Sulle responsabilità per la caduta di un operaio da una scala
Roma, 25 Lug – Sono ancora molti in Italia, malgrado i documenti pubblicati e le campagne di prevenzione lanciate dalle aziende sanitarie, gli infortuni gravi e mortali che avvengono per la caduta nell’utilizzo di scale. E, conseguentemente, sono anche molti i processi, correlati a incidenti di questo tipo, in cui si arriva al ricorso in Corte di Cassazione.
Ricordiamo, a titolo esemplificativo, alcune sentenze della Cassazione in cui si fa riferimento alle responsabilità per la caduta di lavoratori dalle scale:
- Cassazione Penale Sez. IV – Sentenza 25 ottobre 2017, n. 48951;
- Corte di Cassazione Penale Sezione IV - Sentenza n. 1871 del 17 gennaio 2018 (u.p. 23 novembre 2017)
- Corte di Cassazione Penale Sezione IV - Sentenza n. 43459 del 17 ottobre 2014 (u. p. 9 gennaio 2014).
Delle responsabilità per la caduta di un operaio magazziniere da una scala si occupa anche una recente pronuncia della Corte di Cassazione, la Sentenza n. 15190 del 5 aprile 2018.
L’infortunio e i motivi del ricorso
Nella pronuncia si indica che nelle sentenze di primo e secondo grado “con cui gli imputati DC.V. e DC.A., erano ritenuti responsabili del reato di lesioni colpose in danno di I.S.G.”, dipendente della società "XXX", era contestato agli imputati, “nelle rispettive qualità di datore di lavoro e di responsabile della direzione dello stabilimento in cui era impiegato l'operaio, di avere cagionato lesioni personali della durata superiore a trenta giorni ad I.S.G.”.
In particolare I.S.G. “precipitava da una scala, da un'altezza di circa sette metri, mentre era intento a trasportare un collo del peso di sei chilogrammi. Si configuravano a carico dei ricorrenti, profili di colpa generica e specifica, riconducibili alla violazione dell'art. 32 d.lgs. 626/94 consistiti nel non avere dotato il lavoratore dei necessari dispositivi individuali di protezione; di non averlo adeguatamente formato ed informato dei rischi derivanti dal tipo di attività in cui era impiegato; di non avere adottato una diversa organizzazione di lavoro che consentisse di evitare la movimentazione manuale di pesanti carichi in altezza. Alla DC.A. era altresì contestato di non avere segnalato in modo tempestivo al datore di lavoro le deficienze del luogo di lavoro e le condizioni di pericolo esistenti all'interno del magazzino”.
Nei motivi di “doglianza” riportati nei separati atti di ricorso, si indica che la Corte di appello “non avrebbe fatto buon governo della norma che regola i profili prevenzionistici in materia di infortuni sul lavoro e della disciplina codicistica che riguarda il nesso di causalità. L'infortunio sarebbe stato conseguenza di una decisione autonoma ed imprevedibile del lavoratore che, contravvenendo alle indicazioni del direttore di stabilimento, avrebbe posto in essere un comportamento estraneo alle sue mansioni, recandosi in magazzino senza attendere il collega. Da ciò, deriverebbe la erroneità della decisione di ritenere penalmente responsabile dell'accaduto il datore di lavoro. Questi, contrariamente a quanto si rileva in sentenza, aveva dotato il lavoratore dei necessari dispositivi individuali di protezione (casco, guanti e scala adeguata). Tuttavia, l'infortunato aveva deciso autonomamente di non utilizzarli. Il direttore dello stabilimento, dal canto suo, aveva impartito precise disposizioni agli operai di recarsi all'interno dei locali del magazzino sempre in coppia, ma il lavoratore aveva preferito non attendere l'arrivo del collega”.
Nelle “doglianze” si indica, inoltre, che la “impugnata sentenza sarebbe censurabile perché, attraverso una errata valutazione delle risultanze processuali, porrebbe in essere un travisamento della prova. La ricostruzione della vicenda, in fatto e diritto, sarebbe illogica e contraddittoria”. Inoltre “l'impugnata sentenza, secondo la prospettazione difensiva, meriterebbe di essere censurata anche con riferimento al trattamento sanzionatorio”.
Le indicazioni della Corte di Cassazione
Innanzitutto la Cassazione rileva “come il reato ascritto agli imputati sia estinto per intervenuta prescrizione” (il fatto occorso era occorso in data 30/7/2009).
In ogni caso riguardo alle doglianze difensive si rileva anche “come i motivi di ricorso proposti da entrambi i ricorrenti risultino infondati. Benché la motivazione della sentenza di appello sia molto succinta, le argomentazioni risultanti dalla lettura congiunta delle sentenze di merito, i cui contenuti, in caso di doppia conforme, si saldano a formare un unico complesso argomentativo, sono corrette e conducenti ai fini dell'affermazione della responsabilità dei due imputati, con riferimento all'infortunio occorso al lavoratore”.
In particolare la responsabilità degli imputati “è stata riconosciuta sul rilievo che, dovendo il lavoratore, nell'esercizio dei compiti affidatigli di magazziniere, movimentare dei colli ingombranti e pesanti, ad un'altezza di circa sette metri, fosse del tutto prevedibile, in mancanza di specifici accorgimenti, che potesse perdere l'equilibrio a cadere. E' stato correttamente reputato inidoneo lo strumento messo a disposizione dell'operaio, come risulta dalle testimonianze assunte dagli ispettori del lavoro, a cui adeguatamente si è riferita la Corte di appello in motivazione. Tale scala infatti non assicurava, anche in presenza di altro operaio, alcuna forma di adeguata protezione da prevedibili cadute”. E dunque “l'impianto motivazionale della sentenza della Corte territoriale, che ha confermato la responsabilità degli imputati, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, appare quindi assolutamente immune da censure, sia sotto il profilo motivazionale, sia sotto il profilo della corretta applicazione della legge”.
