COVID-19: prime riflessioni di merito sul nuovo protocollo condiviso
Come ricordato in vari articoli del nostro giornale il 30 giugno 2022 è stato siglato il nuovo “ Protocollo condiviso di aggiornamento delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus SARS-CoV-2/COVID-19 negli ambienti di lavoro” che aggiorna e rinnova i precedenti protocolli.
Per approfondirne la conoscenza e raccogliere utili riflessioni sulle indicazioni contenute per i luoghi di lavoro, in relazione al contenimento del virus SARS-CoV-2, riceviamo e volentieri pubblichiamo un contributo di Cinzia Frascheri, non solo giuslavorista e responsabile nazionale CISL salute sicurezza sul lavoro, ma anche uno dei componenti del tavolo di confronto nazionale che ha elaborato il Protocollo.
Prime riflessioni di merito sul nuovo Protocollo condiviso siglato il 30 giugno 2022
Dopo più di un anno dall’ultimo aggiornamento svolto il 6 aprile 2021, nella serata del 30 giugno u.s., al termine di un lungo confronto tra i ministeri competenti (supportati dall’INAIL) e le Parti sociali, si è giunti, come noto, alla definitiva elaborazione dell’innovato “Protocollo condiviso delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus SARS-CoV-2/Covid19 - negli ambienti di lavoro”, potendo contare su di una prima intenzione di base condivisa, riferita alla necessità di dover necessariamente rivedere il testo alla luce del mutato quadro normativo e post-emergenziale.
Un’esigenza indubbiamente divenuta non procrastinabile, considerate le tante ormai inapplicabili misure di tutela previste nel Protocollo condiviso, frutto dell’ultimo intervento sul testo risalente al 2021, ma non per questo traducibile in un testo dalla potenziale validità a lungo termine, non potendo ignorare il quadro offerto dalla curva epidemica in Italia e dal trend di evoluzione dei contagi; indicatori che hanno difatti portato collegialmente a ritenere opportuno fissare, nella data del 31 ottobre 2022, un termine ultimo entro il quale rivedere le misure prevenzionali introdotte, potendo comunque anche anticipare il confronto, in caso se ne riscontrasse la necessitò e l’urgenza, dettate dall’evoluzione dello scenario epidemiologico generale.
Così, preservando e confermando “l’obiettivo di fornire indicazioni operative aggiornate, finalizzate a garantire negli ambienti di lavoro non sanitari, l’efficacia delle misure precauzionali di contenimento adottate per contrastare l’epidemia di COVID-19”, ribadendo che il virus SARS-CoV-2 rappresenta un rischio biologico generico (fuori dai contesti sanitari), “per il quale occorre adottare misure uguali per tutta la popolazione”, si è andati - con faticosa acquisita soddisfazione di tutti – perseguendo la linea propria dell’ormai consolidato “nuovo modello prevenzionale”: adattare e declinare le disposizioni generali ai diversi contesti lavorativi, tenendo conto, sulla base di valutazioni specifiche, della popolazione lavorativa, delle mansioni, dell’attività e dell’organizzazione del lavoro, scegliendo ed adottando le misure e gli interventi ritenuti necessari.
Racchiudendo in poche righe il mandato posto a cardine del documento, la ratio perseguita e il fine da raggiungere, resi complessivamente ancor più in evidenti da una confermata piena condivisione esplicitata nel testo da un “si stabilisce che”, posto al centro e graficamente rafforzato dall’utilizzo di caratteri in grassetto, chiaro risulta il percorso che i datori di lavoro dovranno ri-porre in essere dovendo aggiornare, nei propri contesti lavorativi, il Protocollo di sicurezza anti-contagio.
Applicando, pertanto, le regole precauzionali introdotte, declinandole in base alle esigenze e specificità, ma anche integrandole “con altre eventuali equivalenti o più incisive, secondo le peculiarità della propria organizzazione”, il datore di lavoro potrà rendere concreta l’azione, volta a “tutelare la salute delle persone presenti all’interno dei luoghi di lavoro e garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro”, avvalendosi per questo - come espressamente indicato (e pertanto, collegialmente, voluto dalle Parti sociali) - del confronto preventivo con le diverse rappresentanze sindacali interne (o, territoriali), con le quali condividere e rendere più efficaci le misure delineate.
