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Sulla posizione di garanzia del preposto a tutela dei lavoratori
Pone la Corte di Cassazione in questa sentenza la propria attenzione sulla posizione di garanzia ricoperta dal preposto nella organizzazione della sicurezza nell’ambito di una azienda e sulla sua responsabilità per un infortunio occorso ad un lavoratore dipendente. Le disposizioni in materia di salute e sicurezza su lavoro, ha infatti evidenziato la suprema Corte, riconoscono una specifica posizione di garanzia in capo al preposto che è tenuto a rispettarle nell’ambito delle proprie attribuzioni e competenze. Il preposto, in pratica, quale titolare di una posizione di garanzia a tutela della incolumità dei lavoratori, deve vigilare sull’operato dei lavoratori sottoposti alla propria sorveglianza e risponde degli infortuni loro occorsi in violazione degli obblighi derivanti da tale posizione di garanzia purché sia titolare dei poteri necessari per impedire l’evento lesivo in concreto verificatosi.
Il fatto e l’iter giudiziario
Il Tribunale ha dichiarato un capo reparto di una azienda responsabile del reato di cui agli artt. 590 comma 2 e 3, 583 comma 1 e 2 c.p. perché nella sua qualità di preposto, per negligenza, imprudenza, imperizia nonché in violazione delle norme inerenti la prevenzione degli infortuni, ed in particolare dell'art. 2087 c.c., non aveva adottato le misure idonee a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori ed a ridurre i rischi connessi alla movimentazione manuale dei carichi cagionando ad un lavoratore dipendente dell’azienda una lombalgia dalla quale è derivata l’incapacità di attendere alle proprie ordinarie occupazioni per 126 giorni. Concesse le attenuanti generiche, valutate prevalenti sulla contestata aggravante, il Tribunale lo ha quindi condannato alla pena di mesi 2 di reclusione oltre al pagamento delle spese processuali, pena condizionalmente sospesa, nonché al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, assegnando alla parte civile una provvisionale di 5.000,00 euro.
Successivamente, la Corte di Appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato il non doversi procedere nei confronti dell’imputato per essersi il reato estinto per prescrizione e, confermata nel resto l’impugnata sentenza, lo ha condannato alla rifusione delle spese di giudizio della parte civile. I giudici di merito, in particolare, hanno ritenuto provata la penale responsabilità dell’imputato sulla base di una serie di risultanze documentali e testimoniali (in particolare le dichiarazioni della persona offesa ma anche quelle di altri dipendenti sentiti come testi) dalle quali era emerso infatti che l’imputato, figlio del titolare, rivestiva all’interno della ditta la carica di responsabile del settore ricambi e che era quindi il responsabile del reparto ove il lavoratore infortunato svolgeva la propria attività, essendo lo stesso addetto alle etichettature dei ricambi, e come tale rivestiva una posizione sovraordinata rispetto allo stesso. Lo stesso, in altri termini, si doveva considerare preposto e, quindi, destinatario di una posizione di garanzia e di conseguenza avrebbe dovuto, nello specifico, vigilare sulla movimentazione dei carichi manuali al fine di evitare o, comunque, ridurre il rischio di lesioni dorso lombari anche tenuto conto dei fattori individuali di rischio così come previsto dall’art. 48 comma 4 lett. b) del D. Lgs 626/94 allora vigente. Al contrario era risultato che lo stesso aveva chiesto al lavoratore infortunato di aiutare un collega a portare in magazzino “un pezzo grande”, un pezzo con tutta probabilità del peso di 60-70 kg, poiché secondo le testimonianze degli altri dipendenti della ditta, il peso medio dei pezzi movimentati era di circa 40 kg. Comunque, anche partendo da tale valore, ha sostenuto la Sez. IV, il peso diviso per i due trasportatori superava la soglia di 15 kg che il lavoratore infortunato, secondo quanto stabilito dalla Commissione Medica, poteva trasportare.
Era risultato, altresì, che al rifiuto del lavoratore perché le condizioni di salute non glielo consentivano l’imputato aveva minacciato il lavoratore di licenziarlo se non avesse svolto il lavoro richiesto per cui lo stesso ha dovuto trasportare il pezzo indicatogli assieme al collega riportando la suddetta lesione lombare così come è risultato anche dal certificato INAIL nel quale veniva evidenziato che il lavoratore ha dovuto abbandonare il lavoro perché colto da un violento dolore lombare mentre sollevava il pezzo.
Il ricorso in Cassazione e le motivazione
Avverso la pronuncia della Corte di Appello il difensore dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione adducendo diverse motivazioni. Innanzitutto la difesa ha sostenuto che la Corte territoriale avesse fondata la ritenuta responsabilità dell’imputato su elementi fallaci a cominciare dalle dichiarazioni rese dalla persona offesa. La Corte di appello, ha fatto notare la difesa, ha ritenuto credibile il lavoratore infortunato perché le sue affermazioni sarebbero state rese nell’immediatezza dei fatti, poi, confermate in dibattimento, nonché per la presenza di riscontri e che mancava la prova che il presunto infortunio fosse effettivamente conseguenza dell’evento. Quanto al peso degli assali, la Corte di appello aveva fatto riferimento alla deposizione di un teste dalla quale era emerso che gli assiali spostati pesavano in media sui 40 kg mentre tale teste, secondo la difesa, non avrebbe mai affermato che gli assiali pesavano in media 40 kg bensì 20-25 kg, peso che diviso per due non superava la soglia consentita di 15 kg. La difesa ha affermato, altresì, che anche qualora il lavoratore fosse effettivamente rimasto infortunato nelle circostanze e secondo le modalità da lui descritte, le conseguenze dannose si dovevano comunque legare al fatto che lo stesso non doveva essere adibito a quel posto di lavoro perché a rischio in quanto portatore di una patologia pregressa e che quindi era risultato ininfluente l’aver dato l’incarico di alzare l’assale non dovendo in pratica il lavoratore trovarsi in quel posto di lavoro. Dell’infortunio in definitiva, secondo il ricorrente, doveva non rispondere lui ma il datore di lavoro.
