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Stress e burn out: rischi e buone prassi per gli operatori sociali

Stress e burn out: rischi e buone prassi per gli operatori sociali
Tiziano Menduto

Autore: Tiziano Menduto

Categoria: Rischio psicosociale e stress

11/01/2019

Un intervento si sofferma su alcuni rischi relativi alle professioni sociali con particolare riferimento al trattamento socio-educativo e alle relazioni di aiuto per persone sottoposte a misure restrittive della libertà. Stress e burn out.

Stress e burn out: rischi e buone prassi per gli operatori sociali

Un intervento si sofferma su alcuni rischi relativi alle professioni sociali con particolare riferimento al trattamento socio-educativo e alle relazioni di aiuto per persone sottoposte a misure restrittive della libertà. Stress e burn out.

 

Milano, 11 Gen – Partendo dalla considerazione che nell’organizzazione carceraria sono molti i fattori di rischio stress lavoro correlato per gli operatori che operano fuori e dentro il carcere, cosa è possibile fare per rendere meno disagevole il lavoro del personale di giustizia che opera con persone sottoposte a misure penali? E quali sono i riferimenti e le buone prassi applicative per valutare concretamente il rischio stress e per intervenire efficacemente?

 

A rispondere a queste domande è stato un seminario che si è tenuto a Milano il 19 settembre 2018, organizzato dal “ Centro per la Cultura della Prevenzione nei luoghi di lavoro e di vita”, dal titolo “Rischio stress lavoro correlato degli operatori della giustizia in ambito di esecuzione penale esterna”, un seminario che ha seguito di qualche mese un analogo evento per gli operatori della giustizia negli istituti penitenziari e che questa volta era rivolto in particolare agli operatori degli Uffici E.P.E. e agli assistenti sociali che operano in ambito penale.

 

Ricordiamo che gli Uffici per l'Esecuzione Penale Esterna (UEPE) si occupano del trattamento socio-educativo delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà.  

In particolare, come raccontato in alcuni interventi al seminario, tali Uffici hanno il compito istituzionale di predisporre e gestire programmi in grado di disegnare percorsi di responsabilizzazione e di reinserimento. Mentre, più in generale, l’assistente sociale svolge una professione di aiuto alla persona in stato di bisogno, operando in tutte le fasi dell’intervento per la prevenzione, il sostegno ed il recupero di persone, famiglie, gruppi e comunità in situazioni di bisogno e di disagio.



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Per favorire, secondo l’obiettivo del seminario, un momento di “riflessione sul benessere fisico, psicologico e sociale del personale”, indicando anche come “mitigare il disagio stress”, ci soffermiamo brevemente sull’intervento “Stress e burn out nelle relazioni di aiuto: buone prassi possibili?”, a cura di Valentina Fenaroli ( Università Cattolica S. C., Milano). 

 

Stress e burn out

Innanzitutto la relatrice riporta alcune informazioni di base su cosa sia lo stress-lavoro correlato e il burn out (spesso chiamato anche “burnout”):

  • stress lavoro-correlato: fatica e sofferenza del lavoratore nel far fronte a richieste dell’ambiente di lavoro e dell’utenza, che percepisce come soverchianti e che sente di non riuscire a controllare;
  • burn out (‘bruciato’ , ‘esaurito’): situazione di malessere, esaurimento, demotivazione che si verifica frequentemente in professioni ad elevata implicazione relazionale. Dimensioni del burn out (Maslach, 1976): esaurimento emozionale, depersonalizzazione, ridotta efficacia professionale. 

 

Nelle slide, con riferimento alla reazione dell’organismo allo stress, è riportata una rappresentazione grafica della sindrome generale di adattamento (Selye, 1955):

 

Sindrome generale di adattamento

 

Lo stress nelle professioni sociali

Si riportano indicazioni specifiche sullo stress nelle professioni sociali.

È una “questione articolata (sono implicati i singoli, ma anche le organizzazioni in cui essi lavorano e la società nel suo complesso)” e c’è:

  1. necessità di adottare una ‘prospettiva complessa’
  2. impossibilità di ottenere una risposta ‘definitiva’. 

 

Queste alcune “premesse apparentemente scontate”:

  • “il ‘mandato sociale’ è un mandato complesso: gli operatori sociali devono gestire situazioni variegate, in cui entra in gioco una molteplicità di attori (tribunale di sorveglianza, servizi del territorio, associazioni, sistema sanitario nazionale, tribunale ordinario, amministrazione penitenziaria, ecc.);
  • il lavoro nel sociale induce spesso frustrazione nell’operatore: quello che si ottiene (successi, progressi, cambiamenti, ecc.) non è quasi mai raggiunto una volta per tutte. il prodotto sociale è un ‘prodotto fragile’ (Olivetti Manoukian, 2005), richiede continui aggiustamenti, trasformazioni, ridefinizioni, ecc.;
  • il lavoro nel sociale è un lavoro emotivamente impegnativo e doloroso: l’operatore entra quotidianamente in contatto con situazioni di vulnerabilità, patologia, esclusione sociale, emarginazione, indigenza”. 