Confermato il ruolo del Comitato (aziendale o territoriale) quale artefice insostituibile de ”l’applicazione e la verifica delle regole contenute nel Protocollo”, e la sua composizione ampia, nella quale rimane prevista la partecipazione delle rappresentanze sindacali e del RLS (che divengono RLST e rappresentanti delle Parti sociali, quando a carattere territoriale), consolidandosi in questo modo la naturale prosecuzione dell’attività, quale continuazione di quanto svolto a partire dalla sua costituzione - già prevista nella stesura del Protocollo condiviso del 14 marzo 2020 -, è sicuramente importante concentrare l’attenzione su alcune delle novità introdotte, particolarmente rilevanti sia sul piano metodologico che nel merito delle specifiche disposizioni.
Indicativo più dell’approccio metodologico, sostanzialmente adottato nell’aggiornato Protocollo condiviso, anziché di rilevanti misure introdotte, è sicuramente quanto contenuto nel Paragrafo n.6, riferito ai “Dispositivi di protezione delle vie respiratorie”.
E’, difatti, evidente come si delineino tre modalità diverse di intervento, riconducibili a soggetti differenti e, pertanto, con diversificati ambiti di responsabilità, operando complessivamente fuori da una dimensione di obbligatorietà all’uso dei dispositivi (da intendersi mascherine FFP2), quale misura di tutela imposta, a priori e in modo generalizzato, oggi prevista solo in alcuni settori (quali il trasporto e la sanità).
Chiamando a responsabilità, della propria e dell’altrui tutela, i soggetti operanti nel contesto lavorativo, in linea di totale coerenza con quanto dettato dall’art.20 del DLGS 81/08 s.m. (nel quale si legge che “ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro”), i sottoscrittori del Protocollo condiviso hanno ritenuto opportuno far prevalere una libera scelta, informata, anziché un obbligo, per quanto riguarda l’uso delle mascherine FFP2, in ambito lavorativo.
Riconoscendo ed esplicitando il valore di “presidio importante di tutela della salute dei lavoratori ai fini della prevenzione del contagio”, indicando le condizioni potenzialmente più favorevoli a determinare una maggiore diffusione del virus SARS-CoV2 (come l’ampia condivisione degli spazi da parte di più soggetti, il ridotto distanziamento, la forte presenza di pubblico.…), auspicando un eventuale supporto info-formativo sui dispositivi di protezione, da parte del medico competente (si veda quanto previsto al Paragrafo n.10), la scelta dell’utilizzo è stata lasciata al singolo prestatore di lavoro. Facendo correttamente gravare sul datore di lavoro la mera responsabilità di assicurare la piena disponibilità delle mascherine FFP2, “al fine di consentirne a tutti” la libertà di scelta nell’indossarle, o meno.
Di approccio diverso, seppur posto in parallelo, sottolineato da un iniziale ed indicativo “inoltre”, è quanto previsto - sempre nel Paragrafo n.6 - in capo alla diretta responsabilità del datore di lavoro, ancora in merito all’uso, o meno, delle mascherine FFP2, in ambito lavorativo.
Adottando quello che ormai da tempo, come detto, viene identificato con il “nuovo modello di prevenzione” (seppur di più che trentennale origine comunitaria), è stata posta a centralità, quale integrazione della libertà generalizzata lasciata ai singoli prestatori di lavoro, in merito all’uso dei dispositivi, la pratica della valutazione specifica, riferita al contesto, e la conseguente individuazione delle misure adeguate, per ogni ambito e popolazione lavorativi.
