Sul reato di epidemia dolosa o colposa: due casi esemplari
Il tema connesso al reato di epidemia è sicuramente un tema molto delicato e strettamente legato, in questi mesi, alle inchieste che si stanno conducendo in merito alla mancata istituzione della zona rossa in alcune aree a maggior rischio e alla mancata attuazione e aggiornamento del piano pandemico. Per cercare di affrontare questo argomento, invero complesso, ospitiamo un contributo dell’avvocato Rolando Dubini dal titolo “Il reato di epidemia, dolosa o colposa, come reato commissivo a firma vincolata: due casi esemplari”.
Il reato di epidemia, dolosa o colposa, come reato commissivo a firma vincolata: due casi esemplari
1. Il reato di epidemia
Il reato di epidemia è disciplinato dall’articolo 438 del Codice Penale, ai sensi del quale:
[I]. Chiunque cagiona un'epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l'ergastolo [448, 452].
Il reato è previsto anche in forma colposa dall’articolo 452 del Codice Penale che richiama espressamente l’art. 438 c.p. laddove, per l’appunto, dispone:
[I]. Chiunque commette, per colpa [43], alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 438 e 439 è punito:
2) con la reclusione da uno a cinque anni, nei casi per i quali esse stabiliscono l'ergastolo.
La fattispecie di reato in oggetto punisce il comportamento, doloso o colposo, di chi - attraverso la diffusione di germi patogeni - causa una epidemia.
La finalità della norma è trasparente: evitare che soggetti, contagiati da malattie infettive, possano, col proprio comportamento – appunto doloso (art. 438 c.p.) o colposo (452 c.p.) - contagiare altri.
Il bene protetto è, in ogni caso, la salute pubblica, e titolare di esso è esclusivamente lo Stato; si è pertanto, escluso “che possa rivestire la qualità di persona offesa di tali reati un'associazione privata” (tra tante, Cassazione penale, sez. I, 26/10/2012, n. 4878).
L’esistenza del reato postula la prova del c.d. rapporto di causalità. E la prova che il fenomeno epidemico che ha recentemente colpito il pianeta e l’Italia è stato determinato dalla condotta dell’agente risulta assai difficile da provare. Il virus, difatti, si diffonde per via aerea e tale forma di trasmissione rende per lo più impossibile l’accertamento del nesso eziologico.
2. Il reato di epidemia, doloso o colposo, richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con l’omissione di cui all’art. 40 comma 2 del codice penale
La Corte di Cassazione esclude la configurabilità del reato di epidemia, a titolo di omissione, stante la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni” di cui all’art. 438 c.p. richiedendosi “una condotta commissiva a forma vincolata” incompatibile, perciò, con il disposto di cui all’art. 40, comma 2 c.p., a sua volta, applicabile, unicamente, alle fattispecie di reato a forma libera (in tal senso Cass. sez. penale IV 12.12.2017 n. 9133, dep. 28.02.2018; Cass. Pen., sez. I, del 23/09/2013, n. 43273; Cass. Pen., sez. VI, del 08/04/2016, n. 28301).
La Corte di Cassazione, ha affermato che il reato di epidemia è inquadrabile nei delitti commissivi a forma vincolata e quindi presuppongono che la condotta venga posta in essere con specifiche modalità. Con specifico riferimento al delitto di cui all’art. 438 c.p., il fatto tipico consiste nella diffusione di germi patogeni, la condotta, pertanto, dovrà configurarsi in modo attivo e seguire una specifica modalità di realizzazione.
Le vicende giudiziarie legate alla diffusione del Covid19, parrebbero, al contrario, evocare ipotesi di reato omissivo a carico del personale sanitario per non aver impedito la diffusione del virus all’interno delle strutture. Ma nello specifico la Cassazione ha respinto tale evocazione in modo netto.
Occorre ricordare che il Decreto Legge n. 44/2021 (legge di conversione 28 maggio 2021 n. 76) ha introdotto all’art. 3 bis lo “scudo penale” per le ipotesi di reato di omicidio colposo o lesioni personali colpose se commessi con colpa lieve e nell’esercizio di una professione sanitaria che trovano causa nella situazione di emergenza. Non solo, l’art. 3 del medesimo decreto prevede che la punibilità è esclusa per i reati di agli artt. 589 e 590 c.p. (omicidio colposo e lesioni personali colpose) quando “l’uso del vaccino è conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e alle circolari pubblicate nel sito internet istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione”.
