COVID-19: il ruolo dei protocolli condivisi nella valutazione della colpa
Urbino, 10 Set – La pandemia relativa al nuovo coronavirus è destinata a “riproporre tematiche in parte già note che riguardano il rapporto tra diritto e scienza ed il governo dei rischi sul lavoro in contesti di incertezza scientifica”.
Nell’attuale emergenza COVID-19 a partire dal 4 maggio 2020 si è potuto assistere ad una graduale ripresa delle attività produttive nel “rispetto di regole di profilassi che permetteranno alle autorità di tenere sotto controllo la curva epidemiologica”, regole incorporate in “protocolli” regionali, interregionali e nazionali”.
E l’art. 1, comma 15, del d.l. n. 33/2020 stabilisce che “il mancato rispetto dei contenuti dei protocolli o delle linee guida, regionali, o, in assenza, nazionali … che non assicuri adeguati livelli di protezione determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza”. È tuttavia importante “comprendere quale ruolo i protocolli possono rivestire in sede di valutazione della ‘colpa’ del datore di lavoro, la quale, tradizionalmente, consiste nella distanza tra il comportamento concretamente adottato e quello prescritto da una regola cautelare scritta (c.d. colpa specifica) o non scritta (cd. colpa generica) che consente di prevedere e prevenire ragioni di danno per il lavoratore (artt. 2087 c.c. e 43 c.p.)”.
A presentare in questi termini la questione della valutazione della eventuale “colpa” del datore di lavoro è un saggio pubblicato su “Diritto della sicurezza sul lavoro”, rivista dell'Osservatorio Olympus e pubblicazione semestrale dell' Università degli Studi di Urbino.
Il saggio, dal titolo “La colpa del datore di lavoro nello scenario del Covid-19” e a cura di Sabato Rozza (Dottorando di ricerca in Diritto del lavoro – Università di Roma “La Sapienza”), ricorda che la colpa va ravvisata nella “distanza tra il comportamento concretamente adottato e quello prescritto dalle regole cautelari suggerite nei protocolli regionali, interregionali e nazionali di cui all’art. 29 bis del d.l. n. 23/2020”. Tuttavia – come indicato nell’abstract del contributo - il “carattere elastico ed aperto delle cautele suggerite dai protocolli non esclude la responsabilità del datore di lavoro anche per violazione di regole non scritte di diligenza, prudenza e perizia”.
In questo articolo di presentazione del saggio ci soffermiamo brevemente sui seguenti argomenti:
- Art. 2087, incertezza scientifica e principio di precauzione
- Infortunio, colpa specifica e colpa generica del datore di lavoro
- Livelli di sicurezza, protocolli condivisi e valutazione del rischio
Art. 2087, incertezza scientifica e principio di precauzione
Nel contributo l’autore ricorda che in passato la giurisprudenza, chiamata a pronunciarsi sulla colpa del datore di lavoro in contesti di incertezza scientifica “ha fatto un governo molto ampio dell’art. 2087 c.c., che, come è noto, fonda l’obbligo di garanzia del titolare dell’impresa nei confronti dei lavoratori, ed è giunta ad affermare che ‘nel giudizio di prevedibilità, richiesto per la configurazione della colpa, va considerata anche la sola possibilità per il soggetto di rappresentarsi una categoria di danni sia pure indistinta potenzialmente derivante dal suo agire, tale che avrebbe dovuto convincerlo ad astenersi’” (Cass. pen., sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675). Dunque si andava a “ravvisare la colpa del datore di lavoro non già nella distanza tra il suo comportamento e quello prescritto da una regola ‘modale’ di condotta, ma nella mancata applicazione di regole pre-cautelari di totale astensione dall’attività rischiosa”.