Riportando la responsabilità sulla figura del datore di lavoro, artefice della scelta delle “misure necessarie” che vadano a garantire le tutele (come previsto dalla norma chiave della salute e sicurezza sul lavoro, nell’art.2087 cod. civ.), è stato previsto che, a fronte della generalizzata libertà lasciata ai singoli sull’uso della mascherina, egli possa, valutando le diverse specificità e, pertanto, le esigenze del proprio contesto lavorativo, compresi “particolari gruppi di lavoratori”, decidere di introdurre l’obbligo dell’utilizzo delle mascherine FFP2; passando, in questo modo, da una mera responsabilità riferita all’assicurare la disponibilità per chi ne facesse richiesta (nel pieno della libertà di scelta da parte dei lavoratori), alla necessaria fornitura e, conseguente a queste, al presidio del rispetto dell’obbligo introdotto per alcuni, e in determinate circostanze. È, in tal senso, rilevante l’aver differenziato in modo puntuale l’onere per il datore di lavoro di “assicurare la disponibilità di FFP2”, dall’obbligo di ‘fornire adeguati dispositivi di protezione individuali (FFP2)”, in quanto, se nel primo caso si potrebbe ritenere anche sufficiente il mettere a disposizione una mascherina al giorno per lavoratore (che ne fa richiesta), nel secondo caso, deve essere garantita una fornitura consona all’uso obbligatorio di un dispositivo di protezione (che, in particolare in estate, potrà richiedere un ricambio frequente nella giornata lavorativa, a causa di sudorazione). Scelte tutte necessariamente da riversare e tracciare nell’aggiornato Protocollo di sicurezza anti-contagio, in ogni realtà lavorativa.
Oltremodo importante, su questo passaggio, è sicuramente l’ulteriore variabile che si delinea.
A porre un contributo rilevante, difatti, ma non vincolante, nella scelta che il datore di lavoro liberamente è chiamato a fare, alla luce della valutazione di una serie di elementi caratterizzanti il proprio contesto lavorativo, è previsto possa giungere una “specifica indicazione del medico competente o del responsabile del servizio di prevenzione e protezione”.
Se sicuramente quanto indicato dal medico competente, in particolare nei riguardi di scelte da operare a favore dei soggetti fragili, potrà avere un peso rilevante nelle scelte che il datore di lavoro comunque sarà chiamato a fare nella sua autonomia, gravata da responsabilità, l’aver posto sullo stesso piano l’indicazione proveniente dall’RSPP, evidenziata dalla “o”, quale segno di evidente alternativa, di pari valore, con la figura del medico competente, sottolinea come l’indicazione che da tali figure potrà pervenire, seppur di autorevole competenza, non rappresenterà mai un vincolo per il datore di lavoro di adottare determinate misure, nel caso specifico, obbligare all’uso delle mascherine alcuni lavoratori.
Sapendo poi che l’RSPP è “utilizzato” dal datore di lavoro (art.33, DLGS 81/08 s.m.) per la sua competenza tecnica, non ricoprendo comunque una posizione di garanzia, questo rafforza la chiarezza nel comprendere che, da parte degli estensori, non vi sia stata alcuna intenzione (rilevabile in modo evidente nell’ultimo capoverso del Paragrafo n.6), nel volere trasferire, tout court, la scelta e la relativa responsabilità, previste in capo al datore di lavoro, al medico competente e, ancor più all’RSPP, ai quali andrà riconosciuto, comunque, quanto indicheranno al datore di lavoro, nel caso che quest’ultimo, sottovalutando o non considerando le indicazioni ricevute, non adotti la decisione di obbligare, all’uso delle mascherine FFP2, la popolazione lavorativa o gruppi di lavoratori (tra cui i soggetti fragili), determinando danni conseguenti.
Interessante, in questo senso, e confermativo di quanto sostenuto, la precisazione riferita al medico competente (introdotta nel Paragrafo n.10) chiamato a collaborare (e a null’altro, come già previsto all’art. 25, co.1, lett. a del DLGS 81/08 s.m.) con il datore di lavoro, l’RSPP e l’RLS/RLST, all’identificare e attuare “misure volte al contenimento del rischio di contagio”, ma non per questo mutando i ruoli e le responsabilità di ciascun attore della prevenzione aziendale.
