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La “colpa di organizzazione” per individuare la responsabilità amministrativa

La “colpa di organizzazione” per individuare la responsabilità amministrativa
Gerardo Porreca

Autore: Gerardo Porreca

Categoria: Sentenze commentate

20/02/2023

Per sancire la responsabilità amministrativa di un ente ex d. Lgs. 231/2001 per un reato presupposto in materia di salute e sicurezza sul lavoro occorre configurare una “colpa di organizzazione” e approfondire sul concreto assetto dallo stesso adottato.

E’ sempre più pressante l’intervento della Corte di Cassazione a proposito della responsabilità amministrativa delle imprese nel settore della sicurezza sul lavoro. La stessa interessata per decidere su di un ricorso presentato da una società condannata nei due primi gradi di giudizio per un illecito amministrativo di cui agli artt. 5 e 25 septies del D. Lgs. 8 giugno 2001 n. 231 in relazione alle lesioni colpose patite da un dipendente della società stessa a seguito della violazione delle norme poste a tutela della sicurezza sul lavoro, ha colto l’occasione di effettuare una generale ricostruzione dell'evoluzione giurisprudenziale relativa all'applicabilità del D. Lgs. n. 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti, con particolare riferimento ai reati colposi.

 

La suprema Corte ha ricordato innanzitutto che la responsabilità penale degli enti, tradizionalmente estranea al nostro ordinamento, è stata introdotta proprio dal D. Lgs. n. 231/2001 il quale ha previsto un sistema di responsabilità amministrativa dipendente da reato gravante direttamente sull'ente. Tale Decreto, ha così proseguito la suprema Corte, ha realizzata una flessione del tradizionale principio espresso dal brocardo “societas delinquere non potest”, in favore di una forma di responsabilità dell'ente del tutto autonoma, ma connessa e legata ad un illecito amministrativo che è dipeso dalla realizzazione di un reato a sua volta perpetrato da una persona fisica.

 

Richiedendo poi l'art. 5 del decreto stesso che la persona fisica abbia agito nell'interesse o a vantaggio dell'ente, la suprema Corte ha chiarito la distinzione esistente appunto fra l’interesse e il vantaggio affermando in particolare che l’interesse è un criterio soggettivo il quale rappresenta l’intento del reo, che può essere una figura apicale nella società o una figura da essa dipendente, di arrecare un beneficio all’ente mediante la commissione di un reato per cui è indagabile solamente ex ante ed è in tal caso del tutto irrilevante che si sia  o meno realizzato il profitto sperato, mentre il vantaggio è un criterio oggettivo legato alla effettiva realizzazione di un profitto in capo all’ente quale conseguenza della commissione del reato.

 

La responsabilità degli enti, ha precisato la suprema Corte, può dunque essere definita come una vera e propria responsabilità da “colpa di organizzazione”, caratterizzata dal malfunzionamento della struttura organizzativa dell'ente, la quale dovrebbe essere volta, mediante adeguati modelli, a prevenire la commissione di reati. Quanto alla natura, penale o amministrativa, della responsabilità ex Decreto 231/2001, la giurisprudenza ha ormai chiarito che si è in presenza di un “tertium genus” in quanto vengono coniugati i tratti dell'ordinamento penale e di quello amministrativo. In sintesi, ha meglio precisato la suprema Corte, la "colpa di organizzazione" assolve la stessa funzione che assume la colpa nel reato commesso dalla persona fisica.

 

Alla luce dei principi sopraindicati quindi, non avendo nel caso in esame la Corte territoriale   motivato sulla concreta configurabilità di una colpa di organizzazione dell'ente e non avendo approfondito l'aspetto relativo al concreto assetto organizzativo adottato dall'impresa in tema di prevenzione dei reati in materia di salute e sicurezza sul lavoro, ha annullata la sentenza impugnata rinviandola per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di provenienza.


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Il fatto, l’iter giudiziario, il ricorso per cassazione e le motivazioni.

La Corte d'Appello ha confermata la sentenza del Tribunale che, ritenuta provata la responsabilità di una società, aveva condannato la stessa alla sanzione amministrativa, pari a 200 quote dell'importo di euro 500 ciascuna, per una somma complessiva di 100.000 euro oltre le spese.

 

La società era stata tratta a giudizio per rispondere dell'illecito amministrativo di cui agli artt. 5 e 25 septies del D. Lgs. n. 231/2001 in relazione alle lesioni colpose patite da un dipendente della società stessa a seguito della violazione delle norme poste a tutela della sicurezza sul lavoro. Il sinistro, come ricostruito dai giudici di merito, era avvenuto in occasione di un'operazione di sostituzione di un nastro trasportatore finalizzato a fare confluire materiale per la fusione all'interno di un silos. La persona offesa era l'unico dei componenti di una squadra di quattro operai a trovarsi sulla sommità del silos. L'infortunio si era verificato a seguito del transito di un carroponte, alla cui guida si trovava un altro componente della squadra, che aveva provocato lo schiacciamento del capo della vittima contro uno spigolo della balaustra provocandogli lesioni gravissime, comportanti una invalidità permanente del 75%.

