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False dichiarazioni post infortunio e reati collegati: sentenze

False dichiarazioni post infortunio e reati collegati: sentenze
Anna Guardavilla

Autore: Anna Guardavilla

Categoria: Sentenze commentate

24/03/2022

Le costrizioni al lavoratore infortunato e ai colleghi perché dichiarino il falso al Pronto Soccorso e agli organi investigativi: le circostanze ricorrenti e i reati collegati (es. violenza, estorsione) nelle pronunce di Cassazione.

In questo contributo si esamina un particolare aspetto nell’ambito del complesso tema delle false dichiarazioni successive all’infortunio, ovvero quello delle dichiarazioni che sono il frutto di pressioni da parte del datore di lavoro dell’infortunato (rivolte a quest’ultimo o ad altri soggetti quali ad esempio gli altri lavoratori) mediante la commissione di condotte che sono qualificabili come reati.

 

Vediamone qualche esempio, come sempre senza pretese di esaustività.

Lavoratore in nero infortunatosi e pressioni da parte di due datori di lavoro a due dipendenti affinché dichiarino il falso agli organismi investigativi nel corso delle indagini: reato di “violenza o minaccia per costringere a commettere un reato” (art.611 c.p.)

Una sentenza di quest’anno ( Cassazione Penale, Sez.V, 24 gennaio 2022 n.2722) si è pronunciata sulle responsabilità di DP.P. e DP.R. “per il reato di cui all’art.110, 611 c.p. [“violenza o minaccia per costringere a commettere un reato”, n.d.r.] e 61 n.2 c.p. [circostanza aggravante costituita da  “l’aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato”, n.d.r.] perché, dopo che presso i locali della società A. di DP.P. & c. s.a.s. si era verificato un infortunio sul lavoro ai danni di L.G., costringevano S.A. (dipendente della società E. di DP. V., amministrata da DP.R.) e G.P. (dipendente della società A. come l’infortunato) a dichiarare falsamente in più occasioni alla p.g. che il L.G. non aveva mai prestato attività lavorativa per la società A di DP.P., e quindi a commettere il reato di favoreggiamento, questo perché il lavoratore infortunato svolgeva la sua attività “in nero”.”

 

Inoltre, “DP.P. era anche tratto a giudizio per il reato di cui all’art.590 c.p. [lesioni personali colpose, n.d.r.] per l’infortunio di cui era rimasto vittima il L.G., in quanto datore di lavoro di quest’ultimo.”

 

Sul piano del merito, “la Corte d’Appello riteneva del tutto attendibili le dichiarazioni della parte lesa L.G. e del S.A., del G.P. e degli altri testi, su cui si basava l’accusa.” Ciò “anche perché non si comprende che motivo avrebbero avuto i due di mentire per un episodio che non li avrebbe comunque visti indagati.”

 

Nel rigettare i ricorsi dei due imputati, la Cassazione ricorda come la Corte d’Appello abbia concluso “avvalorando l’ipotesi della minaccia preventiva, perché poi confermata in azienda al ritorno dall’ospedale. In sostanza, dalla sentenza si ricava che se all’arrivo in ospedale i due testi S.A. e g.p. non rivelarono la versione dell’incidente sul lavoro di propria iniziativa per timore di ritorsioni successive da parte del datore di lavoro DP., successivamente essi furono effettivamente contattati da quest’ultimo che chiese esplicitamente di non dichiarare agli inquirenti la verità.”

 

La Suprema Corte ha inoltre sottolineato una circostanza importante con riferimento al caso di specie, ovvero che “le false dichiarazioni poste in essere dai due testi, ed indotte dalla condotta contestata agli imputati, non consistono nell’avere dichiarato all’ospedale, nell’immediatezza, che le lesioni derivavano da un incidente (affermazione compiuta quando non vi è prova che i DP. avessero già parlato con S.A. e g.p.), ma averlo dichiarato ai CC ed agli altri organismi investigativi nel corso delle indagini, in più occasioni (alcune delle quali coperte anche dalla prescrizione dichiarata in giudizio), dopo avere parlato con i DP.”

 

In conclusione, “i due dipendenti, quindi, hanno riferito la pressione dei DP. alle dichiarazioni che hanno compiuto agli investigatori, che sono quelle contestate.”

 

Infatti “il capo di imputazione non contesta le dichiarazioni rese all’ospedale, quelle che sarebbero state compiute per “timore preventivo”, ma quelle ai CC, alla Asl ed alla polizia, che indagavano sull’incidente”, dal momento che “è vero che la prima falsa dichiarazione dei due testi ai sanitari dell’ospedale era tale a scopo preventivo, temendo il licenziamento, ma che, successivamente, la pressione dei DP. vi è stata effettivamente, ed è questa che ha determinato i due testi a mentire ancora ai CC, alla Asl ed alla pg, che sono le condotte contestate.”