Peraltro dalla lettura letterale della norma, sembrerebbe, il reato di epidemia non è contemplato nel c.d. “scudo penale”.
E tuttavia nonostante la mancata previsione dell’esclusione della punibilità per tale delitto, in dottrina e pure una significativa pronuncia della Corte di Cassazione (Cass. Pen. Sez. IV, 24 maggio 2021 n. 20416) si sono espressi nel senso di far rientrare nello scudo penale anche l'epidemia colposa.
Il legale rappresentante della Società cooperativa sociale che gestisce la casa di riposo "Don Bosco" di Caltagirone, è stato imputato del reato di epidemia per il “focolaio” di Covid-19 sviluppatosi in una struttura per anziani durante la “prima ondata” dell’emergenza pandemica (Cass. Pen. Sez. IV, 24 maggio 2021 n. 20416).
La struttura è stata oggetto di accertamenti da parte dei Carabinieri compendiati nelle note del 4, del 5, del 7 e dell'11 maggio 2020, che hanno segnalato, tra l'altro, la omessa doverosa integrazione del documento di valutazione dei rischi con le procedure previste dal D.P.C.M. 24 aprile 2020 e l'omesso aggiornamento dello stesso.
Il Tribunale per il riesame di Catania, adito ai sensi dell'art. 324 cod. proc. pen., il 18 giugno - 30 luglio 2020 ha annullato il decreto di sequestro preventivo (e di convalida del sequestro di urgenza adottato dal P.M. il 12 maggio 2020) della casa di riposo ""Don Bosco" di Caltagirone, emesso il 14-15 maggio 2020 dal G.i.p. del Tribunale di Caltagirone nei confronti di G.L., indagato per epidemia colposa (artt. 438-452 cod. pen.) e per violazioni in materia di salute e di sicurezza del lavoro (artt. 65, 68 e 271 del d. lgs. 9 aprile 2008, n. 81), fatti ipotizzati come commessi tra il 22 aprile ed il 5 maggio 2020.
Contro la decisione del Tribunale del riesame ricorre per la cassazione dell'ordinanza il Procuratore della Repubblica del Tribunale di Caltagirone, e con il primo motivo lamenta violazione degli artt. 438 e 452 cod. pen.
Rammenta, testualmente, che il Tribunale ha ritenuto che il reato di epidemia colposa postuli necessariamente una condotta commissiva a forma vincolata, di per sé incompatibile con la responsabilità a titolo di omissione e, quindi, con il disposto dell'art 40, comma 2, cod. pen., che si riferisce solo ai reati a forma libera. Secondo il P.M., invece, l'inciso "mediante la diffusione di germi patogeni" di cui all'art. 438 cod. pen. non rappresenta una peculiare modalità di realizzazione della condotta ma specifica il tipo di evento che la norma penale punisce in caso di verificazione: la fattispecie di cui agli artt. 438-452 cod. pen., per ragioni sia testuali che sistematiche, non esige una condotta commissiva a forma vincolata e, di per sé, non è incompatibile con una responsabilità di tipo omissivo. In tal senso - sottolinea il ricorrente - si è pronunziata la Corte di cassazione nella motivazione della sentenza di Sez. 1, n. 48014 del 30/10/2019, P., Rv. 277791-01.
Prosegue così il ricorso: «Orbene, il COVID-19 è una malattia infettiva ad alto tasso di contagiosità (tanto da essere stata dichiarata "pandemia"), che, diffondendosi con elevata rapidità per via aerea e/o tramite contatto con superfici contaminate, desta un notevole allarme sociale e correlativo pericolo per un numero indeterminato di persone, propria a casa della sua capacità di propagazione. Pertanto, alla luce delle superiori considerazioni, anche la mancata integrazione e/o l'omesso aggiornamento del Documento di Valutazione dei Rischi rispetto al rischio biologico in generale, e a quello da COVID-19 in particolare, costituiscono condotte che integrano gli estremi della fattispecie incriminatrice di cui agli artt. 438 e 452 c.p., a fronte della loro efficienza causale a cagionare un'epidemia a titolo colposo, come del resto si è verificato nel caso di specie, ove numerosi anziani (oggi deceduti) e lavoratori dipendenti sono risultati positivi al virus» (così alla pp. 3-4).
