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Sugli elementi necessari per stabilire l’esistenza di mobbing
Commento a cura di G. Porreca.
Sono stati indicati dalla Corte di Cassazione in questa breve sentenza degli elementi la cui presenza è indispensabile affinché si individui l’esistenza di un comportamento mobbizzante da parte del datore di lavoro. Alla domanda da parte di un lavoratore di riconoscere la presenza di tale comportamento mobbizzante legato in particolare ad uno svuotamento delle mansioni allo stesso affidate la Corte suprema ha risposto facendo presente che il mobbing presuppone l’esistenza di una serie di atti vessatori collegati al fine dell’emarginazione di un soggetto passivo e che quindi non è sufficiente per stabilire la sua presenza la prospettazione di un mero svuotamento di mansioni in quanto occorre invece una preordinazione all’emarginazione stessa.
Il caso e l’iter giudiziario
La Corte di Appello, confermando la sentenza di primo grado, ha rigettata la domanda di un lavoratore proposta nei confronti del Comune di cui era dipendente, avente ad oggetto la declaratoria dell'illegittimità della revoca dell'incarico di responsabile di sezione con conseguente sua reintegrazione nel posto precedentemente occupato e condanna di controparte al risarcimento dei danni.
La stessa Corte di Appello aveva innanzitutto ritenuto inammissibile, perché nuova, la domanda diretta ad ottenere l'ordine di cessazione delle attività vessatorie e mobbizzanti in quanto essa non trovava riscontro nel ricorso introduttivo del giudizio. Relativamente poi alla assunta dequalificazione professionale, conseguente alla allegata privazione di qualsiasi incarico a seguito della revoca della funzione di responsabile di sezione, la stessa Corte aveva rilevato che il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare che gli incarichi erano rimasti "sulla carta" e non avevano avuto esecuzione e che egli era rimasto inoperoso. Secondo la Corte territoriale il ricorrente, al contrario, non aveva assolto a tale onere in quanto la prova articolata non verteva su fatti specifici e rilevanti a quel fine, ma anzi comportava l'espressione da parte dei testimoni di inammissibili valutazioni circa il contenuto meramente formale degli incarichi. Né la Corte del merito ha ritenuto che gli incarichi assegnati al ricorrente non fossero corrispondenti alla professionalità propria della categoria d'inquadramento.
Avverso la sentenza della Corte di Appello il lavoratore ha ricorso in cassazione contro il quale il Comune ha presentato un controricorso.
Le decisioni della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore ponendo in evidenza in particolare che “il ricorrente non tiene conto che secondo la Corte del merito il mobbing presuppone l'esistenza, e, quindi, l'allegazione di una serie di atti vessatori teologicamente collegati al fine dell'emarginazione del soggetto passivo”. “E proprio con riferimento a tale ricostruzione del mobbing”, ha proseguito la suprema Corte, “ ritiene che manca nel ricorso di primo grado, qualsiasi allegazione di tal genere e che, pertanto, la relativa domanda - rectius causa petendi - è nuova”.” In altri termini”, ha concluso la Corte di Cassazione, “per la Corte del merito non è sufficiente la prospettazione di un mero ‘svuotamento delle mansioni’, occorrendo, ai fini della deduzione del mobbing, anche l'allegazione di una preordinazione finalizzata all'emarginazione del dipendente”.
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Rispondi Autore: Francesco Ferrante - likes: 0 | 10/06/2013 (07:31:29) |
Trovo la sentenza della Cassazione un altro tassello per impedire ai lavoratori i far valere i propri diritti. In questo modo , se il demansionamento ingiustificato, o meglio giustificato , da parte delle aziende con motivazioni inesistenti, non è sufficiente per rilevare il mobbing, il lavoratore cosa deve dimostrare di più?? se un lavoratore oltre al demansionamento, si ritrova da circa due anni e mezzo a non ricevere direttive dall'azienda per la quale lavora, ed è costretto ad inventarsi il lavopro tutti i giorno della settimana, Questo cosa è?? |
Rispondi Autore: Giuseppe Scalzo - likes: 0 | 12/06/2013 (16:16:58) |
Ho trovato la sentenza della Corte di Cassazione veramente azzeccata e concordo pienamente in quanto non basta un semplice provvedimento del datore di lavoro o di un superiore a giustificare la presenza di mobbing. Il mobbing è spesso invocato a sproposito e ancora spesso subìto in silenzio: doveva rappresentare una ulteriore difesa del lavoratore e invece in moltissimi casi si è trasformato in una vendetta e/o ripicca contro il datore di lavoro o il superiore odiato. Ma quali sono veramente le cause del mobbing: il termine “mobbing” deriva dall’inglese “to mob” che significa letteralmente assediare, attaccare. In Italiano più semplicemente si può parlare di mobbing quando vengono messe in atto una serie di pratiche vessatorie e persecutorie contro un soggetto da parte del datore di lavoro o di un superiore. Si può parlare però di mobbing quando vengono ad essere configurati nei confronti di un lavoratore una moltitudine di comportamenti protratti nel tempo e tendenti a: • Emarginazione del soggetto con comportamenti prevaricatori e persecutori; • Declassamento delle mansioni come conseguenza di una presunta incapacità del soggetto a portare a buon fine le attività prima affidate; • Affidare compiti esuberanti le capacità del soggetto e quindi e facendo notare allo stesso a ad altri la sua incapacità con conseguente mortificazione morale ed effetto lesivo della sua personalità; Ma contrariamente a quanto si crede il mobbing può essere effettuato anche dai lavoratori nei confronti del “capo” quando gli stessi si coalizzano con ripetuti attacchi di ribellione non sorretti da idonee argomentazioni . Si deve però convenire che questa ultima problematica è molto meno frequente della prima. Per quanto attiene la tipologia della condotta atta a concretizzare il mobbing vi sono svariate forme tra le quali: • Rimproveri verbali non giustificati anche davanti ad altri soggetti e quindi a scopo di umiliazione; • Offese sul modo di lavorare o di vestire e peggio sulle sue tendenze (politiche, sessuali, etc); • Critiche sul modo di condurre la sua famiglia o sul tempo libero esasperando alcune eventuali debolezze di cui si è venuti casualmente a conoscenza; • Sovraccarico di lavoro con continue critiche, spostamento di mansioni, trasferimenti di sede; • Revoca di eventuali benefit aziendali goduti ( tablet, computer, cellulari etc); • Isolamento del lavoratore in locali con personale avente mansioni inferiori; Come si è sopra evidenziato deve quindi esistere un comportamento preciso e specifico tendente ad isolare il lavoratore, mortificarlo e perseguitarlo per essere considerato mobbing. La condotta mobbizzante si qualifica quindi essenzialmente dalle finalità persecutorie e discriminatorie degli atti effettuati ad esempio da un superiore con più comportamenti o anche da una somma di disposizioni e comportamenti che si inquadrano in un disegno specifico a danno di un lavoratore con conseguente emarginazione dal contesto lavorativo. Come si vede non si può assolutamente parlare di mobbing per uno spostamento di un lavoratore da una sede ad un’altra o per cambio di mansioni quando non si ravvisano altre condotte finalizzate a quanto sopra detto. Non basta quindi un semplice trasferimento di sede o un rimprovero isolato o un provvedimento disciplinare per dichiarare che si è in presenza di mobbing. Se cosi non fosse possiamo dire addio alla “disciplina” nei luoghi di lavoro dove vi sarebbe il caos assoluto. Benissimo ha fatto quindi la Cassazione con la sua decisione non ravvisando un comportamento persecutorio. Giuseppe Scalzo |