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Lavoratore infortunato minacciato di licenziamento a meno che non dichiari al Pronto Soccorso di essersi procurato le lesioni in ambito domestico, “al fine di evitare problemi al cantiere” che non rispettava le norme antinfortunistiche: reato di estorsione

Con Cassazione Penale, Sez.II, 18 gennaio 2019 n.2217, la Corte ha confermato la responsabilità del ricorrente A.P. “in ordine al reato di estorsione ascrittogli al capo a) della imputazione, per avere costretto con minacce DB.A., dipendente della A. Costruzioni s.r.l., a dichiarare il falso ai sanitari del Pronto Soccorso presso il quale si era recato, sulle cause di un infortunio sul lavoro dallo stesso subito, al fine di evitare problemi al cantiere posto che non erano state osservate le norme antinfortunistiche secondo quanto emerso a proposito degli altri reati caduti in prescrizione.”

 

In particolare, nel caso specifico è “dalla lettura della sentenza di primo grado - nella quale […] sono trasfuse le dichiarazioni rese al dibattimento dalla persona offesa - che emerge chiaramente come il ricorrente, presente al Pronto Soccorso ove la vittima si era recata dopo l’incidente sul lavoro, avesse minacciato il DB.A. di licenziamento se non avesse dichiarato il falso e, cioè, di essersi procurato le lesioni in ambito domestico.”

 

Dunque, sotto il profilo giuridico, “l’esistenza della minaccia attraverso la raffigurazione di un male ingiusto costituito dal licenziamento, configura il reato estorsivo in tutti i suoi elementi costitutivi”.

 

Inoltre, “in ordine alla questione formale, che inerisce alla utilizzabilità delle dichiarazioni della vittima, deve sottolinearsi, alla luce della ricostruzione della vicenda fin qui svolta, che la persona offesa aveva reso le false dichiarazioni ai sanitari perché coartata nella sua volontà da un fatto illecito altrui - per l’appunto l’estorsione di cui si discute - sicché doveva escludersi, ora come al momento delle dichiarazioni rese in fase di indagini, che sussistesse in capo al dichiarante l’elemento soggettivo di dichiarare il falso per commettere un reato e, conseguentemente, che il  DB.A. potesse assumere la qualità di persona indagata al momento in cui aveva reso le prime dichiarazioni; qualità, peraltro, mai attribuitagli lungo il processo e neanche contestata dalla difesa al dibattimento.”

 

Ed “infine, la Corte di Appello, nel dichiarare la prescrizione del reato di lesioni colpose sub B), ha messo bene in luce come il racconto della persona offesa fosse stato riscontrato su ogni aspetto della vicenda relativa all’incidente sul lavoro, rendendo così credibili tutte le sue affermazioni; non bisognevoli, del resto, in quanto reputate intrinsecamente attendibili con giudizio privo di vizi logici, di riscontro esterno sullo specifico episodio estorsivo.” 

 

Pressioni da parte del datore di lavoro nei confronti di un dipendente (il fratello della vittima di un infortunio mortale, operante assieme a lui in cantiere), affinché riferisca al Pronto Soccorso una falsa causa delle lesioni

Con Cassazione Penale, Sez.IV, 15 maggio 2019 n.20813, la Corte ha confermato la condanna “ad anni 2 e mesi 6 di reclusione” inflitta al datore di lavoro R.Z. - quale appaltatore dei lavori di ampliamento di uno stabilimento industriale - per il reato di omicidio colposo con violazione di norme prevenzionistiche in danno del suo dipendente D.B. il quale, “incaricato di demolire parzialmente la parte superiore dell’apertura del vano ascensore con un martello pneumatico, ad un’altezza di circa 7,70 metri circa dal suolo, perdeva accidentalmente l’equilibrio e precipitava all’interno del vano procurandosi lesioni che ne cagionavano due giorni dopo la morte.”

 

I giudizi di merito avevano dimostrato che l’imputato R.Z. “esercitava mediante il capocantiere S.P. (soggetto solo formalmente autonomo ma in realtà alter ego dell’Imputato) un potere direttivo nei confronti di D.B. cui era stata ordinata quella specifica operazione in cui avrebbe poi trovato la morte.”

 

E “né può prospettarsi, secondo i Giudici del merito, che il D.B. avesse intrapreso quel lavoro “per gratuita deliberazione” come aveva tentato di accreditare il teste S.P.” Invece “la realtà era che D.B. si trovava a lavorare pienamente inserito nella compagine aziendale di E. G.S. [la ditta di cui R.Z. era datore di lavoro, n.d.r.] e ad eseguire i lavori che, di volta in volta, gli venivano ordinati nel contesto dell’attività oggetto dell’appalto affidato da M. s.p.a. alla appaltatrice.”