Di ulteriore rilievo, tralasciando come detto il commento puntuale di ogni singola misura indicata, superando l’evidente punto di non chiarezza nell’aver confuso la procedura di igienizzazione con la sanificazione (rimarcato da più interventi in fase di elaborazione e confronto, ma poi non corretto; imprecisione che creerà non poche conseguenze operative, a partire dal dove considerare che per sanificare non vi devono essere soggetti in presenza, se non coloro che, qualificati, la attuano), è la scelta condivisa di introdurre un duplice regime di misure, quelle obbligatorie e quelle oggetto di valutazione e declinazione specifica (se del caso), sulla base del contesto e delle tutele da garantire, riportandole nell’alveo della responsabilità piena del datore di lavoro, pur nel quadro complessivo dell’operatività prevista da parte del Comitato.
Pertanto, se nei riguardi di determinate misure, il rispetto di quanto dettato nel Protocollo condiviso sarà riferito al garantirne l’attuazione, pur sempre adattata all’ambito lavorativo e alle sue specificità, ma mai esclusa; diversamente, per le misure introdotte, ma non poste quali obblighi, le azioni che dovranno essere messe in atto, non riguarderanno il mero adattarle all’ambito lavorativo, alle mansioni e/o alla popolazione, ma lo svolgere una valutazione puntuale di opportunità e necessità sul metterle in atto, o meno, e quindi, successivamente, sul garantirne la corretta adozione e il rispetto. Così, tra le misure obbligatorie troviamo il contingentamento riferito a “l’accesso agli spazi comuni, comprese le mense aziendali, le aree fumatori e gli spogliatoi”, la “pulizia giornaliera e la sanificazione periodica”, l’adozione di “tutte le precauzioni igieniche, in particolare per le mani”, l’informazione di “tutti i lavoratori e chiunque entri nel luogo di lavoro (…) sulle misure precauzionali da adottare”, mentre sul fronte opposto, troviamo sostanzialmente la gestione dei flussi di entrata e uscita e il controllo della temperatura.
Pur rilevando, infine, un’anomalia nell’aver esplicitato, in un testo come quello del Protocollo condiviso, quale “linee guida” per agevolare le imprese nell’aggiornamento del proprio Protocollo di sicurezza anti-contagio, quello che le Parti sociali auspicano in tema di proroghe - oggetto comunque di unanime richiesta da parte dei sottoscrittori, sia per quanto riguarda le specifiche misure prevenzionali e organizzative per i lavoratori fragili (Paragrafo n.12), che per quella riferita al ricorso dello strumento del lavoro agile “emergenziale” (Paragrafo n.11), sperando che dal parere espresso positivo da parte dei ministeri competenti presenti, si vada celermente alla concretizzazione delle proroghe - quanto complessivamente condiviso, segna sicuramente un rinnovato passo avanti nel percorso di tutela partecipata, da tutti ritenuta la via d’eccellenza da perseguire.
Il risultato raggiunto, ma non meno il clima collaborativo creatosi durante i lavori di redazione, sono segnali concreti che fanno ben sperare nell’andare verso una prassi consolidata di confronto, collaborazione ed impegno continui, non solo volti al contrasto e contenimento della diffusione del Covid-19, ma per un reale radicamento della prevenzione efficace nel mondo del lavoro.
Cinzia Frascheri, Giuslavorista Responsabile nazionale CISL salute sicurezza sul lavoro
Scarica il documento citato nell’articolo:
“ Protocollo condiviso di aggiornamento delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus SARS-CoV-2/COVID-19 negli ambienti di lavoro”, protocollo condiviso sottoscritto il 30 giugno 2022 (formato PDF, 308 kB).