Nel merito, la Suprema Corte ha ritenuto il ricorso è infondato, quanto al primo (e principale) motivo, con il quale il ricorrente contesta l'affermazione dei giudici di merito secondo cui il reato contestato "evoca necessariamente una condotta commissiva a forma vincolata di per sé incompatibile con una responsabilità a titolo di omissione e, quindi, con il disposto dell'art. 40, comma secondo, c.p., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera" (pp. 3-4 dell'ordinanza impugnata).
La Cassazione osserva: “L'ordinanza del Tribunale richiama espressamente il recente precedente di legittimità secondo il quale «In tema di delitto di epidemia colposa, non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione in quanto l'art. 438 cod. pen., con la locuzione "mediante la diffusione di germi patogeni", richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell'art. 40, comma secondo, cod. pen., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera» (Sez. 4, n. 9133 del 12/12/2017, dep. 2018, Giacomelli, v. specc. punti nn. 2., 2.1., 2.2. e 2.3., pp. 13-14, del "ritenuto in diritto"). Non conferente, invece, poiché relativo a fatto del tutto diverso, il precedente di Sez. 1, n. 48014 del 30/10/2019, P., Rv. 277791, richiamato sia nel ricorso che nella memoria difensiva. In ogni caso, l'ordinanza giustifica la decisione di annullamento con una "doppia motivazione" con la quale il ricorrente non si confronta.
Infatti, dopo avere affermato la inconfigurabilità in diritto (pp. 3-4), il Tribunale afferma che, «In ogni caso, ritiene il Collegio che, anche a voler aderire all'orientamento minoritario della dottrina e della giurisprudenza che qualificano il reato di epidemia colposa nella categoria dei c.d. "reati a mezzo vincolato" e come tali compatibili di essere convertiti, mediante la clausola di equivalenza di cui all'art. 40, secondo comma, c.p., in illeciti omissivi impropri, nel decreto di sequestro preventivo disposto in via d'urgenza il 12.05.2020 dal p.m. ex art. 321, comma 3 bis, c.p.p. e nel successivo decreto di sequestro preventivo disposto dal Gip di Caltagirone, ex art. 321 c.p.p., il 14.05.2020, non vengono dedotti né illustrati gli elementi e le ragioni logico-giuridiche in base ai quali la condotta omissiva ascritta all'indagato sia causalmente collegabile alla successiva diffusione del virus da Covid-19 tra i pazienti ed il personale dalla casa di riposo diretta dal ricorrente [...] Il Tribunale ritiene che, in applicazione delle teoria condizionalistica orientata secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, in assenza di qualsivoglia accertamento circa l'eventuale connessione tra l'omissione contestata al ricorrente e la seguente diffusione del virus non sia possibile ravvisare, nel caso de quo, la sussistenza del nesso di causalità tra detta omissione e la diffusione del virus all'interno della casa di riposo. Ed invero, alla stregua del giudizio controfattuale, ipotizzando come realizzata la condotta doverosa ed omessa dall'indagato, non è possibile desumere "con alto grado di credibilità logica o credibilità razionale" che la diffusione/contrazione del virus Covid-19 nei pazienti e nei dipendenti della casa di riposo sarebbe venuta meno. Non è da escludere, infatti, che qualora l'indagato avesse integrato il documento di valutazione dei rischi e valutato il rischio biologico, ex art. 27 D. lgs. 81/2008, la propagazione del virus sarebbe comunque avvenuta per fattori causali alternativi (come ad esempio per la mancata osservanza delle prescrizioni impartite nel DPCM per le case di riposo quali di indossare le mascherine protettive, del distanziamento o dell'isolamento dei pazienti già affetti da covid, ovvero a causa del ritardo negli esiti del tampone). Quanto accertato, dunque, non è sufficiente a far ritenere, in termini di qualificata probabilità richiesta in questa sede, la ricorrenza del fumus della fattispecie di epidemia colposa» (così alle pp. 4-5 del provvedimento impugnato). Si tratta, con ogni evidenza, di motivazione esistente, non incongrua e non illogica, di per sé non sindacabile in sede di legittimità”.