 

Ciò premesso, la Corte d’Appello “ricorda che D.R., fratello del lavoratore deceduto, era stato chiaro nel riferire che R.Z. accedette alle sue richieste di assumere il fratello D.B., afflitto da gravi problemi familiari, e di farlo lavorare in cantiere.”

 

In particolare, “secondo il D.R., infatti, fu proprio questa la ragione per la quale, ad infortunio appena avvenuto, l’imputato lo accusò di averlo messo nei guai e lo convinse a riferire al personale del pronto soccorso la falsa causa del sinistro.”

 

Su questo punto, “la sentenza impugnata risponde adeguatamente all’assunto difensivo per il quale D.B. era stato fatto entrare in cantiere dal fratello perché lo aiutasse nel suo lavoro di imprenditore subappaltatore: non si spiega allora perché non si trovasse a lavorare insieme allo stesso D.R. che non si trovava peraltro nella palazzina (ove si è verificato l’infortunio) ed era intento in altra attività.”

 

Peraltro in quel cantiere, nel quale operavano diversi soggetti (formalmente subappaltatori ma da ritenersi sostanzialmente lavoratori privi di autonomia, come evidenziato dalla sentenza), “la presenza di personale ausiliario di costoro non sarebbe certo passata inosservata a coloro, quali M.L., che fungevano da capisquadra per i distinti settori in cui i subappaltatori stessi operavano sotto le direttive di quegli stessi responsabili”.

 

Dunque, la sentenza d’appello “spiega le ragioni per cui non è verosimile che il D.R. avesse fatto entrare abusivamente il fratello in cantiere per consentirgli un pasto gratuito” ed “afferma poi che il racconto di D.R. circa la genesi della falsa causa delle lesioni da lui riferita al Pronto Soccorso su iniziativa dell’imputato assai bene si concilia con il comportamento da questi tenuto dopo l’infortunio.”

 

Il ricorrente “R.Z., infatti, invece di sollecitare l’intervento dei pubblici soccorritori che avrebbero potuto prestare tempestiva e competente assistenza all’infortunato non esitò a caricare il ferito, già in stato di incoscienza, sulla propria auto e a dirigersi all’ospedale lasciando però l’incombente del ricovero al fratello «così da poter lasciare spazio a un concordato occultamento delle reali cause del sinistro».”

 

Infine, secondo la Cassazione risulta congrua “altresì la motivazione laddove esclude, diversamente da quanto sostenuto dall’imputato, che D.R. sia spinto da un interesse economico: «se davvero fosse stata la brama di denaro a muovere D.R. , non si vede perché egli non abbia immediatamente dichiarato ai sanitari che il fratello era rimasto vittima di infortunio alle dipendenze di R.Z. preferendo, invece, nell’immediatezza, “salvare” il suo datore di lavoro che, come da lui riferito, comunque si era dimostrato disponibile nei confronti del fratello offrendogli quel lavoro di cui aveva bisogno».”

 

 

Anna Guardavilla

Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro

 

 

Corte di Cassazione Penale, Sez.V - Sentenza n. 2722 del 24 gennaio 2022 - Lavoro in nero e false dichiarazioni a seguito di infortunio sul lavoro

 

Corte di Cassazione Penale, Sez.II – Sentenza n. 2217 del 18 gennaio 2019 - Reato di estorsione del datore di lavoro che costringe il lavoratore infortunato a dichiarare il falso al Pronto Soccorso

 

Corte di Cassazione Penale, Sez.IV – Sentenza n. 20813 del 15 maggio 2019 - Caduta all'interno del vano ascensore in costruzione durante i lavori di demolizione. False dichiarazioni e posizioni di garanzia





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Rispondi Autore: Emanuela - likes: 0
27/10/2022 (14:53:30)
Ho perso il ricorso x malattia professionale perché il datore di lavoro ha testimoniato il falso all'inail mentendo sugli orari di lavoro e il lavoro svolto in questo albergo io facevo la cuoca ma quando serviva facevo anche la cameriera ai piani e lavoravo con un contratto intermittente ma anche in nero(ho sbagliato però chi lavora nella ristorazione sa che o lavori così oppure stai a casa) facevo dalle 8 ore alle 10 ore al giorno non tutti i giorni però erano sempre quelle 100/130 ore al mese e il datore di lavoro metteva 20/30 ore in busta paga e il restante li dava in nero (nemmeno i contributi mi ha versato) e quindi il datore di lavoro ha dichiarato che io lavoravo 3 ore al giorno non tutti i giorni quindi il ctu ha detto che la malattia c'è ma non è professionale perché il tempo lavorato non è sufficente perche' il datore di lavoro ha testimoniato il falso cosa si può fare?

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