Imprevedibilità e comportamenti abnormi
Riguardo poi al tema della supposta imprevedibilità del comportamento del lavoratore infortunato, si ricorda come, con riferimento alla posizione di DC.V., “il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, sia esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente possa essere definito abnorme, dovendosi ritenere tale, il comportamento imprudente o negligente del lavoratore che sia stato posto in essere da quest'ultimo del tutto autonomamente, in un ambito estraneo alle mansioni che gli sono state affidate e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità”. E le argomentazioni contenute nelle sentenze di merito, “in base alle quali non è sostenibile che la condotta del lavoratore potesse essere da sola idonea ad interrompere il nesso causale con l'evento verificatosi, è conforme ai principi più volte affermati dalla Corte di legittimità in proposito”.
Può definirsi “abnorme soltanto la condotta del lavoratore che si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all'applicazione della misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro e sia assolutamente estranea al processo produttivo o alle mansioni che gli siano state affidate (così, Sez. 4, n. 38850 del 23/06/2005, Rv. 232420). A ciò deve aggiungersi che la condotta imprudente o negligente del lavoratore, in presenza di evidenti criticità del sistema di sicurezza approntato dal datore di lavoro, non potrà mai spiegare alcuna efficacia esimente in favore dei soggetti destinatari degli obblighi di sicurezza. Ciò in quanto, tali disposizioni, secondo orientamento conforme della giurisprudenza di questa Corte, sono dirette a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua colpa, dovendo, il datore di lavoro, prevedere ed evitare prassi di lavoro non corrette e foriere di eventuali pericoli, (così, ex multis Sez. 4, n. 10265 del 17/01/2017, Rv. 269255; Sez. 4 n. 22813 del 21/4/2015 Rv. 263497; Sez. 4, n. 38877 del 29/09/2005, Rv. 232421). Inoltre, il responsabile della sicurezza sul lavoro, che ha negligentemente omesso di attivarsi per impedire l'evento, non può invocare, quale causa di esenzione dalla colpa, l'errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti da parte dei lavoratori, poiché il rispetto della normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità dei lavoratore anche dai rischi derivanti dalle sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze, purché connesse allo svolgimento dell'attività lavorativa (Sez. 4, n. 18998 del 27/03/2009, Rv. 244005)”.
Dunque – continua la sentenza - risulta evidente, dai principi richiamati, “come non sia possibile inquadrare nell'ambito delle condotte connotate da abnormità ed esorbitanza, il comportamento serbato dal lavoratore infortunato, non essendosi questo realizzato in un ambito avulso dai compiti che gli erano stati assegnati e non potendosi sostenere che si trattasse di una condotta assolutamente eccentrica ed imprevedibile, come evidenziato in maniera appropriata dai giudici di merito. Il dipendente era un operaio magazziniere, pertanto era addetto proprio allo stoccaggio ed al prelievo della merce presente nel deposito. Sotto questo profilo il suo comportamento rientrava perfettamente nelle mansioni che egli era chiamato a svolgere. Né, la mancata contestazione di precise norme antinfortunistiche, è circostanza suscettibile di influire sulla insussistenza del reato. Benché nella sentenza e, prima ancora, nella contestazione elevata dall'accusa, non siano indicate le norme specificamente violate in materia antinfortunistica, il solo richiamo all' art. 2087 cod. civ. è sufficiente per ritenere integrata la responsabilità del datore di lavoro qualora si accerti che l'infortunio si sia verificato a causa dell'omessa adozione di quelle misure ed accorgimenti imposti all'imprenditore dall'art. 2087, cod. civ. ai fini della più efficace tutela dell'integrità fisica del lavoratore, (così Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015, Rv. 265052)”.
Le conclusioni della Corte di Cassazione
Rimandiamo alla lettura integrale della sentenza che si sofferma anche sulla doglianza relativa al supposto vizio di travisamento della prova e segnala che le argomentazioni illustrate “valgono anche per il dirigente dello Stabilimento che, per la sua posizione apicale, è destinatario iure proprio di tutti gli obblighi di garanzia”.
Infatti sul punto, “la giurisprudenza di legittimità ha precisato che, se più sono i titolari della posizione di garanzia (nella specie, relativamente al rispetto della normativa antinfortunistica sui luoghi di lavoro), ciascuno è, per intero, destinatario dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, con la conseguenza che, se è possibile che determinati interventi siano eseguiti da uno dei garanti, è tuttavia doveroso, per l’altro o per gli altri garanti, dai quali ci si aspetta la medesima condotta, accertarsi che il primo sia effettivamente intervenuto (così Sez. 4, n. 38810 del 19/04/2005, Rv. 232415)”.
In definitiva, malgrado l’infondatezza dei motivi di ricorso, la Corte di Cassazione annulla la sentenza impugnata per estinzione del reato per prescrizione e condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile per il giudizio di legittimità.
Tiziano Menduto
Scarica la sentenza da cui è tratto l’articolo:
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Rispondi Autore: Riccardo Coletti - likes: 0 | 30/07/2018 (16:06:38) |
come già successo in altri casi, è penoso il fatto che il reato sia stato prescritto nonostante i due imputati siano stati giudicati colpevoli.... |