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Sull'utilizzo prioritario dei DPC rispetto ai DPI

Sull'utilizzo prioritario dei DPC rispetto ai DPI
Gerardo Porreca

Autore: Gerardo Porreca

Categoria: Sentenze commentate

05/02/2018

Nei lavori in quota contro il rischio di caduta dall’alto vanno utilizzati prioritariamente i dispositivi di protezione collettiva. l’uso dei dpi è consentito se la protezione collettiva sia tecnicamente impossibile e per esposizioni di breve durata.

Due le disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro messi in evidenza in questa sentenza dalla Corte di Cassazione chiamata a decidere sul ricorso presentato da un datore di lavoro per l’infortunio occorso a un lavoratore che, salito con i ramponi su di un palo in legno per sostituire un cavo telefonico, è caduto da una altezza di 4 metri per la rottura del palo stesso alla sua base.

 

A difesa dal rischio di caduta dall’alto nei lavori in quota, ha messo in evidenza la suprema Corte, vanno previsti nei DVR e utilizzati prioritariamente i dispositivi di protezione collettiva limitando il ricorso a quelli di protezione individuale solo nel caso che sia tecnicamente impossibile l’utilizzo di quelli collettivi e nel caso di limitati livelli di rischio o di una breve esposizione allo stesso.

 

Nell’esecuzione delle misure di sicurezza, inoltre, è necessario attenersi alle soluzioni indicate nel documento di valutazione dei rischi e alle protezioni in esso indicate. Nel caso particolare della sentenza riguardante la presenza di un rischio di caduta dall’alto era stato previsto per il lavoro da effettuare in quota il ricorso a una piattaforma elevabile mentre il lavoratore si è infortunato arrampicandosi sul palo utilizzando dei ramponi e una cintura che erano i mezzi che venivano normalmente utilizzati per tale tipo di lavoro.

 

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Dispositivi di Protezione Individuale
Formazione sui rischi specifici per chi utilizza i dispositivi di protezione individuale (Art. 37 D.Lgs. 81/08)

Il fatto, l’iter giudiziario e il ricorso in Cassazione

Il Tribunale ha dichiarato la legale rappresentante di una società responsabile del reato di cui all'art. 590, comma 3, in relazione all'art. 583, comma 1, n. 1 cod. pen. e, concesse le attenuanti generiche, l’ha condannata alla pena di mesi quattro di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali. Pena sospesa. In particolare all'imputata veniva addebitato di avere cagionato, nella sua qualità di legale rappresentante della società, con colpa consistita in imprudenza, negligenza, imperizia e violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, a un dipendente lesioni personali gravi tali da determinare incapacità di attendere alle proprie ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai 40 giorni (specificamente giudicate guaribili in gg. 148).

 

Più in particolare, in conseguenza della violazione di cui agli artt. 29 co. 1 del D. Lgs. n. 81/2008, per aver elaborato un documento della valutazione dei rischi incongruo che, non tenendo conto e non valutando tutti i rischi relativi alle cadute dall'alto, non indicava le misure di prevenzione e protezione da adottare e 111 co. 1 lett. a) del D. Lgs. n. 81/2008 per non aver fornito al lavoratore l'idonea attrezzatura atta a garantire condizioni di lavoro sicuro contro le cadute dall'alto (quale ad es. il cestello autosollevante), all’imputata era stato addebitato di avere omessa l'adozione di idonee misure di prevenzione ragion per cui il lavoratore, nel mentre operava legato su un palo per sganciare i vecchi raccordi telefonici per poi sostituirli, essendosi il palo spezzato alla base, era caduto a terra da un'altezza di 4/5 metri e si era provocata le lesioni. Tutto ciò con le aggravanti dell'essere la lesione grave (avendo determinato l'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un periodo non inferiore a 148 giorni) e dell'essere il fatto commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.

 

La Corte di Appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha riconosciuta la sussistenza dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 6 cod. pen. in ragione dell'intervenuto risarcimento del danno in favore della persona offesa e ha rideterminata la pena finale inflitta in Euro 7.500,00 di multa, così sostituendo la corrispondente pena detentiva di mesi uno di reclusione. Ha revocato altresì, su richiesta dell'appellante, il beneficio della sospensione condizionale della pena e ha confermava, nel resto, la decisione impugnata.

 

Nei giudizi di merito era risultato accertato che il lavoratore infortunato era un operaio dotato di grande esperienza nello svolgimento dell'intervento manutentivo cui era stato addetto (c.d. mansione di guardafili), e l’operazione che doveva fare il giorno dell’infortunio consisteva nella sostituzione dei cavi di una linea telefonica posti su dei pali in legno che avrebbero dovuto essere staccati per la loro successiva sostituzione. Per adempiere a tale compito il lavoratore, dopo avere provveduto a saggiare la tenuta del palo secondo le disposizioni impartite dalla società, si era arrampicato su di esso avvalendosi dei soli strumenti fornitigli dall'azienda, ovvero dei cosiddetti ramponi montapalo e della cintura di sicurezza allorquando, mentre era quasi alla sommità, lo stesso palo si era improvvisamente spezzato, determinando, così, la sua caduta da un'altezza di 4/5 metri, non essendo assicurato ad alcuni idoneo dispositivo di trattenuta.

