SARS-CoV-2: datori di lavoro, modelli organizzativi e protocolli condivisi
Urbino, 11 Dic – L’emergenza COVID-19 ha posto in questi mesi diverse questioni interpretative anche in materia di applicazione della disciplina per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro di cui al decreto legislativo n. 81/2008. E sono stati molti gli articoli del nostro giornale che hanno approfondito il tema della responsabilità datoriale e del ruolo del Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro.
Torniamo a parlarne con riferimento alla conversione in legge del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23 che ha introdotto una sorta di “scudo” per la responsabilità dei datori di lavoro pubblici e privati. Datori di lavoro che adempiono all’obbligo di cui all’art. 2087 del Codice civile attraverso applicazione delle prescrizioni contenute nei protocolli condivisi.
Ad affrontare questo tema, con particolare riferimento al ruolo ricoperto dai protocolli condivisi, è un contributo pubblicato su “Diritto della sicurezza sul lavoro”, rivista dell'Osservatorio Olympus e pubblicazione semestrale dell' Università degli Studi di Urbino.
Tale contributo, dal titolo “L’art. 2087 c.c. e il valore del protocollo sindacato-azienda nella definizione del perimetro della responsabilità datoriale”, è a cura di Eugenio Erario Boccafurni, avvocato e dottorando di ricerca in Diritto del lavoro – Università di Roma La Sapienza.
Questi gli argomenti su cui si sofferma l’articolo nella presentazione del contributo:
- La normativa sulla responsabilità datoriale per il rischio di contagio
- L’adozione di un modello organizzativo aziendale di sicurezza anti-contagio
La normativa sulla responsabilità datoriale per il rischio di contagio
Il contributo prima di interrogarsi sul valore da riconoscere al protocollo condiviso, prende le mosse dall’esame dalle novità in materia di responsabilità del datore di lavoro introdotte dalla legge 5 giugno 2020, n. 40 di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23 (cosiddetto d.l. Liquidità), recante misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonchè interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali.
La legge ha introdotto una sorta di “scudo”, come definito da molti, che è stato emanato “nonostante i diversi interventi dell’Inail volti a ‘rassicurare’ le imprese sul tema in vista della riapertura generale post lockdown”.
L’Inail si è spinta anche ad affermare (Comunicato Inail, del 15 maggio 2020) “che la responsabilità datoriale sia ipotizzabile ‘solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche’ che nel caso di specie ‘non possono che rinvenirsi nei protocolli e nelle linee guida governative e regionali’” di cui alla normativa emergenziale.
Tuttavia malgrado gli atti amministrativi il legislatore ha voluto “comunque intervenire giacché, come ci ricorda l’univoca giurisprudenza sul punto, le circolari, le note e i pareri delle pubbliche amministrazioni, ancorché autorevoli e ben argomentate, non sono fonti del diritto e quindi non vincolano né il giudice né il cittadino”.
E, in questo senso, “la positivizzazione di uno ‘scudo’ per le imprese si è resa necessaria in ragione della natura dell’art. 2087 c.c. quale norma ‘elastica’ e a schema aperto e, dunque, per il concreto rischio che anche il rispetto pedissequo dei protocolli condivisi (nazionali o regionali), non avrebbe, comunque, posto al riparo da addebiti di responsabilità il datore di lavoro al di là delle rassicurazioni dell’autorevole Istituto”. Senza questo “scudo” l’interpretazione dell’ art. 2087 c.c”. sarebbe stata rimessa alla sensibilità dei singoli Giudici, con la conseguenza che, alcuni di essi, avrebbero potuto ritenere sufficiente l’adozione dei protocolli (aderendo all’interpretazione tracciata dall’Inail) mentre, altri, avrebbero potuto richiedere l’adozione di ulteriori misure ‘innominate’ rispetto a quelle ivi indicate in ragione proprio della vis espansiva della norma codicistica di riferimento”.
Dunque l’ art. 29-bis, aggiunto in sede di conversione del d.l. Liquidità, indica che ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i ‘datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste’. E “nei casi in cui non trovino applicazione le suddette misure, occorrerà far riferimento a quanto statuito nei ‘protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale’”.
Dunque, come ricordato nei nostri articoli, la norma statuisce che “il rispetto delle misure elencate nel protocollo, ad oggi, rappresenta la concretizzazione e la specificazione del generale obbligo di diligenza e della massima sicurezza tecnologicamente possibile”.
