Sul trattamento non autorizzato di rifiuti pericolosi e bombole di gas
Roma, 30 Nov – PuntoSicuro si è soffermato più volte in questi anni sui rischi lavorativi correlati all’utilizzo, alla movimentazione, alla revisione e allo smaltimento di bombole di gas e non mancano nella rubrica “ Imparare dagli errori” i racconti di esplosioni e infortuni in queste attività.
Riguardo a questo tema, anche con specifico riferimento alla gestione dei rifiuti pericolosi, presentiamo oggi la recente Sentenza della Cassazione Penale n. 18663 del 30 aprile 2018 relativa ad un infortunio mortale avvenuto durante le operazioni di trattamento, benché non autorizzate, di rifiuti pericolosi come bombole metalliche contenenti ossigeno.
L’infortunio mortale e le contestazioni
Nella pronuncia della Cassazione si indica che con sentenza del 2016 la Corte di appello di Bari - in parziale riforma di una precedente sentenza del giudice dell'udienza preliminare (GUP) del Tribunale di Foggia - ha riconosciuto “le attenuanti generiche e rideterminato la pena inflitta ad A.P. in anni due di reclusione, con pena sospesa, confermando nel resto la declaratoria di penale responsabilità dell'imputato in relazione all'omicidio colposo avvenuto il 6.7.2010 in danno del lavoratore D.C., dipendente dell'imputato”.
In particolare, si addebita ad A.P., come titolare della omonima impresa individuale, “di non aver impedito che i dipendenti F.F. e D.C. effettuassero operazioni di trattamento di rifiuti pericolosi consistiti in bombole metalliche contenenti ossigeno, sebbene l'impresa fosse autorizzata ad eseguire unicamente l'attività di messa in riserva finalizzata al recupero di rifiuti non pericolosi”.
E l’infortunio avveniva secondo le seguenti modalità: “il F.F., nell'eseguire l'operazione di svitamento della valvola di testa di una bombola di ossigeno, avvalendosi di un martello, provocava l'esplosione della bombola che veniva proiettata ad elevata velocità e colpiva il D.C., che si trovava poco distante intento al sezionamento di altra bombola metallica, provocandogli imponenti lesioni cranio-encefaliche che ne determinavano il decesso”.
I motivi del ricorso per cassazione
Sono tre i motivi presentati il difensore dell'imputato nel ricorso per cassazione.
Il primo riguarda la “violazione di legge e illogicità della motivazione in relazione all'accertamento della penale responsabilità dell'imputato”.
Si deduce che le argomentazioni della sentenza impugnata “mal si conciliano con gli elementi probatori acquisiti in fase processuale, non considerando l'imprevedibilità dell'evento sulla scorta della corretta applicazione del principio di affidamento. In tale prospettiva sottolinea come dal ‘documento di trasporto’ relativo alle bombole di ossigeno trattate dai due dipendenti si evinca che le stesse fossero state precedentemente bonificate, tanto da divenire materiale ferroso che ben avrebbe potuto essere lavorato per la messa in riserva dei rifiuti in questione”. E l'illogicità motivazionale della sentenza dipende dall’attribuzione di attendibilità a dichiarazioni del teste N., “secondo cui le bombole alienate all'imputato non erano state bonificate e al momento di consegna delle stesse la bolla di accompagnamento non era stata compilata”.
Si rileva poi – sempre a parere del ricorrente - che dal compendio probatorio “manchi la prova certa che l'attività di sezionamento delle bombole, eseguita impropriamente con un cannello ossiacetilenico e con un rudimentale martello, fossero state effettivamente disposte dal datore di lavoro. Al riguardo segnala come il D.C. svolgesse la sola attività di messa in riserva del materiale ed il F.F. la funzione di autista, e che risulta accertato che quest'ultimo si sia adoperato nell'attività di smontaggio delle bombole a seguito di una espressa richiesta di ausilio proveniente (non dall'imputato ma) dal D.C.. Ritiene che si trattò di comportamenti del tutto avventati, esorbitanti dal procedimento di lavoro, compiuti con modalità del tutto anomale ed estranee ai normali schemi lavorativi, come tali interruttivi del nesso causale rispetto alla ritenuta condotta omissiva addebitata al A.P.”.
Gli altri due motivi del ricorso riguardano:
- mancanza di motivazione in ordine alla pena irrogata;
- violazione di legge nella determinazione della pena e nel computo del termine prescrizionale.
