Tecnologia e smart working: ne godiamo i benefici, ne subiamo gli effetti
L’inarrestabile avanzamento tecnologico ha indotto la società verso un utilizzo sempre più costante e generalizzato delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, senza lasciare escluso alcun ambito. La “rivoluzione digitale” ha interessato anche l’ambito lavorativo, nel quale sono emersi nuovi rischi, tra cui il tecnostress, Per quanto poco conosciuto e spesso sottovalutato, questo appare un fenomeno idoneo ad interessare un gran numero di lavoratori.
L’attuale situazione emergenziale ha portato infatti ad una “sperimentazione forzata” dello smart working, evoluzione del tradizionale concetto di lavoro che prevede modalità flessibili di svolgimento della prestazione lavorativa, attraverso l’allentamento del vincolo di presenza in una determinata sede di lavoro.
Perfetto, posso lavorare comodamente da casa organizzando il mio lavoro secondo i miei tempi!
Ed effettivamente, l’applicazione dello smart working (in italiano lavoro agile) può davvero essere un’opportunità di crescita, poiché molteplici ed evidenti sono i vantaggi che porta con sé: il lavoratore ha una maggiore libertà di organizzazione, sia riguardo ai tempi che riguardo al luogo in cui lavorare, favorendo anche una migliore conciliazione dei tempi di lavoro e dei tempi di vita, rappresenta una forma di lavoro inclusiva poiché aumenta le possibilità di impiego anche per quelle categorie di lavoratori con particolari esigenze di flessibilità oraria, permette all’impresa che lo applica una minore burocratizzazione e una riduzione dei costi, avendo sempre lavoratori reperibili e presenti grazie all’utilizzo di strumenti informatici. Tra i punti di forza dello smart working possiamo inoltre considerare aspetti non meno importanti quali la riduzione del traffico e dell’inquinamento, grazie ad un contenimento della mobilità urbana.
Il legislatore nazionale è intervenuto a regolare il lavoro agile con la L. n. 81 del 2017, la quale pone dei punti fermi, tra cui:
- la possibilità che la prestazione lavorativa sia svolta in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno, senza una postazione fissa entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale;
- la previsione secondo cui la prestazione lavorativa possa svolgersi attraverso l’uso di strumenti tecnologici e nel caso in cui sia il datore di lavoro ad assegnarli al lavoratore, egli rimane responsabile anche della loro sicurezza e del loro buon funzionamento;
- la previsione della stipula di un accordo scritto tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli, obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro.
La stipula dell’accordo, cuore della disciplina, è proprio quella parte a cui si sta derogando per far fronte all’emergenza COVID-19, permettendo così a moltissimi lavoratori di continuare a lavorare anche da casa.
L’improvvisazione e la “corsa allo smart working” hanno fatto sì che non sia stato possibile soffermarsi su quelli che sono i potenziali risvolti negativi: la reperibilità, ad esempio, comporta una richiesta di disponibilità h24 del lavoratore, che è sempre raggiungibile attraverso gli strumenti tecnologici; l’autonomia con cui il lavoratore svolge la propria prestazione lavorativa comporta un onere di organizzazione riguardo i tempi e la qualità della stessa che rischia di sfociare in frustrazione; e ancora, il distacco dal posto di lavoro potrebbe portare all’isolamento e alla mancanza di interazione tecnica e sociale con i colleghi. Oltre ai problemi suddetti potrebbe presentarsi il rischio di stress a causa di orari di lavoro eccessivi e sregolati.
Ecco che, oltre ai problemi muscolo-scheletrici e oculo-visivi tipici del lavoratore videoterminalista, lo smart worker si trova a dover fronteggiare anche problemi come il Tecnostress.
