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La colpa soggettiva del DdL in caso di errate indicazioni fornite da saperi esperti

La colpa soggettiva del DdL in caso di errate indicazioni fornite da saperi esperti
Gerardo Porreca

Autore: Gerardo Porreca

Categoria: Sentenze commentate

29/04/2024

Affinché si possa escludere la colpa del datore di lavoro per errate indicazioni di saperi esperti sulla valutazione dei rischi e sulle modalità per prevenirli, è necessario che esse non siano verificabili tramite le sue competenze e l’ordinaria diligenza

Regolamenta questa sentenza della Corte di Cassazione in un certo qual senso il rapporto tra la figura del datore di lavoro e quella del RSPP, sia esso interno che esterno, e induce certamente il datore di lavoro stesso a prestare molta attenzione nello scegliere il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, chiamato a collaborare con lui nell’adempimento dell’obbligo indelegabile di valutare tutti i rischi della propria azienda, e nel valutare altresì attentamente le sue capacità tecniche e professionali nel suggerire le misure più idonee per l’eliminazione dei rischi o comunque per la loro riduzione al minimo.

 

Il caso di cui alla sentenza ha riguardato l’infortunio di un operaio, verificatosi all'interno di uno stabilimento produttivo di manufatti in alluminio, che mentre era intento a raccogliere le impurità dell'alluminio in fusione all'interno di un forno utilizzando un mestolo metallico, al momento dell’immersione dello stesso nell'alluminio fuso a 700 gradi, è stato colpito da una violenti schizzi di metallo fuso che gli hanno provocato ustioni al volto, all'addome ed agli arti inferiori con conseguente malattia durata 55 giorni. Condannato il datore di lavoro nei due primi gradi di giudizio per non avere fornito al lavoratore idonei dispositivi di protezione personale, lo stesso è ricorso per cassazione sostenendo di avere fatto regolarmente la valutazione dei rischi e di avere elaborato il relativo DVR con la collaborazione di un tecnico esterno esperto in materia si salute e sicurezza sul lavoro.

 

Essendo però emerso dalle sentenze dei giudici di merito che gli indumenti e le protezioni utilizzate dal lavoratore erano risultate chiaramente non idonei a difesa dagli schizzi di metallo fuso ai quali il lavoratore era esposto e essendo stata rilevata un’errata valutazione da parte del tecnico esterno, la Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha richiamato il principio della giurisprudenza di legittimità secondo cui affinché possa escludersi la colpa soggettiva del datore di lavoro che si sia avvalso di ‘saperi esperti’ per la individuazione del rischi e delle modalità per prevenirli, è necessario che le indicazioni fornite da essi non siano verificabili dal datore di lavoro tramite le proprie competenze e la ordinaria diligenza. cosa che non è accaduto nel caso in esame per essere risultate del tutto vistosamente inidonee le protezioni personali destinate a proteggere il corpo del lavoratore.


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Il fatto, l’iter giudiziario, il ricorso per cassazione e le motivazioni.

La Corte di Appello, in parziale riforma della sentenza con cui il Tribunale, all'esito del dibattimento, ha riconosciuto il datore di lavoro di una azienda responsabile del reato di lesioni colpose, con violazione della disciplina antinfortunistica, condannandolo in conseguenza alla pena di giustizia, con le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla ritenuta aggravante, ha rideterminata la pena, riducendola, confermandola nel resto. La sentenza aveva riguardato un incidente sul lavoro verificatosi in uno stabilimento produttivo di manufatti in alluminio nel quale un operaio, mentre era intento a raccogliere le impurità dell'alluminio in fusione (c.d. "scorificazione") all'interno di un forno adoperando un mestolo metallico, era stato investito, al momento dell’immersione del mestolo nell'alluminio fuso a 700 gradi, da una violenta proiezione di schizzi di metallo fuso che lo ha colpito sul viso e sul corpo causandogli ustioni dì secondo grado alle mani e di primo grado al volto, all'addome ed agli arti inferiori con conseguente malattia della durata di 55 giorni.