 

Avverso la sentenza ha proposto ricorso la società, a mezzo del suo difensore, formulando plurimi motivi di impugnazione. Con un primo motivo, in particolare, la stessa ha dedotto contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato presupposto e con un secondo motivo ha dedotto una violazione di legge e mancanza e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata in relazione alla sussistenza del requisito dell'interesse e del vantaggio ai sensi del D. Lgs. n. 231/2001. Con un terzo motivo inoltre ha censurato un vizio di motivazione, sotto il profilo del calcolo della sanzione amministrativa e dell'importo delle quote.

 

Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.

La Corte di Cassazione ha ritenuto opportuno procedere innanzitutto ad una generale ricostruzione dell'evoluzione giurisprudenziale relativa all'applicabilità del D. Lgs. n. 231/2001, con particolare riferimento ai reati colposi. La stessa ha osservato che la responsabilità penale degli enti, tradizionalmente estranea al nostro ordinamento, è stata introdotta dal D. Lgs. 8 giugno 2001 n. 231, il quale ha previsto un sistema di responsabilità amministrativa dipendente da reato gravante direttamente sull'ente. Il D. Lgs. n. 231/2001, ha così proseguito la suprema Corte, ha quindi realizzata una flessione del tradizionale principio espresso dal brocardo “societas delinquere non potest”, in favore di una forma di responsabilità dell'ente del tutto autonoma, ma connessa e legata ad un illecito amministrativo che è dipeso dalla realizzazione di un reato (sempre che esso rientri fra quelli previsti dal decreto) a sua volta perpetrato da una persona fisica.

 

Dal punto di vista oggettivo, ha così proseguito la suprema Corte, l'art. 5 del citato decreto richiede che la persona fisica abbia agito nell'interesse o a vantaggio dell'ente. Il medesimo articolo, inoltre, dal punto di vista soggettivo, ha richiesto la sussistenza di un rapporto fra la persona fisica e l'ente. In particolare, due possono essere i rapporti rilevanti uno, ex art. 5, c. 1 lett. a), secondo cui la persona fisica può trovarsi in posizione apicale all'interno dell'organizzazione dell'ente e l’altro, ex art. 5 c. 1 lett. b), secondo cui può essere sottoposta all'altrui direzione. La lettera a) tipizza il cosiddetto principio di identificazione, per il quale l'ente si identifica nel soggetto in posizione apicale e in tal caso è come, dunque, se avesse direttamente commesso il reato. È tuttavia previsto un contemperamento: l'ente non risponde se prova la sussistenza di tutti e quattro i criteri appositamente previsti dal successivo art. 6, comma 1, ossia l'esistenza e la corretta attuazione di modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire la commissione di reati della specie di quello verificatosi. Nel caso dei soggetti di cui alla lettera b), invece, ci si trova di fronte ad una vera e propria fattispecie colposa, prevista dall'art. 7 del Decreto, a norma del quale l'ente risponde se non ha rispettato i propri obblighi di direzione o di vigilanza, i quali fanno capo al modello di organizzazione, gestione e controllo previsto dal Decreto e considerato dai commi 2, 3 e 4 dello stesso articolo.

 

La responsabilità degli enti, ha precisato ancora la suprema Corte, può dunque essere definita come una vera e propria responsabilità da “ colpa di organizzazione”, caratterizzata dal malfunzionamento della struttura organizzativa dell'ente, la quale dovrebbe essere volta, mediante adeguati modelli, a prevenire la commissione di reati. Le Sezioni Unite hanno infatti affermato a riguardo che, in tema di responsabilità da reato degli enti, la “colpa di organizzazione”, da intendersi in senso normativo, è fondata sul rimprovero derivante dall'inottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli (Sez. Un., n. 38343 del 24 aprile 2014) Quanto alla natura, penale o amministrativa, della responsabilità ex decreto 231, la giurisprudenza ha ormai chiarito che si è in presenza di un “tertium genus” il quale, coniugando i tratti dell'ordinamento penale e di quello amministrativo, configura un sistema di responsabilità compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza.