Invece i protocolli condivisi – continua l’autore – “autorizzando l’attività in condizioni di incertezza scientifica, seguono le indicazioni espresse dalla migliore dottrina, la quale contestava il governo dell’ art. 2087 c.c. proposto dalla giurisprudenza e rimproverava ai giudici di aver introdotto nella valutazione della colpa del datore di lavoro un criterio di responsabilità non legato all’attività di prevenzione dei rischi, della quale il sistema incarica l’imprenditore ai sensi degli artt. 27, comma 1 Cost., 2087 c.c. nonché del d.lgs. n. 81 del 2008, ma d’impronta spiccatamente precauzionale. Il principio di precauzione, infatti, espressamente richiamato dai protocolli condivisi, non attiene al rapporto tra giudice e datore di lavoro e non può essere calato nella fase di valutazione della colpa del titolare dell’azienda, ma attiene al rapporto tra Governo e amministrati”.
In questo senso solo il Governo “operando un bilanciamento tra esigenze dell’impresa, del lavoro e della sostenibilità delle politiche assistenziali (artt. 41, 4, 36 e 38 Cost.) ed esigenze di salute pubblica (art. 32 Cost.), può autorizzare una determinata attività pericolosa perché, comunque, necessaria”. In questo senso una prima conseguenza dell’adozione dei protocolli in azienda “dovrebbe essere l’impossibilità di muovere, nei confronti del datore di lavoro che abbia ripreso l’attività produttiva, un rimprovero a titolo di ‘colpa per assunzione’, ovvero per non essersi astenuto dal compimento dell’attività potenzialmente rischiosa”.
Infortunio, colpa specifica e colpa generica del datore di lavoro
Il saggio fa poi alcune riflessione con riferimento all’art. 42 (Disposizioni Inail) del d.l. n. 18/2020 e dell’art. 29 bis (Obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da COVID-19) del d.l. n. 23/2020.
Si indica che i protocolli condivisi “sembrano svolgere anche una seconda e più importante funzione. Le misure di profilassi in essi cristallizzate, infatti, non rappresentano regole cautelari proprie, dirette alla eliminazione del rischio, ma esprimono, piuttosto, come è prassi nelle attività rischiose ma autorizzate, regole cautelari improprie, dirette cioè a minimizzare e a contenere quel rischio. Esse, pertanto, sono idonee a tracciare un’area di rischio consentito, entro la quale il datore di lavoro è chiamato a dare attuazione a prescrizioni che, per il loro carattere precauzionale, non è detto che riescano a disinnescare il pericolo del contagio, residuando comunque un margine irriducibile di pericolosità”. E il “contraltare dell’inevitabile accettazione del rischio negli ambienti di lavoro è rappresentato dal rafforzamento della tutela assicurativa del lavoratore”.
Si fa riferimento alla circolare dell’Inail n. 13 del 3 aprile 2020 che intervenendo sul profilo della distribuzione dell’onere della prova, “ha introdotto, nel procedimento amministrativo dinanzi all’Istituto ed a vantaggio di alcune categorie di lavoratori maggiormente esposte al rischio, una presunzione semplice di origine professionale dell’infezione. Il meccanismo assicurativo così predisposto “sembra prescindere da valutazioni in ordine alle chance di recupero delle somme erogate a titolo di indennizzo e, dunque, da considerazioni sugli eventuali profili di responsabilità del titolare dell’azienda e pare, anzi, destinato ad attivarsi soprattutto nei casi in cui il contagio si verifichi nonostante l’attuazione delle linee-guida”.
Pertanto:
- “se il datore di lavoro ha applicato ed ha applicato correttamente i protocolli, l’infortunio che si è comunque registrato in azienda dovrebbe essere considerato ‘evento da rischio consentito’ ed alla fase amministrativa dell’indennizzo non dovrebbe seguire la fase processuale in cui l’Inail agisce in regresso nei confronti del titolare dell’azienda, al quale non può muoversi alcun rimprovero a titolo di colpa”.