 

Era stato ritenuto dai giudici di merito che le dotazioni lavorative di sicurezza fornite al lavoratore non fossero state adeguate indossando guanti in pelle con resistenza meccanica sì ma non al calore ed alti solo sino al polso, nonché grembiule e pantaloni della tuta in tessuto di cotone, anziché indumenti "alluminizzati", e ancora occhiali da lavoro, ma non già protezioni del viso e del capo quale una visiera con calotta. Era stata quindi conseguentemente riconosciuta la responsabilità del datore di lavoro in relazione alla violazione dell'art. 77, comma 3, del D. Lgs. 9 aprile 2008 n. 81 secondo il quale il datore di lavoro deve fornire al lavoratore i dispositivi di protezione individuale (acronimo: D.P.I.) conformi ai requisiti di cui all'art. 76 dello stesso D. Lgs., ossia adeguati ai rischi da prevenire e alle condizioni esistenti sul luogo di lavoro, mentre nel caso di specie ciò non era avvenuto, non indossando il lavoratore al momento dell'infortunio indumenti protettivi adeguati.

 

Era stato inoltre ritenuto non essere interruttiva del nesso causale la non idonea preparazione del mestolo da parte del lavoratore infortunato per non essere stato scaldato sufficientemente prima di essere immerso nel metallo fuso, onde eliminare ogni traccia di umidità dallo strumento, poiché la eventuale negligenza del lavoratore non esclude la responsabilità del datore di lavoro che non abbia posto in essere tutte le cautele necessarie a "governare" il rischio prodotto da una determinata lavorazione e anche dalla eventuale imprudenza del lavoratore.

 

Ciò posto, l’imputato è ricorso per la cassazione della sentenza, tramite difensore di fiducia, affidandosi a due motivi con i quali ha denunziato promiscuamente violazione di legge e vizio di motivazione. Lo stesso ha lamentato innanzitutto una violazione degli artt. 590 cod. pen., 77, comma 3, del D. Lgs. n. 81 del 2008, travisamento della prova e manifesta illogicità della motivazione ed inoltre violazione dell'art. 192 cod. proc. pen. ed inversione del corretto ragionamento logico probatorio rilevante nel riconoscere i presupposti di attribuzione dell'evento tipico della colpa in capo all'imputato.

 

La difesa dell’imputato ha sostenuto in particolare che dalla motivazione della sentenza non era stato ricavato in alcun modo la certezza che l’imputato potesse essere a conoscenza che il tipo di dispositivi individuali di protezione concretamente utilizzati in azienda non fosse adeguato a proteggere il lavoratore per l'evenienza di schizzi di alluminio fuso: ha sottolineato infatti che dall'istruttoria era emerso che l’imputato stesso si era avvalso di un ingegnere esterno all'azienda per elaborare il DVR e che la valutazione del rischio era stata aggiornata pochi mesi prima dell'infortunio.

 

Ad avviso della difesa, quindi, dall'istruttoria sarebbe emerso che i dispositivi forniti sarebbero stati, in realtà, idonei rispetto al rischio presente in azienda e anche rispetto all'eventuale contatto con il metallo fuso, che i guanti del tipo di quelli indossati dalla persona offesa in effetti proteggevano dal calore per un breve lasso di tempo e che da anni in azienda si operava con quel tipo di protezioni senza che fosse mai accaduto alcun infortunio. Ha osservato, inoltre, che abiti altamente protettivi e l’uso del casco avrebbero potuto limitare i movimenti dell'operaio e, non essendo traspiranti, avrebbero potuto provocare la eccessiva sudorazione del lavoratore, già esposto al calore, specialmente d'estate, e persino lo svenimento. Secondo la difesa quindi le precauzioni per la sicurezza erano state scrupolosamente osservate nell'azienda e la inidoneità dei dispositivi di protezione individuale era stata individuata soltanto ex post.

