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Esperienze applicative di valutazione del rischio stress

Tiziano Menduto

Autore: Tiziano Menduto

Categoria: Dati e statistiche

27/01/2011

I risultati di diverse esperienze di valutazione del rischio stress negli operatori sanitari. I limiti dei metodi soggettivi, gli approcci di natura obiettiva, il modello OSFA, la possibilità di utilizzare insieme valutazioni oggettive e soggettive.

 
PuntoSicuro ha già presentato gli atti del convegno nazionale “ Rischio biologico, psicosociale e biomeccanico per i lavoratori della sanità - Attualità scientifiche e legislative” che si è tenuto dal 3 al 5 marzo 2010 e che sono stati pubblicati nel numero di luglio/settembre 2010 del Giornale Italiano di Medicina del Lavoro ed Ergonomia.
 
Un’intera sessione del convegno, la terza, è stata dedicata al “rischio psicosociale in sanità” e presenta interventi che possono essere utili per i nostri lettori in quanto affrontano le diverse metodologie di valutazione del rischio stress lavoro correlato.
 
È il caso dell’intervento “La valutazione del rischio stress negli operatori sanitari: inquadramento del problema ed esperienze applicative”, a cura di Piergiorgio Argentero, Alessandra Bruni, Elena Fiabane, Fabrizio Scafa e Stefano M. Candura.
 
Gli autori ricordano che il Decreto legislativo 81/2008 prevede l’obbligo di effettuare la valutazione del rischio stress, rischio a cui sono esposti i lavoratori operanti all’interno di tutte le organizzazioni lavorative, comprese le realtà socio-sanitarie.
In particolare nell’intervento vengono messe a confronto due diverse procedure di valutazione dello stress lavorativo all’interno di due strutture sanitarie:
- “la prima condotta attraverso l’utilizzo di metodi soggettivi basati sull’applicazione di questionari self report e di focus group;
- la seconda mediante un approccio oggettivo realizzato tramite l’applicazione del Metodo OSFA (Objective Stress Factors Analysis)”.
 
Infatti la valutazione dello stress occupazionale può essere affrontata facendo ricorso a due principali approcci metodologici: il primo di tipo soggettivo e il secondo di tipo oggettivo.
 

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L’approccio soggettivo si “propone sostanzialmente di indagare le percezioni dei lavoratori riguardo le caratteristiche e le condizioni del proprio lavoro. Si avvale dell’utilizzo di questionari, generalmente anonimi, che vengono somministrati all’intera popolazione presa in esame, o ad un campione significativo di soggetti”.
I questionari self-report “sono gli strumenti di valutazione del rischio stress più diffusi in ambito nazionale e internazionale grazie alla loro facile reperibilità, praticità d’uso e risparmio in termini di tempo e costi”. Tra i più utilizzati in Italia si possono citare “il Job Content Questionnaire, l’Effort-Reward Imbalance, il Q-Bo, l’Occupational Stress Indicator, il Questionario Multidimensionale sulla Salute Organizzativa, l’Organizational Checkup System e l’Organizational and Psychosocial Risk Assessment”.
Benché siano molto utilizzati, la letteratura scientifica evidenzia che i metodi soggettivi “comportano una serie di limiti che possono condizionare la corretta valutazione dei fattori di rischio lavorativo”:
- “la maggior parte dei questionari self-report nasce con finalità epidemiologiche, e non con l’obiettivo di fornire elementi di valutazione e miglioramento del contesto lavorativo”;
- i “questionari forniscono infatti una valutazione dello stress percepito – non dei fattori di rischio – e non rilevano precisamente se le cause dello stress siano di natura lavorativa o extra-lavorativa”;
- “la percezione individuale di stress può essere fortemente influenzata sia dalle caratteristiche di personalità”.
 
Per superare queste limitazioni “sono stati proposti approcci di natura obiettiva volti a esaminare le condizioni di lavoro connesse all’insorgenza dello stress”.
Alcuni autori hanno proposto metodi “osservativi” basati sulla “rilevazione, mediante griglie di osservazione, di alcuni aspetti lavorativi critici e del contesto entro cui il lavoro viene svolto”, ma questo metodo presenta difficoltà d’impiego dovute a vari fattori “tra cui, ad esempio, il fatto che in molte realtà lavorative potrebbe essere giudicato ‘inopportuno’ (se non espressamente vietato) condurre delle osservazioni sul luogo di lavoro, oppure potrebbe risultare complesso stabilire, in organizzazioni di una certa ampiezza, quali attività lavorative debbano essere osservate, in quali periodi e per quale durata”.
Un secondo approccio obiettivo proposto è basato “sull’analisi di alcuni indicatori statistici aziendali (ad esempio: numero di infortuni, livello di assenteismo, percentuale di turnover, numero di malattie professionali); tuttavia, anche questo metodo presenta dei limiti poiché i dati aziendali esaminati non costituiscono che generici indicatori della presenza di stressor organizzativi, in quanto risentono dell’influenza di numerosi elementi interni o esterni all’azienda stessa, indipendenti dall’effettiva presenza di un rischio stress”.
Infine un terzo approccio presente in letteratura “è quello che si basa sull’analisi del lavoro svolto con riferimento ai contenuti delle attività e al contesto entro cui vengono condotte”: una procedura di valutazione del rischio stress lavorativo basata su tale approccio è quella definita OSFA - Objective Stress Factors Analysis.
 
