Gli obblighi di sicurezza di fabbricanti e fornitori delle attrezzature
Gli articoli 23 e 57 del D. Lgs. n. 81/2008, contenente il Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro, sono al centro di questa sentenza della Corte di Cassazione, l’articolo 23, che con il comma 1 ha disposto che “Sono vietati la fabbricazione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione individuali ed impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro”, e l’articolo 57 con il quale sono state fissate le penalità per gli inadempienti alle norme stesse.
Nel caso in esame la suprema Corte è stata chiamata a decidere sul ricorso presentato dal legale rappresentante di una società che, con le sentenze conformi dei due primi gradi di giudizio, era stato condannato alla pena dell’arresto di un mese e quindici giorni per il reato di cui al comma 1 del suddetto articolo 23, con riferimento alla concessione in uso di alcuni paranchi utilizzati per mantenere in quota una struttura di tralicci che a sua volta serviva per sostenere dei proiettori luminosi e sonori. L’imputato nel ricorso ha chiesto l’annullamento della sentenza sostenendo di non appartenere alla categoria dei fabbricanti né a quella dei fornitori, alle quali fa appunto riferimento l’articolo 23, e sostenendo inoltre che l’articolo 57 comunque non prevede una sanzione penale specifica per la concessione in uso di attrezzature di lavoro.
In verità, fin dall’entrata in vigore del D. Lgs. n. 81/2008 era stata già osservata una corrispondenza non piena fra quanto indicato nell’articolo 23 e la penalità fissata nell’articolo 57. Ora qui la suprema Corte ha trovato l’occasione per fornire in merito delle precisazioni che erano comunque intuibili a seguito di una attenta lettura delle norme stesse. Ai fini dell’applicazione degli obblighi di sicurezza, ha sostenuto la Corte di Cassazione infatti, per fabbricazione di una attrezzatura di lavoro, di un impianto o di un DPI si intende l’attività della loro creazione mentre per fornitura si intende una attività che comunque si intromette nella loro circolazione, quale può essere la vendita, il noleggio o la concessione in uso.
In definitiva quindi la Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso e lo ha pertanto rigettato accompagnando la sua decisione con la sottolineatura che quando la norma sanzionatoria parla di “fornitore” si riferisce all’evidenza a colui che “vende”, “noleggia” ovvero “concede in uso” un bene e nel caso in esame non si può dire certo che l’imputato non si sia quantomeno intromesso nella circolazione delle attrezzature di lavoro interessate.
Il caso, la condanna, il ricorso per cassazione e le motivazioni
La Corte di Appello ha confermata la sentenza del Tribunale in forza della quale il legale rappresentante di una società era stato condannato alla pena di un mese e quindici giorni di arresto per il reato di cui all'art. 23, comma 1, del D. Lgs. n. 81/2008. Avverso la decisione di condanna l’imputato ha proposto ricorso per cassazione avanzando alcune motivazioni.
Con un primo motivo il ricorrente ha lamentato una erronea applicazione della legge penale in relazione agli articoli 23 e 57 del D. Lgs. 81 del 2008. Il ricorrente, in particolare, ha osservato che la norma penale si indirizza solamente a fabbricanti e fornitori delle attrezzature, e che egli, con riferimento ai contestati paranchi, non rientrava in dette categorie e ha sostenuto inoltre che non era prevista alcuna sanzione penale per chi provvede a concederle in uso.
Il ricorrente, altresì, con riferimento alla contestazione della violazione dell’art. 23, ha messo in evidenza, con un secondo motivo, che tutti i paranchi erano dotati della marcatura CE con normale comportamento durante le prove di funzionamento e ha precisato ancora con un terzo motivo, in relazione alla correlazione tra accusa e sentenza, che gli era stata contestata, con una modificazione intervenuta su richiesta del Pubblico ministero, la concessione in uso di attrezzature di lavoro non rispondenti alla normativa in materia di sicurezza sul lavoro mentre l'imputazione originaria era riferita al fatto di averle adoperate. Comunque, ha aggiunto, non gli era stata mai contestata la produzione ovvero la fabbricazione che costituiscono la condotta penalmente rilevante.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione
Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione che ha confermata la correttezza della sentenza impugnata. Secondo l’art. 23, comma 1, infatti, ha sottolineato la stessa, è vietata la fabbricazione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, di dispositivi di protezione individuali e di impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro, e con l'art. 57, comma 2, è stata determinata la sanzione per i fabbricanti e i fornitori che violano il disposto dell'articolo 23.
Se la fabbricazione, ha sostenuto ancora la suprema Corte, indica l'attività di creazione delle attrezzature, dei dispositivi e degli impianti, la fornitura ricomprende genericamente l'attività di tutti coloro che si intromettono nella circolazione di tali beni, tant'è che l'art. 23 si occupa di "vendita", "noleggio" e di "concessione in uso", mentre la norma sanzionatoria si richiama genericamente al "fornitore", che all'evidenza è appunto colui che "vende", "noleggia" ovvero "concede in uso" il bene. E non vi è dubbio alcuno che, nel caso particolare, che il ricorrente si sia comunque quantomeno intromesso nella circolazione delle attrezzature.
Con l’imputazione, ha aggiunto la Sezione III, era stata contestata la "concessione in uso" di sei paranchi elettrici a catena, che svolgevano la funzione di sostenere in quota una struttura in tralicci metallici sulla quale erano installati a sua volta dei proiettori luminosi/sonori privi del marchio di conformità CE previsto dalla normativa vigente. L'attrezzatura, quindi, non era costituita, nel complesso, solamente dai paranchi ma essi, ancorché dotati di conformità, facevano invece parte di un complessivo impianto che, per le modalità realizzative, avrebbe dovuto essere sottoposto alle verifiche di legge, tant'è che, come era stato dato atto nella prima sentenza, l'originario produttore dei paranchi ne aveva inibito la messa in funzione nello stato in cui essi si trovavano, proprio in quanto si trattava di prodotti di per sé non pronti all'uso.
Alla luce dei rilievi sopraindicati, in definitiva, non si può dire, secondo la Sezione III, che nel caso particolare vi sia stata una lesione al diritto di difesa. Il principio di correlazione tra imputazione e sentenza, infatti, risulta violato quando nei fatti, rispettivamente descritti e ritenuti, non sia possibile individuare un nucleo comune, con la conseguenza che essi si pongono, tra loro, in rapporto di eterogeneità ed incompatibilità sostanziale, mettendo in condizioni l’imputato di non potersi difendere.
L’infondatezza in conclusione della motivazione di impugnazione, oltre che delle altre addotte, ha comportato quindi, secondo la Corte di Cassazione, il rigetto del ricorso con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Gerardo Porreca
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