Va anche ricordata l’informativa diramata dalla Procura Generale presso la Cassazione alle Procure della Repubblica sul territorio nazionale, che ha evidenziato la necessità da parte dell’Accusa di dover considerare le “conoscenze scientifiche progressivamente acquisite, in particolare relative alla malattia e alle possibilità organizzative e terapeutiche” al fine di capire se all’epoca poteva essere considerato come esigibile un comportamento organizzativo e terapeutico diverso, oltre a dover valutare il profilo temporale “essendo evidente che nella gestione dei primi casi i sanitari disponevano di un livello di conoscenza inferiore a quello acquisito successivamente”.
Questo monito deve restare al centro dell’attenzione.
3. Epidemia colposa e l’accusa della procura di Bergamo per la mancata zona rossa ad Alzano Lombardo
Sempre nell’ambito del reato di omissione sembra inquadrarsi anche l'accusa del Pm di Bergamo, che, concettualmente, sembra ricalcare quella della procura di Caltagirone (mutatis mutandis): “Nonostante l'impennata dei contagi tra la fine di febbraio e i primi giorni di marzo 2020 e lo scenario catastrofico acclarato, non fu istituita alcuna zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro”.
Gli avvisi di conclusione indagini contemplano le ipotesi di reato di epidemia colposa aggravata, omicidio colposo plurimo, rifiuto di atti di ufficio e falso in relazione allo scoppio della pandemia di Covid che, tra febbraio e aprile 2020, provocò a Bergamo e provincia oltre 6mila morti in più rispetto alla media dell'anno precedente.
E non fu applicato il piano influenzale pandemico, pur risalente al 2006: mancanza che ha comportato una catena di ritardi e omissioni che avrebbero poi determinato la “diffusione incontrollata” del virus.
Inquirenti e investigatori della Guardia di Finanza hanno concentrato la loro attenzione non solo sui morti nelle Rsa della Val Seriana e sul caso dell'ospedale di Alzano Lombardo chiuso e riaperto nel giro di poche ore, ma in particolare la mancata istituzione di una zona rossa uguale a quella disposta nel Lodigiano e i mancati aggiornamenti del piano pandemico, fermo al 2006, e comunque l’omessa applicazione di quello esistente anche se datato, che, in ogni caso, secondo gli elementi raccolti, avrebbe potuto limitare la diffusione dell’epidemia da Covid-19.
Le indagini sulla gestione del Covid nei primi mesi della pandemia a Bergamo, la provincia più colpita, si sono chiuse dopo tre anni con l’avviso di chiusura delle indagini a carico di 19 indagati, 19, e tra questi l'ex premier Giuseppe Conte, l'ex ministro della salute Roberto Speranza (per entrambi è competente il Tribunale dei ministri con sede a Brescia), il presidente della Lombardia Attilio Fontana; l'ex assessore del Welfare lombardo, ed ex consigliere regionale, Giulio Gallera; e vari esponenti di rilievo del mondo della sanità italiana, come Claudio D'Amaro ex dg della prevenzione del ministero; Agostino Miozzo coordinatore del Comitato tecnico scientifico; Silvio Brusaferro, direttore dell'Istituto superiore di sanità; e Angelo Borrelli, ex capo della Protezione civile.
Inchiesta che ha visto protagonisti i magistrati di Bergamo, il procuratore aggiunto di Bergamo Cristina Rota con i pm Silvia Marchina e Paolo Mandurino, sotto la supervisione del Procuratore capo Antonio Chiappani.
Riguardo alle omissioni, centro dell’impianto accusatorio, il consulente della Procura Andrea Crisanti nella sua perizia, applicando un modello matematico, se fosse stata istituita la zona rossa in Val Seriana, al 27 febbraio 2020 i morti sarebbero stati 4.148 in meno e al 3 marzo 2020 sarebbero stati 2.659 in meno.
Anche per quanto attiene l’omicidio plurimo colposo si può fare utile riferimento allo scudo penale di cui al D.L. n. 44/2021 art. 3 bis, e per l’omissione di atti d’ufficio valgono gli stessi principi enunciati relativamente all’onere di prova rigorosa del nesso di causalità tra condotta omissiva ed evento dannoso.