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Rispondi Autore: Marco - likes: 0 | 06/07/2022 (15:29:34) |
Buongiorno, una aperta riflessione, finchè le associazioni di categoria inviano circolari ricordando il non obbligo di mascherine, se non quando la distanza è inferiore a 1 m, ma soprattutto finchè sono permessi i "JovaParty" (concerti) con 60K persone che pogano, come possiamo noi poveri RSPP imporre l'uso delle mascherine all'interno dell'azienda? come ribattere al datore di lavoro "le mascherine non servono perchè le persone non si contagiano in azienda ma fuori"? io vedo un forte controsenso, o mascherine dappertutto a per nessuno. |
Rispondi Autore: Paolo - likes: 0 | 06/07/2022 (16:23:31) |
Oggi ho partecipato a una riunione di comitato dove il datore ha ribadito che non capisce perchè le mascherine al lavoro si e in tutto il resto della vita no. Mi sono trovato senza risposte. Questi protocolli fatti così non servono a niente fanno sono arrabbiare il DDL e i lavoratori si chiedono perchè al JovaParty non servono le mascherine mentre al lavoro servono, non c'è nessuna logica |
Rispondi Autore: Fra - likes: 0 | 06/07/2022 (17:22:19) |
Per capire, che forza ha un protocollo nell'ordinamento giuridico. Grazie |
Rispondi Autore: Michele - likes: 0 | 06/07/2022 (20:35:42) |
Osservazioni.... Il protocollo 6 aprile 2021 è inserito in una ordinanza del Ministro della Salute, pubblicata poi sulle gazzetta ufficiale! Quello discusso il 30 giugno non è stato oggetto di apposita ordinanza da parte dello stesso ministero, che tra l'altro non lo menziona sul proprio sito! Del protocollo ne parla un un comunicato il ministro del lavoro che non pubblica però il testo. Il protocollo è operativo? Dove si può reperire il testo ufficiale approvato? |
Rispondi Autore: Mattia - likes: 0 | 07/07/2022 (15:39:27) |
Perché le mascherine a lavoro sì e in tutto il resto della vita no? Semplice, perché in azienda del contagio (in assenza di protocolli) ne risponde il DL, al di fuori dell'azienda la colpa non si può imputare a nessuno. Il vero obiettivo del protocollo è quella di non imputare colpe all'azienda, sarei curioso infatti di vedere quante aziende, tra quelle che hanno un protocollo, quelle che effettivamente lo applicano e lo rispettano. |
Autore: Alan Male | 09/07/2022 (13:49:01) |
Si ma se uno si prende il Covid qualcuno mi spiega come si fa a dimostrare che lo si e' preso a lavoro e non fuori lavoro? Attendo risposte da qualcuno vi ringrazio |
Rispondi Autore: Fausto Pane - likes: 0 | 11/07/2022 (10:37:42) |
Buongiorno. Come si dimostra che il COVID l'ho preso al lavoro e non in un'altra occasione? Mia moglie lavora in rianimazione. Per due anni ha lavato, pulito, cambiato e curato positivi, quasi la metà morti di COVID, e per due anni il COVID non è entrato in casa nostra. Finisce l'emergenza, basta mascherine e in famiglia ci becchiamo il COVID portato quasi certamente da una bimbetta di 8 anni, che è passata a trovarci. Risultato: io una settimana senza appuntamenti con i clienti, mia moglie a casa in infortunio, con contributo alle statistiche inerenti i contagi ospedalieri. Lei il COVID l'ha preso a casa di sicuro, dalla bimbetta (se l'è abbracciata, baciata, coccolata....) perché in ospedale non c'era nessun positivo in reparto, però figura che si è contagiata in ospedale, visto il mestiere che fa. Questo è il meccanismo. Certezze non ve ne sono, a riguardo dell'effettiva fonte di contagio, e mai ve ne saranno. Mascherine al lavoro? E' da due anni che si prendono decisioni ondivaghe, strabiche, irrazionali. Non vedo motivo per cambiare la strategia. La certezza è che, quando verrà la tua ora, non ci sarà mascherina che tenga, gel che ti aiuti e sanificazioni ed igienizzazioni che funzionino: ti prenderai il COVID, che tu lo voglia o no. E' solo questione di tempo! Perché accanirsi sui lavoratori per fargli indossare le mascherine, allora? Già, perché? Se qualcuno avesse un'idea.... Saluti Fausto Pane |