Il fenomeno fu identificato per la prima volta nel 1984 dallo psicologo americano C. Brod che lo definisce come un disturbo causato dall’incapacità di gestire le moderne tecnologie informatiche in una maniera sana. Dagli studi e dalle ricerche che da allora si sono susseguiti sul tema si può ricavare che il tecnostress è il disagio lavorativo derivante dall’uso scorretto degli apparecchi tecnologici c.d. tecnostressors. Sono tali tutti gli strumenti informatici che generano un flusso di informazioni, quindi computer, telefonini, smartphone, tablet, utilizzati per forme di comunicazione realizzate attraverso internet, mail, socialnetworks.
Riconoscere il rischio da Tecnostress non è oggettivamente agevole, poiché è idoneo ad essere confuso con altre patologie derivanti dal lavoro o perché i suoi sintomi vengono sottovalutati. Per prevenire e curare il Tecnostress è invece fondamentale capire che il malessere che si prova è direttamente collegato alle troppe ore passate davanti allo schermo. Nel 2007 affermata giurisprudenza ne ha riconosciuto l’obbligatorietà di valutazione e nel 2014 l’Inail le malattie professionale non tabellate, classificandolo come danno da costrittività organizzativa rientrante tra le malattie psichiche e psicosomatiche da disfunzione dell’organizzazione del lavoro.
Le cause del Tecnostress possono essere individuate nell’uso patologico degli strumenti informatici e di comunicazione e, in particolare:
- nell’information overload, la grossa mole di informazioni recepita quotidianamente dal lavoratore può sfociare in un sovraccarico informativo-cognitivo che rende difficile l’analisi e l’assimilazione delle informazioni ricevute e che ha come conseguenza diretta la riduzione della capacità di concentrazione. Il dover prestare attenzione ad un elevato numero di stimoli contemporaneamente spinge l’individuo ad analizzare superficialmente ciascuno di essi;
- nel multitasking, termine che riferito ad una persona lascia intendere la capacità di questa di svolgere e gestire più attività nello stesso momento. Abbandonata la convinzione secondo cui essere multitasking significa essere più efficienti, occorre rilevare come spostare l’attenzione da un’attività all’altra esponga, in realtà, ad un alto margine di errori e a problemi di ansia e di iperattività;
- nell’email addiction, disturbo che affligge chi controlla continuamente la sua casella di posta elettronica. L’abitudine ad una comunicazione immediata ci ha convinti che rispondere subito alle email ricevute sia sinonimo di essere produttivi ed efficienti;
- nell’internet, smartphone e tablet addiction, ossia fenomeni consistenti nell’uso eccessivo e compulsivo di tali strumenti, che presenta segni e sintomi paragonabili al gioco d’azzardo patologico;
- nella difficoltà di interfacciarsi con i nuovi strumenti tecnologici. Tale ultima causa interessa quei lavoratori che si sentono “sopraffatti” dalla tecnologia perché non riescono ad apprendere le modalità di funzionamento. La continua evoluzione degli strumenti, se non accompagnata da idonei programmi di formazione, non migliora l’interazione fra uomo e macchina, ma, al contrario, si pone come una causa di stress e di disagio.
Il sistema prevenzionistico del diritto del lavoro risulta essere caratterizzato da una forte dinamicità, dovuta a una continua crescita e un continuo rinnovo dei presidi posti a tutela della salute e della sicurezza. L’interdisciplinarietà della materia prevenzionistica offre al datore di lavoro varie alternative che egli può spendere per assicurare all’interno della propria organizzazione aziendale la riduzione dei rischi, focalizzando l’attenzione sul benessere dei lavoratori, nella loro dimensione di persone e non di meri strumenti.