 

Ha ribadito ancora la difesa che il datore di lavoro aveva fatto affidamento sulle determinazioni tecniche del documento di valutazione del rischio da poco aggiornato, e sulla circostanza della esperienza, protratta negli anni, del lavoro in azienda proprio con quel tipo di protezioni per cui era mancata la prova che l'imputato conoscesse o potesse essere a conoscenza della inadeguatezza dei dispositivi rispetto al rischio "schizzi di alluminio bollente". La stessa, in conclusione, ha chiesto l'annullamento della sentenza perché il fatto non costituisce reato.

 

Con il secondo motivo la difesa del ricorrente ha censurata la violazione degli artt. 133 cod. pen. e 53 e 58 della legge 24 novembre 1918, n. 689, e, nel contempo, una manifesta illogicità della motivazione rispetto all'esame della censura di immotivata applicazione da parte del Tribunale della pena detentiva in luogo della sanzione pecuniaria, chiedendo anche per questa motivazione l'annullamento della sentenza impugnata.

 

Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.

Con riferimento al primo motivo, sull'an della responsabilità, la Corte di Cassazione ha osservato come il ricorso è stato in larga parte costruito in fatto su prospettazioni meramente avversative, contrapponendo alla doppia conforme una diversa lettura ed una alternativa interpretazione delle fonti di prova, trascurando tra l’altro che nella sentenza del Tribunale era stato scritto che proprio il responsabile del servizio di prevenzione e protezione aveva precisato che era necessario che l'operaio indossasse una tuta integrale ed ignifuga, che ne proteggesse il corpo dal contatto con il materiale incandescente, oltre ai guanti, esprimendo poi la propria, squisitamente soggettiva, opinione che i guanti in concreto indossati nell'occasione potevano andare bene, se vi fosse stato un contatto con il calore della durata di molte ore e che d'estate la tuta integrale avrebbe potuto creare problemi di sudorazione, di cadute e persino di svenimento mentre i giudici avevano sostenuto non illogicamente che guanti alti sino al gomito avrebbero più efficacemente protetto il corpo del lavoratore e che quando è accaduto l’infortunio si era ancora in primavera.

 

Con riferimento quindi a quanto appena detto e sostenuto dalla difesa, la Corte suprema ha ritenuto di fare alcune precisazioni e di richiamare in merito un principio di diritto già affermato dalla stessa Corte secondo il quale la redazione del documento di valutazione dei rischi e persino la previsione e l'adozione di misure di prevenzione non precludono il giudizio di responsabilità quando, per un errore nell'analisi dei rischi o nella identificazione delle misure adeguate, non sia stata adottata idonea misura di prevenzione. L'applicazione poi del principio di colpevolezza, ha aggiunto la suprema Corte, esclude qualsivoglia automatico addebito di responsabilità a carico di chi ricopre la posizione di garante del rischio, imponendo la verifica in concreto della violazione da parte di tale soggetto di regole cautelari (generiche o specifiche) e della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare mirava a prevenire. L'individualizzazione della responsabilità penale impone, infatti, di verificare non soltanto se la condotta abbia concorso a determinare l'evento (ciò che si risolve nell'accertamento della sussistenza del nesso causale) e se la condotta sia stata caratterizzata dalla violazione di una regola cautelare (generica o specifica) (ciò che si risolve nell'accertamento dell'elemento oggettivo della colpa), ma anche se l'autore della stessa potesse prevedere ex ante quello specifico sviluppo causale ed attivarsi per evitarlo.