Le indicazioni della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione indica, innanzitutto, che il primo motivo “è inammissibile in quanto svolge censure non consentite in sede di legittimità e comunque manifestamente infondate”.
Si ricorda che per questo caso la Corte di appello “ha confermato il giudizio di primo grado in ordine alla responsabilità del prevenuto per il reato di omicidio colposo in contestazione. Ne deriva che ci si trova di fronte ad una cd. ‘doppia conforme’, nel senso che le motivazioni delle sentenze di primo e di secondo grado si integrano a vicenda, formando un unico percorso logico-argomentativo che, nel caso in esame, appare certamente congruo, logico e adeguato, oltre che giuridicamente corretto”.
E d’altronde, come spesso ripetuto dalla Cassazione in risposta a ricorsi, la cassazione non può rivalutare il compendio probatorio “in senso alternativo o diverso rispetto a quanto effettuato dai giudici di merito; lo scrutinio del giudice di legittimità è limitato a compiere una valutazione di adeguatezza logico-giuridica del percorso argomentativo adottato nella sentenza impugnata, e sotto questo profilo si ritiene che il provvedimento di cui si discute vada esente dalle critiche sollevate dall'imputato”.
Infatti il corpo motivazionale della sentenza impugnata analizza “in maniera esauriente, corretta e plausibile i fatti, la posizione di garanzia dell'imputato e le sue manchevolezze sul piano cautelare, con particolare riguardo alla pacifica mancanza di autorizzazione della ditta del A.P. in ordine al trattamento di bombole: la ditta del ricorrente era abilitata solo alla messa in riserva di materiale ferroso, e non poteva perciò ricevere nel proprio deposito bombole o comunque contenitori di gas compressi di qualsivoglia natura, trattandosi in ogni caso di rifiuti pericolosi che devono essere necessariamente trattati da ditte specializzate, che utilizzano specifici macchinari di cui la ditta dell'imputato non era dotata, nonché di personale con specifica formazione, nel caso pacificamente assente”.
E riguardo al nesso causale “la sentenza osserva, plausibilmente, che se le bombole non fossero state acquisite dalla ditta del prevenuto l'evento non si sarebbe verificato: i due dipendenti non erano dotati delle attrezzature necessarie per trattare le bombole, in quanto il taglio con la cesoia non garantiva dalla esposizione a rischio; il contesto lavorativo era tale da comportare l'uso di attrezzi inadeguati quali il martello ed il cannello; il A.P. era sul posto al momento dell'infortunio e non poteva essergli sfuggito il carico di bombole, né risulta che abbia dato indicazioni adeguate al personale per il loro trattamento. In definitiva, la tenuta logico-giuridica delle argomentazioni addotte dai giudici di merito per affermare la responsabilità colposa del ricorrente in ordine all'evento in disamina le rende insindacabili nella presente sede di legittimità”.
Rimandando alla lettura integrale della sentenza, ci soffermiamo brevemente sulla risposta altri due motivi.
Anche il secondo motivo, come argomentato dalla Corte, “è inammissibile, siccome manifestamente infondato”.
È invece fondato il terzo motivo di doglianza, “dovendosi sicuramente ritenere, alla luce dei fatti accertati e delle violazioni riscontrate, che le contravvenzioni di cui ai capi 2 e 3 di rubrica siano state commesse in epoca coeva all'infortunio sul lavoro in disamina, avvenuto nel luglio del 2010”.
Pertanto – continua la Corte – “essendo certamente decorso il termine prescrizionale massimo di cinque anni, e non ricorrendo i presupposti per un proscioglimento nel merito ai sensi dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen., non potendosi constatare con evidenza dagli atti l'insussistenza dei fatti-reato in questione, gli stessi vanno dichiarati estinti per prescrizione, con conseguente annullamento in parte qua della sentenza impugnata, anche con riferimento alla relativa pena, come determinata a titolo di continuazione, di mesi 2 e giorni 20 di reclusione, che va eliminata”.
In definitiva la Corte di Cassazione annulla senza rinvio la sentenza impugnata “limitatamente alle contravvenzioni di cui ai capi 2 e 3 perché estinte per prescrizione ed elimina la relativa pena come determinata a titolo di continuazione di mesi 2 e giorni 20 di reclusione”. E dichiara il ricorso “inammissibile nel resto”.
Tiziano Menduto
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