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Sulla distinzione fra committente privato e committente professionale

Sulla distinzione fra committente privato e committente professionale
Gerardo Porreca

Autore: Gerardo Porreca

Categoria: Sentenze commentate

10/03/2025

Nei “lavori domestici” non si può pretendere dal committente una conoscenza, al pari di quello professionale, delle norme di prevenzione infortuni. Lo stesso è tenuto però a verificare l’idoneità e le capacità di chi deve intervenire a operare.

In premessa in questa sentenza la suprema Corte di Cassazione ha ritenuto di fare un excursus storico sulla responsabilità del committente in materia di salute e sicurezza dei lavori affidati in appalto o a prestazione d’opera, mettendo in evidenza come tale figura sia stata oggetto di una considerevole evoluzione della giurisprudenza di legittimità (diffusamente richiamata dalla sentenza n. 44131 del 02/11/2015 della stessa Sezione, pubblicata e commentata dallo scrivente nell’articolo “ La responsabilità del committente e l’eziologia dell’evento”, avendo essa trovato esplicito riconoscimento normativo solo con il D. Lgs. 14 agosto 1996, n. 494.

 

Per lungo tempo, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha escluso che il committente potesse rispondere delle inadempienze prevenzionistiche verificatesi nell'approntamento del cantiere e nell'esecuzione dei lavori, essendo poste tali violazioni a carico del datore di lavoro appaltatore. Una responsabilità concorrente del committente veniva ravvisata quando questi travalicava siffatto ruolo, assumendo in concreto una diversa posizione, mediante l'ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto del contratto ovvero nell'intromissione di fatto nell'esecuzione dell'opera, e ciò in ragione del principio di effettività, sempre sotteso alla materia di cui si tratta; soltanto con il D. Lgs. n. 494/1996, il quadro giuridico è mutato.

 

La Corte di Cassazione ha avuto in questa circostanza l’occasione di chiarire quale fosse la distinzione tra la figura del committente privato e quella del committente professionale nel caso di appalti di natura per così dire "domestica". Già da tempo la giurisprudenza di legittimità ha distinto la posizione del committente professionale da quello privato, ritenendo che il committente privato, in quanto tale non professionale, che affidi in appalto lavori di manutenzione domestica, come avvenuto nel caso  in esame, non sia tenuto a conoscere, al pari di quello professionale, le singole disposizioni tecniche previste dalla normativa prevenzionale per evitare la verificazione di infortuni posto che ciò implicherebbe una formazione del cittadino comune non prevista dall'ordinamento, il quale esattamente la pretende dal datore di lavoro e dai soggetti dal medesimo designati o comunque dai soggetti professionalmente deputati ad assicurare la sicurezza in ambito lavorativo.

 

Il committente privato è invece tenuto a scegliere l'appaltatore e più in genere il soggetto al quale affidare l'incarico, accertando che lo stesso sia non soltanto munito dei titoli di idoneità prescritti dalla legge, ma anche della capacità tecnica e professionale, proporzionata al tipo astratto di attività commissionata ed alle concrete modalità di espletamento della stessa profilandosi una sua responsabilità penale quando vi sia prova che si sia ingerito nell'organizzazione o nell'esecuzione del lavoro o in presenza di un'agevole ed immediata percepibilità delle situazioni di pericolo. Nel caso in esame il committente aveva affidato l'incarico di demolizione di una ex casa colonica a una impresa la quale aveva subappaltato l'opera di demolizione delle mura ad altra impresa e l’infortunio aveva interessato un lavoratore dipendente di quest’ultima. Condannato il committente nei due primi gradi di giudizio lo stesso, presentato ricorso per cassazione, ha ottenuto dalla suprema Corte l’annullamento della sentenza in virtù delle considerazioni sopra esposte.



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Il fatto e l’iter giudiziario.

La Corte di Appello, parzialmente riformando in punto di pena, ha confermata nel resto la sentenza resa dal Tribunale nei confronti di un committente e di un responsabile dei  lavori nonché direttore de lavori, coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione e di esecuzione dallo stesso incaricato e li ha  condannati alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili, in favore delle quali il Tribunale aveva disposto il risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio civile e condannati a pagare una provvisionale immediatamente esecutiva.

 

Gli imputati erano stati ritenuti colpevoli del reato di cui all'art. 589, commi 1 e 2, cod. pen. perché il committente dei lavori di ristrutturazione di un rudere ex casa colonica, assieme al progettista, direttore dei lavori e coordinatore in fase di progettazione e di esecuzione dell'opera, per colpa generica e in violazione di norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, avevano cagionata la morte di un lavoratore il quale nel mentre era intento a demolire manualmente la muratura portante dell'anzidetto fabbricato (all'interno della quale erano stati posizionati dall’impresa esecutrice un ponteggio metallico ed una benna in cui dovevano essere scaricati i materiali di risulta), veniva travolto dal crollo del secondo solaio, sprofondando all'interno del fabbricato e rovinando al suolo sottostante, riportando gravi lesioni cranio encefaliche che ne avevano determinato l'immediato decesso.