 

E’ in quest'ottica, secondo la suprema Corte, che i giudici di merito hanno ritenuto che la pericolosità dell'area in cui si era verificato l'infortunio fosse evidente e che fosse prevedibile che nel corso della distaffatura una parte della pesante struttura potesse cadere verso l'esterno attraverso l'unico segmento non protetto del perimetro del forno, richiedendosi al datore di lavoro una, esigibile, condotta alternativa consistente nel delimitare la zona di lavorazione mediante una struttura priva di soluzioni di continuità e nell'assicurare il tubo di colata con un sistema idoneo a impedire che scivolasse al suolo. Secondo la Corte di Cassazione quindi la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di tali principi, giacché, dopo aver chiaramente delineato la posizione di garanzia del datore di lavoro, tenuto per essere tale al rispetto di una serie di regole cautelari specifiche inerenti al rischio di caduta di oggetti e alla correlata pericolosità di determinate aree afferenti la lavorazione, ha individuato nella completa delimitazione dell'area di lavorazione, oltre che nell'approntamento di un sicuro metodo di aggancio del tubo di colata, il comportamento alternativo corretto che sarebbe stato esigibile, così fornendo con valutazione ex ante una motivazione coerente e logica all'affermata causalità della colpa non censurabile in sede di legittimità.

 

Si tratta di una puntualizzazione importante, ha sottolineato ancora la suprema Corte, che merita di essere ribadita, in quanto valorizza il principio di colpevolezza in un'ipotesi in cui, come nel caso in esame, è indiscutibile la colpevolezza in senso oggettivo ma è contestata dalla difesa la colpevolezza in senso soggettivo, essendosi l'imputato avvalso di un esperto per la individuazione dei rischi e degli strumenti idonei a prevenire l'occasione. La Corte di Cassazione ha comunque sottolineato in merito che “affinché possa escludersi la colpa soggettiva del datore di lavoro che si sia avvalso di ‘saperi esperti’ per la individuazione del rischio e delle modalità per prevenirlo, è necessario che l'informazione fornita dal tecnico non sia verificabile dal datore di lavoro tramite le proprie competenze e la ordinaria diligenza“, intendendosi in giurisprudenza per “saperi esperti”, si aggiunge, quel complesso di conoscenze e competenze tecniche specialistiche, acquisite attraverso anni di esperienza, formazione e studio, che consentono di valutare e gestire i rischi lavorativi in modo adeguato e conforme alle normative vigenti.

 

Nel caso in esame, in conclusione, l’informativa fornita dal tecnico esterno era assolutamente verificabile, avendo gli stessi giudici di merito ritenuti evidentemente inidonei gli indumenti e le protezioni utilizzate dal lavoratore a propria difesa rispetto al rischio al quale era stato esposto, per cui il datore di lavoro sarebbe dovuto intervenire a sopperire all’errore fatto dal RSPP nell’analisi e nella valutazione dei rischi nonché nella scelta delle misure di protezione da utilizzare.

 

Quanto al secondo motivo con il quale la difesa del ricorrente ha censurata la mancata sostituzione della pena detentiva (un mese di reclusione) in sanzione pecuniaria, la suprema Corte ha evidenziato che nella sentenza impugnata si è rinvenuta una idonea spiegazione del perché della decisione giudiziale, incentrata sulla gravità dei fatto, sulla reiterazione della pericolosa condotta anche dopo il verificarsi dell'infortunio in questione e sulla impossibilità di attingere alla incensuratezza ed al buon comportamento processuale, già valutati per il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

 

A seguito del rigetto del ricorso è discesa quindi la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali (art. 616 cod. proc. pen.).

 

 

 

Gerardo Porreca

 

 

Corte di Cassazione Sezione IV penale - Sentenza n. 15406 del 15 aprile 2024 (u. p. 20 dicembre 2023) -  Pres. Dovere  – Est. Cenci – Ric. omissis.  - Affinché si possa escludere la colpa del datore di lavoro per errate indicazioni di ‘saperi esperti’ sulla valutazione dei rischi e sulle modalità per prevenirli, è necessario che esse non siano verificabili tramite le sue competenze e l‘ordinaria diligenza.




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