- se il datore “non ha applicato o non ha applicato correttamente i protocolli, l’infortunio occorso in azienda dovrebbe essere considerato ‘evento da rischio non consentito’ ed alla fase amministrativa dell’indennizzo dovrebbe seguire una fase processuale in cui l’Inail eserciterà l’azione di regresso di cui all’art. 11 del d.P.R. n. 1124/1965”.
Chiarito che la qualificazione del contagio come “infortunio sul lavoro” non comporta, dunque, responsabilità del datore di lavoro “nell’ipotesi in cui la trasmissione del virus costituisca evento da rischio consentito, resta da circoscrivere i confini di questo rischio. Come è noto, infatti, la posizione di garanzia del datore di lavoro discende direttamente dall’art. 2087 c.c., il quale obbliga l’imprenditore ad adottare in azienda le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
L’art. 2087 c.c. consente “da un lato di colmare le lacune del diritto positivo e, dall’altro, di integrare il contenuto delle norme elastiche predisposte dalla legislazione speciale, indicando nello stato di avanzamento della tecnologia prevenzionale il criterio per distinguere tra ciò che è possibile e ciò che non è possibile esigere dall’imprenditore (c.d. massima sicurezza tecnologicamente possibile)”. Tuttavia è evidente che nell’attuale contesto di incertezza scientifica “i criteri suggeriti dal legislatore per la selezione degli obblighi non scritti di diligenza, prudenza e perizia, non sarebbero in grado di svolgere alcuna funzione evocativa delle regole extragiuridiche idonee a fronteggiare il rischio del contagio”.
In ogni caso venendo incontro alle istanze della parte datoriale “il legislatore, superando l’incertezza, ha circoscritto il contenuto di quella posizione in senso costituzionalmente orientato, precisando che ‘ai fini della tutela contro il rischio di contagio…, i datori di lavoro … adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo’ nazionale ‘e negli altri protocolli …, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste’ ( art. 29 bis del d.l. n. 23/2020). La disposizione in commento ha certamente l’obiettivo di circoscrivere gli obblighi del datore di lavoro all’applicazione delle prescrizioni contenute nelle linee guida e all’adozione e al mantenimento delle misure ivi previste, le quali rappresentano tendenzialmente la migliore tecnologia prevenzionale del momento storico (art. 12 disp. prel.). Tuttavia, la stessa disposizione non sta significare che il legislatore abbia esonerato l’imprenditore dall’obbligo di applicare in azienda, oltre alle misure cd. nominate, anche le misure c.d. innominate”.
Se così fosse – continua l’autore - i protocolli “dovrebbero contenere solo prescrizioni nette, in grado di fondare il rimprovero a titolo di colpa specifica e delimitare la misura del rischio consentito. Essi, invece, incorporano regole eterogenee, che non hanno alcuna pretesa di immobilismo e ricomprendono:
- regole cautelari ‘rigide’, che prescrivono la condotta in termini netti;
- regole cautelari ‘elastiche’ e non esaustive, che prescrivono una condotta generica, che il datore di lavoro dovrà determinare in rapporto alle circostanze concrete;
- e soprattutto regole cautelari solo ‘apparentemente scritte’ e fondamentalmente aperte, che si limitano a fissare obiettivi di sicurezza e lasciano indeterminata la condotta doverosa”.
Dunque a fronte di queste norme non esaustive ed aperte, “l’imprenditore non ha la possibilità di fermarsi a ciò che è scritto, ma è tenuto a decodificare la dimensione concreta delle cautele suggerite. Egli, pertanto, deve anzitutto individuare la misura che garantisce la massima sicurezza tecnologicamente possibile, eventualmente diversa e più incisiva rispetto a quella suggerita dal protocollo, e, secondo l’indicazione legislativa, deve poi ‘attuarla’ e ‘mantenerla’, in azienda, verificandone costantemente l’efficacia, l’adeguatezza e l’idoneità”.
Livelli di sicurezza, protocolli condivisi e valutazione del rischio
Rimandiamo alla lettura integrale del saggio che si sofferma poi sui tre livelli della sicurezza nello scenario del Covid-19.