3.1 La mancata zona rossa e la mancata attuazione/aggiornamento del piano pandemico
Secondo l’ipotesi accusatoria scritta nell’avviso di chiusura indagini ex art. 415 bis c.p.p., se fosse stata dichiarata prima la zona rossa, si sarebbe potuta evitare la morte di migliaia di persone. Come anzidetto, sono indagati oltre al presidente della Lombardia Attilio Fontana, anche l'ex premier Giuseppe Conte e l'ex ministro della salute Roberto Speranza. Le posizioni degli ultimi due sono però tra di loro differenti. Conte è accusato di non aver istituito la zona rossa nel comuni di Nembro e Alzano Lombardo nonostante "l'ulteriore incremento del contagio" e "l'accertamento delle condizioni che corrispondevano allo scenario più catastrofico".
Tale contestazione non riguarda Speranza, che risponde solo per la mancata attuazione del piano pandemico, perché ai tempi aveva firmato una bozza di decreto con cui proponeva di estendere la misura urgente di "contenimento del contagio", già adottata nel Lodigiano, ai due comuni della Bergamasca.
Tale bozza invece non venne sottoscritta da Conte. Il quale, quando nel giugno 2020 venne sentito a Roma dai pm di piazza Dante come persona informata sui fatti, aveva spiegato di aver agito “in scienza e coscienza” assumendosi la responsabilità di una scelta politica che arrivò dopo un confronto all’interno del governo e tra l’esecutivo e gli esperti. Una scelta. disse, che fu condivisa con la Regione Lombardia che, come previsto dalla legge, avrebbe potuto agire anche autonomamente.
Per questo ora è indagato pure il governatore Attilio Fontana. Anche lui, in base alla ricostruzione fatta dagli inquirenti, con due mail del 27 e 28 febbraio 2020, inviate a Palazzo Chigi, aveva chiesto di mantenere misure più blande (da zona gialla) nonostante “avesse piena consapevolezza” della situazione e senza segnalare “alcuna criticità” nonostante l’indice di trasmissione avesse raggiunto la soglia del 2.
Più in dettaglio, negli atti di chiusura dell’inchiesta viene anche sottolineato che Fontana e l’ex assessore lombardo al Welfare Giulio Gallera «erano a conoscenza che il 27 febbraio 2020 l’R0 in Lombardia era pari a 2, ossia fuori controllo» e dal giorno successivo «entrambi erano a conoscenza delle previsioni di Merler». Documenti in cui si riferisce che «Regione Lombardia non ha mai formalmente sollecitato alcun provvedimento contingibile per i territori di Alzano e Nembro o per altre aree regionali».
Dunque il non aver voluto questa seconda zona rossa in Lombardia, per i pm, “ha comportato la diffusione dell’epidemia” con un “incremento stimato non inferiore al contagio di 4.148 persone” morte. Dunque secondo i pm, se fosse stata dichiarata prima la zona rossa, si sarebbe potuta evitare la morte di migliaia di persone.
L’inchiesta della procura di Bergamo vede tra gli indagati Silvio Brusaferro, presidente dell’Iss. «Nonostante il presidente dell'Iss sia a conoscenza delle conseguenze devastanti del Covid-19 in Cina - si legge negli atti - e nonostante a fine gennaio vi fosse stata la conferma che il virus era ormai giunto in Italia, è emerso che non sono state adottate iniziative dirette a preparare il Sistema sanitario nazionale a prepararsi e a rispondere all'emergenza». Inoltre, sul fronte dei tamponi, «dall'analisi delle copie forensi sono emersi elementi che, se confermati da successive indagini, evidenziano la commissione di una truffa ai danni dello Stato». In un documento allegato agli atti si attesta che per i «primi 200 test da parte dell'Istituto superiore di sanità emerge che gli oneri per il predetto numero di test (200) sono pari a 150.000 euro», così come «si chiedono risorse utili per l'effettuazione di almeno 800 test, pari a 600.000 euro lordi». Ciò significa - si legge ancora - «che il costo sostenuto e da sostenere per ogni test effettuato presso il laboratorio dell'Iss è pari a 750 euro». Sul punto sono state richieste informazioni all’azienda ospedale - Università di Padova, la quale ha comunicato che nel febbraio-marzo 2020 veniva prevalentemente usato un tipo di test, con un «costo industriale unitario pari, allora, a 2,82 euro». La vicenda, di competenza della procura di Roma, «necessita ovviamente di ulteriori indagini».