 

Nel corso dei lavori il progetto iniziale aveva subito una radicale modifica volendo il committente destinare l’area del fabbricato, una volta demolito, a giardino recintato. Era stato accertato dal Tribunale che il CSE non aveva adeguato il Piano di Sicurezza e Coordinamento in seguito alla modifica degli interventi da svolgere sull'ex casa colonica, la quale neppure era stata comunicata al Comune. Era stato accertato inoltre che il Piano Operativo di Sicurezza dell’impresa non aveva previsto un'apposita sezione dedicata alle demolizioni, né che venissero puntellate le pareti perimetrali dello stabile in questione; che il committente non aveva verificato che la documentazione fosse stata adeguata al mutamento dell'opera e inoltre che non aveva nominato, ai sensi dell'art. 6, comma 20, D. Lgs. 14 agosto, n. 494, un responsabile dei lavori che vigilasse sul l'operato del coordinatore per l'esecuzione. La Corte di appello aveva reputato che la mancanza di un Piano di Sicurezza e Coordinamento, nonché l'assenza di banchinaggi, ponteggi, imbracature di sicurezza e cinture di posizionamento avessero avuto innegabile efficienza causale nella determinazione della morte del lavoratore.

 

Il ricorso per cassazione e le motivazioni.

Avverso la sentenza di appello hanno ricorso gli imputati, a mezzo dei rispettivi difensori. La difesa del committente con un primo motivo ha contestato, sotto il duplice profilo dell'erronea applicazione di legge e del vizio di motivazione, che non vi fosse stata da parte del committente la nomina del responsabile dei lavori. Sul punto, la difesa ha evidenziata la illogicità e la contraddittorietà della motivazione, in considerazione del fatto che entrambe le sentenze di merito avevano qualificato il coordinatore per la progettazione come responsabile dei lavori; lo stesso, infatti, era un responsabile complessivo dei lavori a fronte di un mandato omnicomprensivo, che trovava ragione nel fatto che il committente, oltre ad essere del tutto incompetente in materia, era sempre fuori sede. Lo stesso comportamento successivo alla accettazione dell'incarico, peraltro, avrebbe dimostrato il ruolo attivo di responsabile dei lavori svolto dal coordinatore.

 

Come altro motivo la difesa ha contestata la rappresentazione dell'imputato come volto solo a risparmiare, a fare "in fretta", evitando le "pastoie burocratiche". Ha precisato altresì che un PSC esisteva, considerato che, diversamente da quanto ha assunto la sentenza impugnata, il capo di imputazione si riferisse ad un mancato aggiornamento, non alla sua inesistenza né vi è alcuna fonte dichiarativa diretta circa una qualche ingerenza dell'imputato nei lavori in corso.

 

Come ultimo motivo, infine, la difesa del committente ha dedotto manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione con riguardo al nesso eziologico evidenziando che l’imputato aveva nominato un responsabile dei lavori e che, a valle, esisteva una serie di figure professionali competenti; il difensore ha affermato che il committente poteva quindi fare legittimamente affidamento sul tecnico cui avesse conferito un incarico totale.

 

Il ricorso del coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione è stato fondato su alcune motivazioni fra cui la sua ritenuta responsabilità colposa per avere omesso di verificare la congruità del POS; lo stesso infatti non era a conoscenza dell'inizio dei lavori. La Corte territoriale non avrebbe considerato che lo stesso fosse stato chiamato a svolgere un ruolo di alta vigilanza, riguardante la generale configurazione delle lavorazioni e non la puntuale e stringente vigilanza demandata ad altre figure operative. La difesa ha inoltre escluso  la prevedibilità da parte del ricorrente dell'evento, sostenendo che esso non sarebbe stato evitabile, atteso che non fossero sussistite ragioni per credere che un'eventuale disposizione di sospensione dei lavori, ordinata dall'imputato, sarebbe stata effettivamente osservata, con efficacia impeditiva dell'evento.

 

Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.