 

I rischi per gli operatori sociali

L’intervento si sofferma anche sui rischi per gli operatori.

Si indica che “l’emotività può essere negata/evacuata dalla propria mente”.

Ad esempio con l’uso di meccanismi di difesa:

  • ridimensionamento dei problemi
  • minimizzazione di quanto la persona porta
  • rifugio in modalità burocratiche
  • cinismo. 

Meccanismi di difesa che sono spesso “un modo attraverso il quale ci difendiamo da un’angoscia troppo forte”. 

 

Un altro rischio è la staticità del pensiero: “anche le emozioni si appiattiscono e si finisce per non desiderare più di entrare in contatto con l’esperienza altrui”. Può cessare la “curiosità di esplorare”: “tutte le situazioni sono vissute come uniformi, uguali, senza spessore (Olivetti Manoukian, 2005)”.

 

Inoltre l’operatore sociale può arrivare a ‘farsi carico’ di “una serie di fallimenti, disarmonie, frustrazioni, disgregazioni, ecc.). Il rischio è quello di: credere di potersi far carico da solo di ciò, pensare di poter rispondere a questa domanda, ‘… di avere la responsabilità di aggiustare quanto una società intera ha in un certo senso distrutto’ (Olivetti M., 2005).

In questo senso ‘calibrare il lavoro sociale su aspettative di salvezza porta più danni che benefici’.

 

Questi poi alcuni elementi di sofferenza:

  • “sensazione di essere poco riconosciuti, in qualche modo accomunati agli utenti (aree di basso profilo) … sensazione di essere fuori anche dai ‘riflettori del carcere’;
  • sentirsi ‘sotto assedio’;
  • a fronte di risultati scarsi o problematici, far continuamente appello a questioni più gravi (scarsità di risorse, ecc.) ;
  • credere che una maggiore competenza tecnica ‘risolva i problemi’: rischio che si tenti di alleggerire il carico sociale tramite acquisizione di competenze tecniche altamente specializzate”. In questo caso la formazione può essere usata “come alibi”;
  • “dimenticarsi che la vita è – per sua natura – tragica, mai esente da dolore e fallimenti: salutare ridimensionamento delle attese”. La relatrice ricorda che la psicoanalisi “ci ricorda che la pulsione di morte ha un suo peso, spesso addirittura più della pulsione di vita”. E la persona con cui l’operatore entra in contatto “può non voler cambiare”. 

 

Rimandiamo poi alla lettura integrale dell’intervento che segnala anche le rappresentazioni fantasmatiche, che spesso abitano inconsapevolmente l’operatore, relative al proprio operato (I fantasmi dell’operatore sociale (E.Enriquez, 2007). E i rischi conseguenti, ad esempio “aderire in modo acritico a queste rappresentazioni, che, per loro natura, sono acritiche, rigide, stereotipate, non negoziate con la persona e con il contesto sociale”.

 

Le buone prassi da attivare

Veniamo, in conclusione, ad alcune buone prassi:

  • “incentivare momenti di riflessione sull’esperienza (es: gruppi di discussione di casi, supervisioni, discussioni sulle proprie motivazioni al lavoro, ecc.). Integrazione tra cultura intellettuale (il ‘sapere tecnico’) e cultura emozionale”;
  • “incentivare percorsi che favoriscano la comprensione (emozionale in primis) sull’azione”. Incentivare dunque percorsi che favoriscano la “comprensione delle situazioni che si vivono” e creare “dispositivi in cui riconoscere e trattare la propria frustrazione”. C’è anche “il rischio di utilizzo di ‘etichette vuote’ (es. burnout)”;
  • “avere occasioni/luoghi/opportunità che privilegino l’osservazione, l’ascolto, il pensare sul fare”;
  • “lavorare sull’organizzazione ancor prima che sulla specializzazione individuale. Cercare modalità di cooperazione più congruenti, processi di comunicazione più efficaci. Riformulare obiettivi e oggetti di lavoro”;
  • “operare per un radicale riposizionamento dei servizi: da istituzioni specialistiche deputate al trattamento del disagio a organizzazioni che promuovono processi sociali ‘finalizzati a far sì che le comunità locali si riapproprino del disagio’.

 

In conclusione l’intervento indica che “non sono sostenibili assetti sociali in cui i servizi sono identificati come soggetti cui tocca ripristinare una ‘normalità sociale’ (Olivetti Manoukian, 2005)” ed è necessaria una “gestione allargata e il più possibile condivisa dei problemi”.   

 

 

Tiziano Menduto

 

 

Scarica il documento da cui è tratto l'articolo:

“ Stress e burn out nelle relazioni di aiuto: buone prassi possibili?”, a cura di Valentina Fenaroli (Università Cattolica S. C., Milano), intervento al seminario “Rischio stress lavoro correlato degli operatori della giustizia in ambito di esecuzione penale esterna” (formato PDF, 543 kB).



Creative Commons License Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

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