Tra le tecniche di prevenzione utili a contrastare il rischio Tecnostress, fondamentale importanza assume la disciplina del diritto alla disconnessione, il quale si sostanzia nel diritto del lavoratore ad essere irreperibile, a “staccare la spina”, a non essere cioè soggetto a richieste e sollecitazioni per via telematica provenienti dal datore di lavoro al di fuori dell’orario lavorativo. Il potenziale mélange fra vita lavorativa e vita privata che può interessare lo smart worker impone che le parti segnino i confini delle loro prerogative, al fine principale di evitare che la legittima ingerenza del datore di lavoro nello svolgimento della prestazione lavorativa divenga occasione di ingerenza nella sfera personale del lavoratore. Il diritto alla disconnessione costituisce lo strumento tecnico con il quale rendere effettivo il rispetto del tetto massimo di durata dell’orario lavorativo; spegnere i dispositivi tecnologici sembra essere l’unico modo per ovviare all’indeterminatezza dell’orario di lavoro che caratterizza lo smart working.
Tra le discipline applicabili per prevenire il rischio Tecnostress vi è inoltre l’ergonomia, criterio guida nella predisposizione dell’ambiente di lavoro, che dovrebbe essere il più confortevole possibile per il lavoratore. Il suo scopo è quello di ridurre gli effetti stancanti del lavoro dovuti alla fatica fisica e mentale, intervenendo allo stesso tempo sui fattori di contesto che provocano stress, idonei ad avere delle conseguenze negative sul benessere dei lavoratori.
Non è trascurabile, nell’ottica della prevenzione, l’obbligo di formazione, informazione e addestramento che il d.lgs. n. 81 del 2008 pone a carico del datore di lavoro, configurando un sistema di partecipazione diffusa, in cui il lavoratore diviene protagonista della sicurezza nell’ambiente di lavoro. Allo sviluppo di nuovi rischi e di nuove tecniche di prevenzione deve quindi seguire una dinamica e speculare conoscenza da parte del lavoratore. Sono inoltre da considerarsi funzionali alla prevenzione del Tecnostress tutte quelle iniziative destinate ad implementare il benessere del lavoratore come pause digitali, programmi di rilassamento e di de-stress.
Allo stato attuale non esiste un metodo specifico e sistematico per la valutazione del rischio Tecnostress che sia adottato e riconosciuto a livello nazionale. Oggi più che mai sarebbe auspicabile l’elaborazione di linee guida e di protocolli socio-giurisprudenziali idonei ad individuare le aree di rischio al fine di concepire strumenti di prevenzione.
Il modo migliore per affrontare questa innovazione senza ritorno, evitando che abbia ricadute negative sul bene-salute del lavoratore, è quello di farsi trovare preparati. Le previsioni lasciano infatti intravedere che la diffusione dello smart working andrà sempre espandendosi divenendo, per molti lavoratori, la modalità ordinaria di svolgimento della loro prestazione lavorativa.
Nel frattempo, due soluzioni paiono prospettabili per vivere al meglio la rivoluzione tecnologia senza esserne sopraffatti: coglierne le opportunità e limitarne le conseguenze negative.
Dott.ssa Francesca Pasqua
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Rispondi Autore: CARMELO GIANNI' - likes: 0 | 13/05/2020 (15:29:43) |
Oggi, a causa di questa forzata quarantena molti imprenditori hanno capito che alcune attività possono essere tranquillamente svolta da remoto e stanno decidendo di continuare a farlo anche una volta ottenuto il via libera per riaprire le proprie attività. Questo comporterà inevitabili conseguenze, quali il mancato controllo sull'applicazione della normativa sulla sicurezza da parte di datori di lavoro, dirigenti e preposti; il minore traffico dovuto ai ridotti spostamenti e il minore utilizzo di ambienti di lavoro con reimmissione sul mercato di spazi resi disponibili. Volevo solo condividere una mia riflessione. |
Rispondi Autore: Marcello Porcedda - likes: 0 | 26/05/2020 (20:29:11) |
Lo SW è normato in modo ben chiaro e spessissimo corredato da contrattazioni di 2 livello inserite nei regolamenti del personale. Le Risorse aziendali sottoscrivono un documento dove si impegnano a seguire le direttive sanitarie anche a casa. il controllo dei preposti ecc in Italia è rarissimo già nelle aziende figuriamoci se è un problema in SW. Saluti |