 

Si è anche chiarita parimenti la natura autonoma della responsabilità dell'ente rispetto a quella penale della persona fisica che ponga in essere il reato presupposto. Ai sensi dell'art. 8 dello stesso decreto, rubricato per l'appunto "autonomia della responsabilità dell'ente", questa deve essere, infatti, affermata anche nel caso in cui l'autore del suddetto reato non sia stato identificato, non sia imputabile, ovvero il reato sia estinto per causa diversa dall'amnistia. Ciò significa che la responsabilità amministrativo­ penale da organizzazione prevista dal D. Lgs. n. 231/2001 investe direttamente l'ente, trovando nella commissione di un reato da parte della persona fisica il solo presupposto, ma non già l'intera sua concretizzazione. La “ colpa di organizzazione”, quindi, fonda una colpevolezza autonoma dell'ente, distinta anche se connessa rispetto a quella della persona fisica.

 

Non è comunque la commissione di qualsiasi reato che comporta la responsabilità dell'ente, ma solamente quella dei reati tassativamente e nominativamente previsti dalla Sezione III del Capo I (artt. 24 ss.) dello stesso Decreto Legislativo. Originariamente, i delitti colposi di omicidio e lesioni personali sul lavoro non facevano parte dell'elenco ma, successivamente, l'art. 9 comma 1 della legge 3 agosto 2007 n. 123 ha inserito nel Decreto l'art. 25-septies sull’omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, poi ulteriormente modificato, nell'attuale configurazione, dall'art. 300 del D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81. In questo modo, lo schema di responsabilità degli enti è stato esteso anche alla commissione dei delitti colposi contro la vita e l'incolumità personale.

 

Fin dall'introduzione dell'art. 25-septies dottrina e giurisprudenza si sono interrogate sulla compatibilità del modello di imputazione obiettiva previsto dall'art. 5 con il paradigma dei delitti colposi. Ci si è in particolare domandati come fosse possibile che potesse sussistere la responsabilità dell'ente in presenza di morte o lesioni colpose causate dalle persone fisiche previste dal Decreto se il criterio oggettivo indispensabile per ritenere la sussistenza di tale responsabilità è quello della commissione del reato nell'interesse o a vantaggio dell'ente. Per loro stessa natura, i reati colposi causalmente orientati, fondati sulla mancata volontà dell'evento lesivo, appaiono infatti radicalmente inconciliabili con l'idea stessa di interesse o vantaggio dell'ente. E' evidente, infatti, che nessun interesse o vantaggio può essere perseguito dalla persona fisica che si renda autrice di un delitto colposo, in cui l‘evento non soltanto è involontario, ma è anche assolutamente in contrasto, per sua stessa natura, con qualsivoglia interesse per l'ente. Dalla morte o dalle lesioni dei propri lavoratori, infatti, l'ente non ha assolutamente nulla da guadagnare, né sul piano economico, né su quello di immagine.

 

La giurisprudenza ha quindi elaborato un criterio di compatibilità che, in mancanza di una riformulazione del tessuto normativo in senso maggiormente conferente alle "esigenze" dei delitti colposi, ha permesso di ritenere operativo l’articolo 5. Si fa riferimento, come noto, al criterio per cui, nei delitti colposi, l'interesse o vantaggio per l‘ente, di cui all‘art. 5, non deve riferirsi alla commissione dell'evento del reato, ma deve riguardare unicamente la condotta. E chiaro, infatti, che un interesse per l‘ente può essere ottenuto dalla violazione delle norme antinfortunistiche solamente al momento della condotta ed al netto dell'evento, sub specie di risparmio di spesa o di accelerazione e massimizzazione della produzione. Valutando il comportamento del soggetto agente del reato, infatti, è al momento della condotta che si realizza quell'intento finalistico di procurare un vantaggio all'ente necessario a ritenere anche quest'ultimo responsabile, essendo l'evento» del reato non voluto.

 

Ulteriore nodo problematico del rapporto fra il D. Lgs. n. 231/2001 e i delitti colposi è rappresentato dal configurarsi dei criteri di "interesse" o "vantaggio" in relazione alla colpa. Occorre a tal punto ripercorrere al riguardo lo sviluppo giurisprudenziale relativo ai due parametri di imputazione obiettiva di cui all‘art. 5. Nonostante esistano teorie cosiddette unitarie, per cui interesse e vantaggio incarnerebbero sostanzialmente un unico criterio, trattandosi di tautologica ripetizione del medesimo concetto tramite due termini differenti, in giurisprudenza si è affermata la più corretta teoria per cui si tratterebbe, invece, di criteri diversi ed alternativi.