Il ricorso del committente è stato ritenuto fondato dalla Corte di Cassazione che ha invece dichiarato inammissibile il ricorso del coordinatore. La figura del committente, ha sostenuto la suprema Corte è stata oggetto, come è noto, di una considerevole evoluzione della giurisprudenza di legittimità (diffusamente richiamata dalla sentenza n. 44131 del 02/11/2015 della stessa Sezione), avendo essa trovato esplicito riconoscimento normativo solo con il D. Lgs. 14 agosto 1996, n. 494. Per lungo tempo, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha escluso che il committente potesse rispondere delle inadempienze prevenzionistiche verificatesi nell'approntamento del cantiere e nell'esecuzione dei lavori, ponendo tali violazioni a carico del datore di lavoro appaltatore. Una responsabilità concorrente del committente veniva ravvisata quando questi travalicava siffatto ruolo, assumendo in concreto una diversa posizione, mediante l'ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto del contratto ovvero nell'intromissione di fatto nell'esecuzione dell'opera, e ciò in ragione del principio di effettività, sempre sotteso alla materia di cui si tratta. Soltanto con il D. Lgs. 494/1996, il quadro giuridico è mutato, trovando la figura del committente espressa definizione (art., 2, co. 1, lett. b)) ed esplicitazione gli obblighi sulla stessa gravanti (art. 3). A seguito di tale mutamento normativo, nella giurisprudenza di legittimità la responsabilità del committente è stata derivata dalla violazione di alcuni obblighi specifici (oggi previsti e precisati dall'art. 90, D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81), quali l'informazione sui rischi dell'ambiente di lavoro e la cooperazione nell'apprestamento delle misure di protezione e prevenzione, ritenendosi che resti ferma la responsabilità dell'appaltatore per l'inosservanza degli obblighi prevenzionali su di lui gravanti. Ribadito il dovere di sicurezza, con riguardo ai lavori svolti in esecuzione di un contratto di appalto o di prestazione d'opera, tanto in capo al datore di lavoro (di regola l'appaltatore, destinatario delle disposizioni antinfortunistiche) che del committente, si è anche richiamata la necessità che tale principio non conosca un'applicazione automatica, non potendo esigersi dal committente un controllo pressante, continuo e capillare sull'organizzazione e sull'andamento dei lavori. Ne consegue che, ai fini della configurazione della responsabilità del committente, "occorre verificare in concreto quale sia stata l'incidenza della sua condotta nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l'esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera, alla sua ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d'opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo".

 

Tanto premesso, il tema sottoposto al vaglio della Corte di Cassazione ha riguardato i limiti della posizione di garanzia del committente privato, tale pacificamente essendo il ruolo dell’imputato. Occorre mettere in rilevo a tal punto, ha sostenuto la suprema Corte, la distinzione tra la figura del committente e quella del proprietario nel caso di appalti di natura per così dire "domestica". La giurisprudenza, invero, ha distinti da tempo la posizione del committente professionale da quello privato ritenendo che il committente privato, in quanto tale non professionale, che affidi in appalto lavori di manutenzione domestica, come avvenuto nel caso di specie, non sia tenuto a conoscere, al pari di quello professionale, le singole disposizioni tecniche previste dalla normativa prevenzionale per evitare la verificazione di infortuni, derivandone, altrimenti, una paralisi dei lavori di manutenzione domestica, posto che ciò implicherebbe una formazione del cittadino comune non prevista dall'ordinamento, il quale esattamente la pretende dal datore di lavoro e dai soggetti dal medesimo designati o comunque dai soggetti professionalmente deputati ad assicurare la sicurezza in ambito lavorativo.

 

Il committente privato è invece tenuto a scegliere l'appaltatore e più in genere il soggetto al quale affida l'incarico, accertando che tale soggetto sia non soltanto munito dei titoli di idoneità prescritti dalla legge, ma anche della capacità tecnica e professionale, proporzionata al tipo astratto di attività commissionata ed alle concrete modalità di espletamento della stessa, profilandosi una sua responsabilità penale quando vi sia prova che si sia ingerito nell'organizzazione o nell'esecuzione del lavoro o in presenza di un'agevole ed immediata percepibilità delle situazioni di pericolo. Nel caso di specie, il committente aveva affidato l'incarico di demolizione dell'ex casa colonica unicamente a una impresa principale che  già aveva effettuato il restauro ed il risanamento conservativo degli stabili che componevano il complesso rurale (stalla e fienile). L'infortunio aveva coinvolto un dipendente di una ditta alla quale la prima aveva subappaltato l'opera di demolizione delle mura dell'ex casa colonica, perché già aveva operato per suo conto nella prima fase dei lavori, oltre che in precedenza su altri cantieri; dalla lettura delle sentenze di merito inoltre non si è saputo se il committente fosse stato informato dell'anzidetto subappalto.