 

 

I giudici di merito avevano fondato il giudizio di responsabilità a carico dell'imputata risultando comprovato che la società aveva omesso di fornire al lavoratore infortunato le misure di protezione collettiva prioritariamente previste nel documento di valutazione dei rischi nel caso di salite ad altezze superiori a due metri ovvero “l’utilizzo, in via prioritaria, di un'autopiattaforma oppure, in alternativa, di una scala quando l'utilizzo di tale mezzo fosse stato tecnicamente impossibile o non necessario in considerazione del limitato livello di rischio o dalla breve durata dell'intervento); l'utilizzo dei ramponi e della cintura di sicurezza era, invece, considerata una modalità del tutto residuale”.

 

Nel caso in esame era risultato tecnicamente possibile l'utilizzo dell'autopiattaforma in quell'occasione, in ragione delle favorevoli condizioni dei luoghi, risultando le palificazioni collocate in un terreno pianeggiante e solido, facilmente accessibile a mezzi meccanici. I dispositivi di protezione individuale erano divenuti, nella prassi, i soli mezzi ordinari di protezione, non risultando disponibile nessuno dei dispositivi di protezione collettiva che avrebbero dovuto essere impiegati secondo il prestabilito ordine di priorità indicato nel documento di valutazione dei rischi.

 

Il ricorso in cassazione e le motivazioni

L’imputata ha ricorso alla Corte di Cassazione a mezzo del proprio difensore di fiducia chiedendo l’annullamento della sentenza. Lo stesso ha evidenziato che dagli esiti del dibattimento era risultato comprovato che lo Spresal dell'Asl aveva avallato le procedure aziendali previste nel documento di valutazione dei rischi, così come rielaborato dalla società a seguito della prescrizione ex art. 20 del D. Lgs. n. 758/1994. Ha specificato inoltre che il DVR., pur continuando a prevedere, in via prioritaria, l'adozione di forme di protezione collettiva, ha tuttavia escluso la possibilità di ricorrere alla piattaforma perché, nella maggior parte dei casi, non sarebbe stato possibile avvicinare il mezzo al palo. Lo Spresal, secondo il ricorrente, aveva considerato accettabile fronteggiare il rischio di caduta dall'alto per chi opera sui pali con l'adozione delle misure di protezione individuali (ovvero dall'attrezzatura costituita dai ramponi e dalla cintura di sicurezza) e l’evento andava ascritto ad una mera fatalità atteso che la rottura del palo a 115 cm da terra era anomala e senza che vi fosse stato alcun segno premonitore esterno della compromissione del legno.

 

Le decisioni della Corte di Cassazione

Il ricorso è stato rigettato dalla Corte di Cassazione. La stessa ha fatto presente che nel caso in esame la Corte distrettuale aveva puntualmente rivalutato e valorizzato il medesimo compendio probatorio già sottoposto al vaglio del Tribunale e, dopo aver preso atto delle censure dell'appellante, puntualmente esaminate e rigettate, era giunta, con motivazioni congrue e logiche, alle medesime conclusioni in termini di sussistenza della responsabilità dell’imputata. I giudici di secondo grado avevano infatti ribadito che il datore di lavoro aveva messo a disposizione dei lavoratori solo dispositivi di protezione che, invece, nel documento di valutazione dei rischi erano previsti in via del tutto residuale (ramponi montapalo e cintura di sicurezza), ovvero allorquando, in ragione di peculiari situazioni (es. pali posizionati su terreni estremamente impervi), non fosse possibile avvalersi degli altri sistemi (in via graduata autopiattaforma e scale), da utilizzarsi prioritariamente.

 

Nel caso in esame la pianeggiante conformazione dei luoghi, ha osservato la Corte suprema, avrebbe certamente consentito l'utilizzo dell'autopiattaforma, così scongiurando i rischi di caduta dall'alto correlati alla rottura del palo per effetto delle sollecitazioni derivanti dall'arrampicata del lavoratore, donde l'addebito a titolo di colpa di quanto verificatosi a causa del mancato utilizzo di un mezzo meccanico per portare in quota l'operaio per cui ha rigettato il ricorso con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

 

Gerardo Porreca

 

 

Corte di Cassazione Penale Sezione IV - Sentenza n. 2335 del 19 gennaio 2018 (u.p. 28 novembre 2017) - Pres. Izzo – Est. Tornesi – Ric. O.P..  - Nei lavori in quota contro il rischio di caduta dall’alto vanno utilizzati prioritariamente i dispositivi di protezione collettiva. l’uso dei dpi è consentito se la protezione collettiva sia tecnicamente impossibile e per esposizioni di breve durata.

 



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