 

In merito a come devono essere intesi i criteri dell’interesse e del vantaggio in riferimento ai delitti colposi di cui all'art. 25-septies del D. Lgs. n. 231/2001 la Corte suprema ha fatto riferimento alla impostazione tracciata dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 38343 del 24 aprile 2014 sul caso ThyssenKrupp, secondo la quale  gli stessi sono alternativi e concorrenti tra di loro e devono essere riferiti alla condotta anziché all'evento, pertanto, ricorre il requisito dell'interesse qualora l'autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di conseguire un'utilità per l'ente, mentre sussiste il requisito del vantaggio qualora la persona fisica ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto.

 

L'interesse è un criterio soggettivo, ha chiarito in altre parole la suprema Corte, il quale rappresenta l'intento del reo di arrecare un beneficio all'ente mediante la commissione del reato per cui lo stesso è indagabile solamente ex ante ed è del tutto irrilevante che si sia o meno realizzato il profitto sperato. Egli, infatti, ripone la propria fiducia nella non verificazione dell'evento, ma, d'altra parte, è pienamente consapevole della violazione delle regole cautelari, e potrebbe porre in essere tale violazione proprio allo scopo, come spesso accade, di ottenere un risparmio di spesa. La volontà di risparmiare è dunque indispensabile affinché sussista l'interesse dell'ente. Diversamente deve ragionarsi con riferimento al vantaggio. Esso è criterio oggettivo, legato all'effettiva realizzazione di un profitto in capo all'ente quale conseguenza della commissione del reato. Per questo deve essere analizzato, a differenza dell'interesse, ex post. ed è allora che bisogna indagare se l'ente abbia ottenuto un vantaggio di carattere economico. Quanto, poi, alla consistenza del vantaggio, deve certamente trattarsi di importo non irrisorio, il cui concreto apprezzamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, che resta insindacabile ove congruamente ed adeguatamente motivata.

 

Sono state quindi le Sezioni Unite che hanno abbracciato tale impostazione, statuendo che, in tema di responsabilità da reato degli enti, i criteri di imputazione, rappresentati dal riferimento contenuto nell'art. 5 del D. Lgs. n. 231 del 2001 all"'interesse o al vantaggio", sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il criterio dell'interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre quello del vantaggio ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito.

 

Venendo quindi ai motivi di ricorso avanzati dalla ricorrente, il primo, riguardante il fatto che in appello sarebbero stati introdotti argomenti di colpa inediti e rispetto ai quali la società ricorrente mai si sarebbe potuta difendere (mancanza della puntuale osservanza delle prescrizioni del DVR e della vigilanza circa il rispetto delle modalità imposte per la sicurezza nel corso delle operazioni) è risultato inesistente, secondo la Corte suprema, mentre fondato si è appalesato invece il motivo di ricorso su cui la ricorrente aveva già formulato apposito motivo di appello essendo la Corte territoriale rimasta assolutamente silente sul punto, limitandosi ad affermare che la scelta di operare in orario notturno doveva ragionevolmente ritenersi dovuta alla determinazione di recare il minore intralcio possibile alla produzione, dunque essere rispondente all'interesse dell'impresa di ottimizzare la produzione, ancorché con compressione dei livelli di sicurezza dei dipendenti.

 

Nel caso in esame, quindi, ha evidenziato la Corte di Cassazione, la sentenza impugnata è apparsa assolutamente carente sulla scorta delle osservazioni sopraindicate. Nulla è stato detto infatti dalla Corte territoriale sulla cosiddetta "colpa di organizzazione", requisito che assolve la stessa funzione che la colpa assume nel reato commesso dalla persona fisica, quale elemento costitutivo del fatto tipico integrato dalla violazione ''colpevole" della regola cautelare. La colpa di organizzazione va comunque specificamente provata dall'accusa, mentre l'ente può dare dimostrazione dell'assenza di tale colpa.

 

La Corte territoriale, in conclusione, secondo la Cassazione, non ha motivato nel caso in esame sulla concreta configurabilità di una colpa di organizzazione dell'ente, non ha approfondito l'aspetto relativo al concreto assetto organizzativo adottato dall'impresa in tema di prevenzione dei reati in materia di salute e sicurezza sul lavoro né ha stabilito se tale elemento abbia avuto incidenza causale rispetto alla verificazione del reato presupposto per cui ha annullata la sentenza impugnata e rinviata la stessa per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di provenienza.

 

 

Gerardo Porreca

 

 

Corte di Cassazione Penale Sezione IV - Sentenza n. 39615 del 20 ottobre 2022 (u. p. 26 gennaio 2022) - Pres. Ciampi – Est. Ciampi – P.M. Perelli - Ric. Società SCM Group - Per sancire la responsabilità amministrativa di un ente ex d. Lgs. 231/2001 per un reato presupposto in materia di salute e sicurezza sul lavoro occorre configurare una “colpa di organizzazione” e approfondire sul concreto assetto dallo stesso adottato.




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