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Dialogo sulla formazione alla sicurezza


Presentiamo un secondo dialogo pubblicato su  PdE, rivista di psicologia applicata all’emergenza, alla sicurezza e all’ambiente, che nasce da quello pubblicato nel numero 28 di PdE (marzo 2013) ed ha la finalità di fornire delle prime risposte ai problemi emersi. Qui il tema centrale è quello della formazione come percorso logico che permette ai responsabili della sicurezza di acquisire una serie di competente non tecniche o normative (fin troppo presenti nei programmi formativi di base). Si parlerà quindi dell’importanza delle competenze non tecniche nella formazione e della loro utilizzazione nel lavoro quotidiano.
I dialoganti:
Antonio Zuliani Psicologo psicoterapeuta, si occupa dell’applicazione della psicologia alla sicurezza e all’emergenza da più di 20 anni.
Emanuela Bellotto Medico specialista in medicina del lavoro, ha diretto il Servizio Prevenzione Igiene e Sicurezza negli Ambienti di Lavoro della Azienda Sanitaria di Vicenza per 14 anni; per 10 anni è stata responsabile del servizio Prevenzione e Protezione della stessa Azienda, contemporaneamente coordinatore dei Medici Competenti. Per 10 anni Direttore del Dipartimento di Prevenzione. Responsabile del Gruppo di lavoro che ha sviluppato il  modello di Gestione della sicurezza sul lavoro secondo il modello UNI INAIL per le Aziende Sanitarie del Veneto, attualmente già applicato in 7 Aziende ed in via di recepimento nelle rimanenti.

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DIALOGO SULLA FORMAZIONE ALLA SICUREZZA
 
Bellotto
Riprendiamo il dialogo svolto la volta precedente (PdE n. 28, marzo 2013). Abbiamo parlato dell’importanza di analizzare infortuni accaduti, incidenti, segnalazioni di malfunzionamenti del sistema per “ imparare dagli errori” e orientare le iniziative di prevenzione.
Nel ragionamento, abbiamo anche visto che quando è già intervenuto un evento con conseguenze negative sulle persone o sulle cose può essere più difficile farne oggetto di esame con spirito “libero”, senza trovarsi di fronte ostacoli significativi. L’esempio estremo è il caso in cui c’è stato un infortunio grave ad un operatore o ad un paziente, di grado tale da comportare indagini giudiziarie e/o profilare risarcimenti: in questo caso le difese personali diventano così alte che è difficile parlarne.
Incidenti e segnalazioni di malfunzionamenti possono dare maggiori opportunità di un esame sereno, ma nella pratica questo si verifica solo se si costruisce e si mantiene un clima adatto, che ad esempio incoraggia la segnalazione e ne dà sempre soddisfazione. Certamente non può essere un progetto di breve termine e credo che per riuscire a fare questo ci vogliano delle competenze specifiche, diverse da quelle tecniche, per essere capaci di lavorare sul piano umano, delle relazioni nella organizzazione ed altro ancora.
 
Un RSPP dovrebbe allora sviluppare le proprie competenze, anche oltre il piano tecnico.
Ancora un’osservazione.
Nella mia esperienza in ambito sanitario (non so se succede anche in altri tipi di aziende) per riuscire ad evitare errori del personale, sia verso i pazienti che in generale per i lavoratori, si ricorre spesso alla stesura di procedure. Le procedure in tal caso integrano le attività “produttive” con gli accorgimenti per la sicurezza: le chiamiamo procedure di “lavoro sicuro”. Si tratta di una misura importante: ricordo la classica definizione per cui la sicurezza deve essere assicurata con diverse misure “strutturali, tecniche, organizzative, procedurali”. L’esistenza di una procedura di “lavoro sicuro” può sollevare dalla responsabilità un Datore di Lavoro, un Dirigente.
Certamente stendere una procedura di questo genere è utilissimo per chi la fa, di solito un gruppo che si confronta, il quale riflette sulla modalità di svolgimento di un lavoro, considera i possibili rischi e sceglie le misure utili.
 