Nell’intervento vengono analizzate i due esempi di valutazione del rischio stress lavorativo in ambito sanitario, l’una secondo l’approccio soggettivo e l’altra in base all’analisi obiettiva delle condizioni di lavoro. La prima svolta con il contributo di 20 operatori del Dipartimento di Salute Mentale di una struttura sanitaria del Nord Italia e con i questionari Organizational Check-up System e Occupational Stress Indicator compilati dai partecipanti in forma anonima. La seconda valutazione fatta con il metodo OSFA in una struttura di tipo socio-assistenziale del Nord Italia in cui lavorano 150 operatori sanitari (operatori socio-assistenziali e fisioterapisti).
 
Rimandandovi al documento originale con l’analisi dettagliata delle due singole esperienze, veniamo alle conclusioni degli autori. 
Dal confronto tra i due diversi approcci “emerge chiaramente come l’applicazione del metodo obiettivo abbia consentito di individuare i fattori lavorativi critici presenti nel luogo di lavoro indipendentemente dalle percezioni soggettive dei lavoratori, concentrando l’analisi sulle condizioni e sul contesto della specifica attività lavorativa”.
In sintesi – continua l’intervento -  si può ritenere che l’approccio oggettivo abbia dato i seguenti vantaggi principali:
 
- “numero ridotto di soggetti coinvolti: la metodologia OSFA coinvolge solo alcune figure di riferimento, individuate in quanto esperte delle caratteristiche del lavoro e dell’organizzazione; - collegialità: il modello OSFA richiede che la valutazione sia operata da più soggetti, con diversi ruoli professionali, le cui valutazioni vengono poi confrontate in modo da ottenere un quadro coerente ed esaustivo;
- brevità del processo: se non emergono criticità, è possibile concludere il processo di valutazione in tempi brevi senza ricorrere ad approfondimenti soggettivi;
- qualità e completezza delle informazioni: il metodo, che prevede la conduzione di interviste da parte di personale qualificato, dà la possibilità agli intervistati di fare riferimento a elementi eventualmente non contemplati nell’intervista, ma strettamente relativi ai fattori oggettivi in corso di analisi, anche con riferimenti di natura qualitativa;
- accuratezza dei dati: ottenibile attraverso il raffronto tra dati provenienti da diverse fonti e la ‘triangolazione’ tra indicatori statistici ed elementi ottenuti dall’analisi del lavoro”.
 
Viene tuttavia rilevato, infine, come “risulti opportuno nel futuro estendere le sperimentazioni del metodo anche ad altri settori sanitari caratterizzati da una maggiore complessità. Realtà organizzative più ampie ed articolate potrebbero richiedere un adattamento degli item dell’intervista strutturata alle specifiche e diverse condizioni di lavoro presenti”.
 
Inoltre si sottolinea come “i due approcci valutativi esemplificati in questo lavoro non vadano intesi come alternativi l’uno all’altro, ma possano anzi essere considerati come due momenti di un unico processo di valutazione”, specialmente in alcune “organizzazioni lavorative particolarmente complesse per dimensioni e per tipologie di attività”.
Un processo di questo tipo potrebbe prevedere due fasi:
- “una prima fase, che identifichi attraverso un approccio di tipo oggettivo la presenza dei rischi lavorativi riconducibili a situazioni di stress e dannosi per la salute dei lavoratori”;
- “se da questa prima valutazione dovesse emergere una presenza significativa di fonti di stress, si potrebbe procedere a una seconda fase finalizzata a rilevare le percezioni dei lavoratori sugli stressor organizzativi e i loro effetti sul benessere soggettivo”.
   
 
 
La valutazione del rischio stress negli operatori sanitari: inquadramento del problema ed esperienze applicative”, a cura di Piergiorgio Argentero, Alessandra Bruni e Elena Fiabane (Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Pavia), Fabrizio Scafa e Stefano M. Candura (Scuola di Specializzazione in Medicina del Lavoro, Università degli Studi di Pavia - Unità Operativa di Medicina del Lavoro, Fondazione Salvatore Maugeri, Clinica del Lavoro e della Riabilitazione, IRCCS, Istituto Scientifico di Pavia), intervento al convegno nazionale “Rischio biologico, psicosociale e biomeccanico per i lavoratori della sanità - Attualità scientifiche e legislative” (formato PDF…), in Giornale Italiano di Medicina del Lavoro ed Ergonomia, Volume XXXII - N. 3 – luglio/settembre 2010.
 
 
 
Tiziano Menduto


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