Le considerazioni e le decisioni della Corte di Cassazione
Il ricorso è stato ritenuto dalla Corte di Cassazione infondato nella misura in cui il ricorrente, tramite la deduzione di vizi di legittimità, ha cercato di ottenere dalla Corte stessa una valutazione degli elementi di prova ulteriore e diversa rispetto a quella effettuata dai giudici di merito, operazione, quest’ultima, come è noto preclusa al giudice di legittimità salvo il caso in cui le argomentazioni impiegate nell’impugnata pronuncia risultino del tutto illogiche e contraddittorie il che non è ricorso, però, nel caso di specie.
Quanto alle osservazioni fatte dal ricorrente con riguardo al peso dell’assiale spostato, la suprema Corte ha fatto osservare che la Corte di appello ha fatto riferimento alla deposizione del teste dalla quale era emerso che gli assiali stessi spostati pesavano in media sui 40 kg per cui con tutta probabilità il pezzo effettivamente spostato era del peso di 60-70 kg, in quanto il lavoratore infortunato ha parlato di un grosso pezzo, cioè di peso superiore rispetto alla media dei pezzi normalmente movimentati. In ogni caso secondo le testimonianze degli altri dipendenti, il peso medio dei pezzi movimentati era di circa 40 kg e comunque anche partendo da tale valore il peso diviso per i due trasportatori superava la soglia di 15 kg che, secondo quanto stabilito dalla Commissione Medica, il lavoratore infortunato poteva trasportare. La difesa d’altro canto nell’affermare che gli assiali non pesavano in media 40 kg bensì 20-25 kg, peso che diviso per due non avrebbero superata la soglia consentita di 15 kg, non ha fornito prova di quanto sostenuto.
Al pari infondata è risultata essere, secondo la Sez. IV, la lamentela relativa all’individuazione del soggetto responsabile. La Corte di Appello, ha precisato in merito la stessa Sez. IV, contrariamente a quanto affermato dalla difesa, nel ritenere l’imputato responsabile dell’infortunio verificatesi ha fatto corretta applicazione della normativa in materia di sicurezza sul lavoro. Come è noto, ha sostenuto ancora la suprema Corte, tale normativa riconosce una specifica posizione di garanzia nei confronti del lavoratore in capo al preposto prevedendo infatti l'art. 1 comma 4 bis del D.lgs., allora vigente, che siano obbligati all’osservanza delle norme in tema di sicurezza anche i preposti nell’ambito delle proprie attribuzioni e competenze.
L’imputato, ha precisato la Sez. IV, rivestiva all’interno dell’azienda la carica di responsabile del settore ricambi e quindi egli era il responsabile del reparto ove il lavoratore svolgeva la propria attività, essendo lo stesso addetto alle etichettature dei ricambi, e come tale rivestiva una posizione sovraordinata rispetto allo stesso e rivestiva appunto di fatto la posizione di preposto. Di conseguenza, nel caso in esame, l’imputato avrebbe dovuto vigilare sulla movimentazione dei carichi manuali al fine di evitare o, comunque, ridurre il rischio di lesioni dorso lombari anche tenuto conto dei fattori individuali di rischio (così come previsto dall’art. 48 comma 4 lett. b del D. Lgs 626/94. Al contrario, invece, lo stesso ha chiesto al lavoratore di aiutare il collega a portare in magazzino “un pezzo grande”, cioè di peso probabilmente superiore ai 40 kg.
E’ risultata evidente quindi, ha proseguito la suprema Corte, l’omissione da parte dell’imputato delle cautele previste dalla legge, cautele che gli avrebbero imposto di non adibire il lavoratore a tale tipo di operazione e ciò anche in considerazione del fatto che lo stesso era stato assunto nella quota riservata agli affetti da disabilità e che, proprio per tale motivo, era stato destinato a mansioni di ufficio quali la etichettatura dei pezzi in magazzino. Del resto, ha fatto infine osservare la Sez. IV, la conclusione alla quale è pervenuta la Corte di Appello si è posta in linea con il costante orientamento della Corte di Cassazione secondo il quale “il preposto, titolare di una posizione di garanzia a tutela dell’incolumità dei lavoratori, risponde degli infortuni loro occorsi in violazione degli obblighi derivanti da detta posizione di garanzia purché, come nel caso di specie, sia titolare dei poteri necessari per impedire l’evento lesivo in concreto verificatosi”.
Tanto premesso la suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso ed in conseguenza ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali oltre alla somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Gerardo Porreca
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