Ci sono 3 possibili problemi circa le procedure.
Uno è la moltiplicazione delle procedure, cioè l’illusione di poter coprire tutte le possibili attività di lavoro con questa tecnica. E in presenza di un lavoro complesso potremmo scrivere pagine e pagine!
Secondo: dove non c’è una procedura, il lavoratore è esonerato dalla responsabilità di aver cura di sé e degli altri? Potrebbe infatti profilarsi una nuova versione, più moderna, della concezione della sicurezza come “a prova di stupido”.
Altra osservazione: ma chi le legge tutte le procedure? Oppure, se anche le legge, il lavoratore le impara? E con il nuovo assunto, sono a posto se gli metto in mano il libro delle procedure e lo faccio firmare per ricevuta?
 
Non possiamo affidarci alle procedure come fossero “la” soluzione.
Voglio sottolineare che nella stesura della procedura il momento più importante è quello della riflessione comune sulla possibilità di operare in sicurezza, più che il file messo in intranet o il manuale prodotto. Ciò che segue perde di forza e di vitalità se non viene nuovamente introiettato dalle persone che la devono applicare.
Certamente ci sono lavori che presentano alta complessità, così come è chiaro che le persone devono saper affrontare gli imprevisti nel lavoro, garantendo la sicurezza per sé e per gli altri:
Per questo bisognerà sviluppare altre prospettive.
 
Zuliani
Ritengo anch’io che le procedure non siano in grado di azzerare il rischio, perché nessuna disposizione, per quanto dettagliata e specifica, potrà mai coprire ogni circostanza che il lavoratore si trova ad affrontare. Da questo punto di vista la sicurezza appare sempre di più come la capacità diffusa di gestire il rischio.
A tale scopo occorre sviluppare una serie di competenze non tecniche: il loro apprendimento può anche seguire un processo, uno sviluppo logico che ne enfatizzi l’efficacia:
- limiti ed errori nella percezione
- team work
- soluzione dei conflitti
- decision making
- comunicazione
- gestione dello stress
 
Vediamo ora questi punti con maggior dettaglio.
Questo percorso inizia con una formazione, quella sui limiti ed errori nella percezione, che permetta alle persone di aumentare la propria consapevolezza rispetto alle situazioni che incontrano. L'ambiente in cui si opera non è statico, ma in continua evoluzione. Occorre quindi sviluppare una consapevolezza di ciò, affinando la capacità di raccogliere le informazioni, di immagazzinarle nella memoria e di recuperarle nel modo migliore.
Come evidenziava Pagano (2013) il tema di avvio può essere centrato sulla considerazione del ruolo e dell’importanza che hanno le valutazioni “ingenue” che tutto il personale mette in atto di fronte alle situazioni incontrate e che spesso lo portano a commettere errori cognitivi anche significativi.
 
Qui non parlo di errori di giudizio, di disattenzione o distrazione determinati da fatti esterni, ma della presenza di vere e proprie “illusioni cognitive” che, senza una specifica colpa, ognuno utilizza mettendo in azione quelli che chiamiamo bias ed euristiche.
 
Bias e euristiche
Le euristiche sono stratagemmi mentali che sviluppiamo per risolvere problemi specifici. Sono delle vere e propri scorciatoie spesso utili, ma molte altre volte pericolose perché ci forniscono la convinzione di avere preso la decisione giusta e ci fanno insistere su di essa.
Un esempio di euristica efficace consiste nel fatto che riusciamo e distinguere un numero pari o dispari, indipendentemente dalla sua lunghezza, sulla base dell’ultima cifra della serie.
Il bias è invece una sorta di tunnel mentale strettamente legato ai meccanismi cognitivi che ci portiamo dentro.
Due buoni esempi in proposito sono l’arco di Saint Louis e le figura di Muller-Lyer.
 
 
 
Presentazione stilizzata dell’arco costruito a Saint Louis nel Missouri.
 