Se l’adozione di un protocollo sindacato-azienda diviene, dunque, “fondamentale nella definizione del perimetro della responsabilità datoriale”, l’autore ricorda che il modello costruito nell’articolo oggetto di trattazione “non è del tutto sconosciuto agli operatori del diritto, segno che regole eccezionali come queste possono poi rifugiarsi nei vecchi e consolidati schemi”. E il riferimento “è ovviamente al modello di organizzazione e gestione (c.d. ‘MOG’), ex art. 30 del d.lgs. n. 81/2008, che, se ‘efficacemente attuato’, costituisce efficacia ‘esimente della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231’”.
L’adozione di un modello organizzativo aziendale di sicurezza anti-contagio
Riguardo all’adozione del protocollo condiviso e dell’appena citato modello organizzativo aziendale l’autore sottolinea che non c’è un rischio di “policentrismo normativo”: “come noto, i modelli organizzativi aziendali si aggiungono e non sostituiscono i protocolli condivisi nazionali o le linee guide regionali”.
D’altronde il tema della salute e sicurezza dei lavoratori “è un qualcosa che è connaturale al campo delle relazioni industriali, giacché queste non esauriscono il campo d’azione della propria ricerca scientifica soltanto nei temi della contrattazione collettiva e dei diritti sindacali”.
Si indica poi che la tenuta del cosiddetto “scudo”, sopra descritto, “inevitabilmente viene meno innanzi ad un recepimento solo formale delle prescrizioni prevenzionistiche”.
Si è di fronte ad una “sorta di ‘welfarizzazione del rischio’ da Covid-19 giacché, come afferma la risalente giurisprudenza, l’art. 2087 c.c. impone ‘all’imprenditore una serie di misure che si risolvono in una prestazione, che egli stesso è tenuto ad adempiere e che il lavoratore ha diritto di pretendere’.
In questo senso “la condivisione alla base del protocollo sindacato-azienda rappresenta certamente un valore positivo per entrambe le parti del rapporto di lavoro, giacché tramite l’opportuna valorizzazione dei Comitati per l’applicazione e la verifica delle regole (di cui all’art. 13 del protocollo condiviso del 24 aprile 2020) si permette ai lavoratori”, più correttamente ai loro rappresentanti, “di esprimere le proprie valutazioni circa l’efficacia operativa delle misure”.
E dunque proprio “in riferimento alla possibile adozione di un modello organizzativo aziendale di sicurezza anti-contagio, sulla base di quanto esplicitato dal protocollo condiviso del 24 aprile, è stabilito che si realizzi un ‘confronto preventivo’ con le diverse rappresentanze sindacali ‘affinché ogni misura adottata possa essere condivisa e resa più efficace dal contributo di esperienza delle persone che lavorano, in particolare degli RLS e degli RLST’”.
Dunque alla luce del confronto “preventivo” – continua l’autore – “l’eventuale accordo raggiunto sulle regole e sulle procedure da adottare risulta essere ‘a valle’ di un necessario dialogo, realizzato tra i soggetti chiamati a vario titolo coinvolti nel Comitato, tra i quali i componenti delle rappresentanze sindacali. Ne consegue che, il modello organizzativo che ne scaturisce, viene ‘contrattato’, tra datore di lavoro, R.L.S., medico competente e R.S.P.P”.
Un modello che “sarà dinamico e completo di una fase di individuazione delle misure, di aggiornamento delle stesse e di controllo della loro osservanza”.
Infine il contributo ricorda che, per il rischio da contagio da COVID-19, l’Inail “classifica il rischio di contagio – in relazione alle diverse tipologie di attività – in quattro classi: basso, medio-basso, medio-alto ed alto”. E quest’ultimo atto “diventa fondamentale anche per l’adozione di un efficace modello aziendale, giacché le misure che dovranno essere adottate dai soggetti responsabili terranno necessariamente conto del rischio insito alla lavorazione specifica”.
L’autore conclude che “a fronte di una normativa che sicuramente aiuta il datore sotto il profilo della responsabilità, sarebbe auspicabile, comunque, che gli stessi si dotino di un adeguato sistema di compliance aziendale, attraverso il coinvolgimento e la valorizzazione di tutte le figure interne ed esterne che possano fornire un apporto utile al sistema di prevenzione”.
Tiziano Menduto
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