C’è un capitolo dedicato alle “Carenze nella gestione dell'emergenza da parte del Ministero della salute” tra le quasi 2.500 pagine della chiusura inchiesta sulla prima fase della diffusione del Covid. In particolare, si elencano «i ritardi, le inadeguatezze, le inefficienze e le carenze ministeriali» e tra i vari punti sull’«insufficienza delle misure preventive adottate» si evidenzia come «la direzione Prevenzione del ministero della Salute non disponeva di personale in grado di tradurre correttamente dall'inglese all'italiano, atteso che i documenti da tradurre venivano inviati alla società Networld srl, con sede in Cagliari». Questa circostanza, si legge, «potrebbe spiegare perché alcuni provvedimenti ministeriali sono stati adottati diversi giorni dopo la pubblicazione da parte di Oms (ci si riferisce, tra gli altri, all'alert del 5 gennaio 2020, diramato dal ministero il 9 gennaio 2020, alla definizione di caso di Oms del 15 gennaio 2020 diramata il 22 gennaio 2020 e alla definizione di caso di Oms del 21 gennaio 2020, diramata dal ministero il 27 gennaio 2020)». Non solo: «il ministero della Salute non disponeva di un ufficio per le emergenze attivo h24 e questo concorre a spiegare i ritardi nell'inoltro alle Regioni delle raccomandazioni di Oms» e anche «per il servizio pubblico 1500 (numero verde, ndr), che ha il compito fondamentale di informazione verso i cittadini, il ministero ha dimostrato, quantomeno, carenze organizzative e gestionali». Dalla documentazione esaminata è pure emerso che «solo dal 4 marzo 2020» il ministero ha approntato una prima stima dei costi delle apparecchiature di ventilazione assistita per le terapie intensive e gli altri posti letto, quando «solo in Lombardia vi erano già 1.820 casi, 73 deceduti e 209 persone in terapia intensiva».
Va poi ricordato che tra il 27 e il 3 marzo 2020 i contagiati e soprattutto i decessi in Val Seriana (in particolare nei comuni di Nembro e Alzano) - stavano aumentando in modo esponenziale esponenzialmente, più che in altre province. Il 4 marzo si registra il seguente bollettino: 423 contagiati (il doppio rispetto al giorno prima), su 1.820 in tutta la Lombardia, con 73 decessi.
L’Unità di crisi lombarda invia i dati all’Iss, con richiesta di intervento. L’Istituto superiore della sanità conferma il 5 marzo 2020 il problema e chiede di chiudere la Val Seriana. Vengono preparati i militari, che arrivano per richiesta del ministero degli Interni ai confini dei due comuni. Il 6 marzo 2020 intanto si registrano 135 decessi, su 309, totali in Italia. Ma il comitato tecnico scientifico avvisa il premier Giuseppe Conte che la situazione sta degenerando in tutta la Lombardia. Così il 7 marzo arriva il noto Dpcm sulla zona arancione in regione e i militari tornano indietro. Poi, l’11 marzo tutta Italia diventa zona rossa, per evitare le fughe di persone, già visibili proprio tra il 6 e il 7 marzo. Quell’anno nella bergamasca la mortalità è salita del 600% rispetto agli anni precedenti.
Nell’avviso di chiusura indagini ci si sofferma anche sul piano pandemico dell’Oms, che secondo la procura “non era stato aggiornato”.
In discussione è a chi competesse l’aggiornamento e in che modo. Il direttore vicario dell’Oms in Italia Ranieri Guerra non aveva provveduto ad aggiornarlo, ritenendo non necessario farlo, in quanto negli ultimi anni non si erano registrati gravi episodi epidemiologici (nonostante l’Oms aveva chiesto di aggiornarlo). L’ex funzionario dell’Oms Francesco Zambon aveva anche dichiarato di aver subito pressioni via mail da Guerra, per postdatare un piano vecchio, per farlo sembrare aggiornato al 2016.
Le accuse contestate a vario titolo, sono epidemia colposa aggravata, omicidio colposo, rifiuto d'atti d'ufficio e falsi. C'è stata “un'insufficiente valutazione di rischio”, ha spiegato il procuratore Antonio Chiappani, aggiungendo che “di fronte a migliaia di morti e alle consulenze che ci dicono che potrebbero essere eventualmente evitati, non potevamo chiudere con un archivio”.
Avv. Rolando Dubini, Foro di Milano, Cassazionista
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