 
 
Sebbene possiamo misurare e vedere che l’arco è alto quanto largo e che le due linee sono della stessa lunghezza, la nostra percezione di suggerisce il contrario
 
 
 
Proprio perché si tratta di meccanismi dei quali siamo in parte consapevoli (vedi esempi nel riquadro) la formazione può accrescere questa conoscenza di noi stessi e metterci in guardia dall’utilizzo maldestro di questi meccanismi.
 
Evidentemente il modo migliore per superare i problemi nella limitatezza e negli errori legati alla percezione della realtà è quello di lavorare in gruppo. Ecco allora che la formazione al team work diviene centrale.
 
Il gruppo è il luogo in cui le persone si scambiano informazioni sui temi del lavoro o della presenza di un problema da risolvere. Lo fanno sulla base di ruoli e competenze sulle quali occorre possedere una chiarezza.
Questo lavoro di gruppo non è generico ma si inquadra nel profilo del team work perché le persone chiamate a farne parte vi giungono sulla base di ruoli e competenze lavorative e non per una scelta emotiva o personale.
Lavorare all'interno di un team work permette di imparare ad affrontare i conflitti che inevitabilmente si sviluppano all'interno di ogni gruppo di lavoro. Molto spesso si teme che il conflitto sia di per se stesso l'aspetto negativo. Ciò non è vero, perché la psicologia ci insegna che ogni evoluzione umana implica che vi sia un conflitto e che esso venga risolto positivamente. Ecco allora che diventa fondamentale la formazione alla soluzione dei conflitti, per imparare anche tutte le strategie utili in questa direzione.
 
Proprio questa visione positiva del conflitto aumenta il sostegno reciproco tra i membri del team work, che diventano più capaci di coordinarsi tra di loro e di produrre decisioni (Decision-Making).
A mio parere i processi di Decision-Making appresi nel lavoro di gruppo contribuiscono in modo significativo ad accrescere anche le competenze individuali, proprio perché si tratta di un processo che permette di formulare un giudizio, di fare delle scelte e di sviluppare azioni conseguenti. È del tutto evidente che all'interno di un team work si imparerà a inserire più punti di vista durante la ricognizione del problema e quindi ci si potrà più facilmente sottrarre alla trappola delle euristiche e dei bias cognitivi che, come è stato evidenziato nel numero precedente di PdE, sono alla base di molte rotture del sistema di sicurezza.
 
Quando si parla di Decision Making spesso si ritiene si tratti di un processo razionale, dove la ragione deve tenere a bada le emozioni ritenute un ostacolo sulla via delle corrette decisioni.
Le cose non stanno così e, come l'auriga di Platone, sta alla persona trarre il massimo risultato dal lavoro congiunto tra il "cavallo" della ragione e quello delle emozioni. Se l'auriga si facesse condurre da uno solo di questi "cavalli" la sua decisione perderebbe di efficacia. Anzi si può dire che senza emozioni non saremmo in grado di prendere decisioni, perché senza di esse la stessa ragione non esisterebbe. D'altra parte l'uomo ha delle capacità decisionali perché è l'animale più emotivo di tutti.
 
La formazione al Decision making deve aiutare la persona a riconoscere e valorizzare i processi emozionali che fungono da supporto al funzionamento cognitivo.
Inoltre occorre sviluppare la capacità di incorporare le lezioni del passato all'interno del processo decisionale attuale, confrontando, come sottolineerebbero i neuropsicologi, il sistema dopaminergico e i suoi schemi predittivi con la realtà. Perché se le emozioni sono essenziali per una buona decisione, spesso ci spingono ad appoggiarci a modelli inefficaci.
 
Lavorare all'interno di un gruppo mette anche in contatto con un ulteriore aspetto, cioè quello della leadership. La figura del leader non coincide automaticamente con quella del capo o della persona gerarchicamente ai vertici di un'organizzazione. In questi anni sono state sviluppate molte teorie sul leader e sugli stili di leadership, ciò che si vuole mettere in evidenza è che ci si può formare a diventare dei leader. Ci sono corsi che aiutano a sviluppare queste competenze e che aiutano la persona a comprendere come la propria leadership possa migliorare attraverso la ricezione dei numerosi feedback provenienti dai membri del proprio gruppo di lavoro.
 