Il primo livello “è rappresentato dall’art. 2087 c.c., di cui sia le misure indicate dai protocolli, sia le regole di cui al d.lgs. n. 81 del 2008 sono esplicitazione. Questa norma, come abbiamo anticipato, svolge una duplice funzione di chiusura e di promozione del sistema, garantendone la completezza e l’aggiornamento tecnologico”. Mentre i protocolli condivisi, che rappresentano il secondo livello della sicurezza sui luoghi di lavoro, “hanno la sostanziale funzione di riempire di contenuto l’obbligo indeterminato di cui all’art. 2087 c.c., con riferimento ad un pericolo inedito, dinanzi al quale, viceversa, l’imprenditore si sarebbe trovato completamente disorientato. Essi, pertanto, proprio perché destinati a soddisfare questa specifica esigenza di aggiornamento del sistema, concentrano in sé tutti gli strumenti di valutazione del rischio del contagio, che non avrebbe senso prendere in considerazione anche negli altri documenti indicati dalla normativa sulla sicurezza”.
Tuttavia si attiva, seppur indirettamente, anche un terzo livello della sicurezza, rappresentato dalla normativa antinfortunistica di cui al d.lgs. n. 81 del 2008.
Questa normativa “impone al datore di lavoro di valutare i rischi specifici dell’attività produttiva e di registrare l’esito di questa valutazione in un documento (c.d. DVR, artt. 28 e 29, comma 1) che va costantemente aggiornato (art. 29, comma 3): se la valutazione dei rischi è sbagliata, incompleta o non aggiornata il datore è in colpa per violazione di legge e va incontro a responsabilità penale (art. 55) oltre che ad importanti conseguenze sul piano strettamente lavoristico”.
Tuttavia la disciplina antinfortunistica di cui al d.lgs. n. 81 del 2008 “non sembra direttamente risvegliata dal rischio del contagio”. Questo rischio è “espressamente qualificato dai protocolli condivisi come ‘rischio generico’, con la precisazione che esso incombe indistintamente su ‘tutta la popolazione’: la sua valutazione, pertanto, senza necessità di duplicazioni, è affidata, come si è anticipato, ad un canale autonomo ed indipendente, rappresentato dalle operazioni di applicazione concreta delle linee-guida governative e dai relativi verbali, i quali, ai soli fini della tracciabilità delle attività, potranno anche essere raccolti in un’appendice del DVR” (Nota n. 89 del 13 marzo 2020 dell’INL).
Tuttavia – conclude il saggio - non si deve sottovalutare la possibilità che “le riorganizzazioni, le trasformazioni logistiche e le rimodulazioni degli orari di lavoro messe in atto nella fase di attuazione dei protocolli determino, in azienda, la nascita di rischi fino a quel momento non considerati”.
Questi rischi - a parere dell’autore – “essendo nettamente distinti dal rischio del contagio, dovrebbero essere oggetto di specifica valutazione da parte dell’azienda e determinare un aggiornamento del DVR. Il datore di lavoro che non procedesse in tal senso, infatti, si ritroverebbe esposto, tra l’altro, alle conseguenze penali di cui all’art. 55 del d.lgs. n. 81/2008, il quale contempla contravvenzioni punibili indifferentemente a titolo di dolo o colpa (artt. 3 della l. n. 689/1981 e 43 c.p.)”.
Scarica il documento da cui è tratto l'articolo:
Università di Urbino Carlo Bo, Osservatorio Olympus, Diritto della sicurezza sul lavoro, “ La colpa del datore di lavoro nello scenario del Covid-19”, a cura di Sabato Rozza - Dottorando di ricerca in Diritto del lavoro – Università di Roma “La Sapienza” (formato PDF, 383 kB).
Scarica la normativa di riferimento:
DECRETO-LEGGE n. 104 del 14 agosto 2020 - Misure urgenti per il sostegno e il rilancio dell'economia.
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