 

Quanto al tema del responsabile dei lavori, sono le stesse sentenze di merito a ricordare che il committente, in ragione del fatto che era sprovvisto di competenze tecniche e che si trovava spesso fuori sede, aveva nominato quale responsabile dei lavori e coordinatore per la progettazione un geometra che da trentasei anni esercitava la sua professione e che possedeva le capacità tecniche e l'esperienza; era infatti la "figura professionale di riferimento" del committente, in relazione al cantiere in argomento. In quanto responsabile dei lavori, il geometra aveva provveduto, ai sensi dell'art. 3, comma 4, D. Lgs. 494/1996, a nominare il coordinatore per l'esecuzione. Lo stesso quindi esercitava di fatto le funzioni tipiche del responsabile dei lavori, in tutto e per tutto sostituendosi al committente.

 

In tema di infortuni sul lavoro, ha così proseguito la suprema Corte, la individuazione dei soggetti destinatari della relativa normativa deve essere operata sulla base dell'effettività e concretezza delle mansioni e dei ruoli svolti, conseguendone che il soggetto il quale, nell'interesse di altri, compia di fatto tutto quanto necessario per la esecuzione dei lavori, deve essere ritenuto il responsabile della inosservanza della normativa in materia e delle conseguenze che ne siano eventualmente derivate. Deve, peraltro, rilevarsi l'intima contraddizione esistente nella sentenza impugnata laddove, pur rilevando "la caratura professionale" del geometra ed affermando che questi avrebbe percepito "anche più agevolmente del committente la pletora di comportamenti incauti posti in essere dalla vittima”, aveva imputata al committente che ha riconosciuto non essersi ingerito nei lavori per mancanza di tempo e di competenze tecniche, la responsabilità dell'evento occorso.

 

Il ricorso del coordinatore invece è stato ritenuto inammissibile da parte della Corte di Cassazione. Il suo nucleo centrale è stato rappresentato dall'esclusione, da parte del ricorrente, di avere ricevuto o accettato alcun incarico avente ad oggetto la demolizione della casa colonica, sostenendo che il mandato conferitogli era esclusivamente circoscritto al restauro in via conservativa di tutti i fabbricati del compendio. I motivi di ricorso erano stati tutti volti a dimostrare che egli era all'oscuro della radicale modifica costituita dalla demolizione del rudere, la quale imponeva l'adeguamento del PSC, anche con l'aggiunta di un piano relativo alle demolizioni.

 

Le censure del ricorrente sono state ritenute manifestamente infondate e volte ad accreditare una ricostruzione alternativa della vicenda. Nella sentenza impugnata, ha precisato la Sezione IV, erano state illustrate adeguatamente tutte le numerose circostanze fattuali, prima tra queste l'incontro tenutosi presso lo studio professionale del coordinatore ove, lui presente, si era decisa la modifica del progetto originario. La Corte di Appello aveva osservato che non è apparso plausibile che il ricorrente ignorasse l’inizio delle attività nel cantiere e che, se davvero esso fosse stato contrario all’intervento edilizio di modifica, sarebbe dovuto intervenire per ribadire il suo dissenso o pretendere che non si procedesse senza prima aver adeguato il PSC.

 

Quanto infine all'asserita non prevedibilità in capo all'imputato dell'infortunio, la stessa Corte territoriale nella sentenza di appello aveva osservato che il PSC, relativo allo smantellamento dei muri perimetrali di un fabbricato antico, contemplasse specifiche cautele, volte ad impedire che i lavoratori della ditta chiamata a realizzarlo potessero essere vittime dei crolli delle pareti o che i pavimenti, se non puntellati, cedessero sotto il loro peso. L’addebito che gli era stato mosso era di non avere integrato il PSC con un piano per le demolizioni. Un piano conforme alla normativa sui ponteggi avrebbe senz'altro impedito che l’evento accadesse.

 

In conclusione, la Corte di Cassazione ha annullata la sentenza a carico del committente, con rinvio per nuovo giudizio, ad altra sezione della Corte di Appello cui ha altresì demandata la regolamentazione delle spese fra le parti relativamente al giudizio di legittimità mentre ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dal coordinatore con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di tremila euro in favore della Cassa delle Ammende, nonché alla rifusione delle spese di giudizio sostenute nel grado di legittimità dalle parti civili.

 

 

Gerardo Porreca

 

 

Corte di Cassazione Sezione IV penale - Sentenza n. 4409 del 4 febbraio 2025 (u. p. 9 ottobre 2024) -  Pres. Di Salvo  – Est. Dawan – PM Tampieri – Ric. A.A. e G.G..  - Nei “lavori domestici” non si può pretendere dal committente una conoscenza, al pari di quello professionale, delle norme di prevenzione infortuni. Lo stesso è tenuto però a verificare l’idoneità e le capacità di chi deve intervenire a operare.

 

 

 

 

 



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