto”. Spesso questo lavoro “accompagna a volte e pure provoca un lento esodo dalla cittadinanza, uno sfinimento della fiducia nelle istituzioni, un’erosione del senso di appartenenza alla comunità”.

 

Ma è invece possibile “pensare le occasioni di formazione alla sicurezza e alla salute sul lavoro come luoghi di ricomposizione, di lavoro su di sé? E sugli orizzonti di ripresa di senso di questa esperienza di lavoro nelle biografie, e nella vita comune? Che salute si può recuperare se non su queste frontiere”?

Certo il “rapporto tra esperienza di lavoro, mancanza di lavoro e vulnerabilità personale e sociale è complesso: si gioca nella precarietà, nell’erosione dei diritti e a volte nello scivolamento fino al (e oltre il) limite della legalità, nello scontro tra le generazioni, nelle serie questioni della sicurezza e della salute. Si gioca nelle sofferenze che lavorare e non lavorare provoca, e nelle malattie dell’identità, nelle crisi dell’immagine di sé”.

 

E l’importanza del ruolo del docente formatore è proprio insito - conclude il documento Inail – nel fatto che “attorno al lavoro, alla sua qualità ed alla sua mancanza si raccoglie e, si potrebbe dire, s’aggruma un cambiamento della condizione umana e delle relazioni di convivenza”.

 

Insomma un compito non semplice quello del formatore, come descritto nel documento, se vissuto nella consapevolezza e ricchezza di queste problematicità che vanno ben oltre la semplice comunicazione di aspetti tecnici e buone prassi in materia di salute e sicurezza.

 

 

Inail, “ La qualificazione del formatore alla salute e sicurezza sul lavoro tra idealizzazione e valutazione”, pubblicazione realizzata dal Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro ed ambientale e a cura di Mauro Pellici, Cristina Dentici, Antonio Pizzuti, Cinzia Milana, Sara Stabile, Ghita Bracaletti, Enrico Lo Scrudato (INAIL - Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro ed ambientale) e Silvia Brena, Stefano Tomelleri e Ivo Lizzola (Università degli studi di Bergamo - Dipartimento scienze umane e sociali), edizione 2016 (formato PDF, 2.37 MB).

 

Vai all’area riservata agli abbonati dedicata a “ La qualificazione del formatore alla salute e sicurezza sul lavoro”.

 

 

Leggi gli altri articoli di PuntoSicuro su ruolo, compiti e responsabilità dei formatori

 

 

Tiziano Menduto



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