Tutto quello che è stato fin qui detto passa attraverso lo strumento fondamentale della comunicazione. Negli anni le teorie della comunicazione hanno vissuto una significativa evoluzione partendo dal tradizionale schema emittente-ricevente, per arrivare ad implicare il feedback, fino a giungere negli ultimi anni a mettere sempre di più la relazione al centro della comunicazione. Anche in questo caso possono essere sviluppati strumenti formativi importanti.
 
Bellotto
Credo non si possa dimenticare di aiutare le persone che, affrontando compiti impegnativi e di responsabilità come quelli prospettati, possono andare incontro a fatica e subire stress.
 
Zuliani
Certo, ci si può preparare ad affrontare stress e fatica attraverso programmi che permettono a una persona di riconoscere e di agire positivamente sugli aspetti stressogeni del lavoro, di riconoscere i primi segni di affaticamento e di stress personale e di sviluppare strategie di auto aiuto per mantenere al livello più basso possibile le conseguenze dello stress.
A mio parere è molto più importante che la persona impari a sviluppare positivamente le proprie strategie di fronteggiamento dello stress piuttosto che sforzarsi di impararne altre che non appartengono al suo modo di affrontare le difficoltà della vita.
 
Bellotto
Hai delineato un percorso formativo articolato e interessante. Per quali figure delle realtà aziendali ti sembra possano essere utili?
 
Zuliani
Le prime figure a cui penso sono gli RSPP e gli ASPP, ma ritengo che a caduta anche i lavoratori possano fruire dei benefici dell'introduzione di questi temi nei loro percorsi formativi, senza dimenticare il ruolo dei dirigenti che in particola nell'area sanitaria hanno una funzione importante nella gestione della sicurezza e nella mitigazione degli errori.
Ritornando agli RSPP occorre ricordare che le disposizioni attuali, penso ad esempio all'Accordo Stato Regioni del 21 dicembre 2011 riducono la formazione ad aspetti prevalentemente tecnici e normativi. Un limite che sottolinea come gli aspetti che in queste due conversazioni abbiamo messo in luce (vedi n. 28 di PdE, ndr) non sono ancora del tutto acquisiti nel campo della sicurezza. Fortunatamente l'aggiornamento periodico degli RSPP e degli ASPP lascia ampio margine per introdurre queste nuove tematiche formative, cosa peraltro che siamo facendo in modo significativo come StudioZuliani.
 
Bellotto
A me viene in mente che in sanità, proprio perché la tutela della salute dell’operatore è importante vada di pari passo con la tutela della salute del paziente, il percorso indicato sarebbe vantaggioso anche per i soggetti che sono in genere incaricati della gestione di questo ultimo argomento, come Direzioni Mediche e Infermieristiche. Peraltro spesso abbiamo avuto figure di questo tipo quando abbiamo lavorato sui sistemi di gestione della sicurezza, e sono stati momenti molto proficui.
Io penso allora che bisogna immaginare un “luogo” dove chi lavora e chi è preposto ai temi della sicurezza si incontrino, ragionino sui rischi, sulle misure di prevenzione possibili. Un incontro dove i problemi su cui ragionare, se siamo in una azienda sanitaria o socio sanitaria, siano insieme quelli del lavoratore e del paziente. Appuntamenti periodici, efficaci, in cui esaminare le statistiche di infortuni, incidenti, errori clinici del periodo intercorso per far conoscere a tutti le misure di prevenzione prese, nonché le segnalazioni di malfunzionamenti raccolte (con una registrazione che attesti la serietà con cui vengono gestite) per guardare al futuro, ossia al miglioramento che può essere fatto.
 
Riunioni di Unità operativa o di Dipartimento? Dipende anche dalla dimensione, dalla presenza di figure che siano “dirigenti” ai sensi del D.Lgs. 81/2008. La partecipazione dei lavoratori deve essere portata al massimo, ad es. ripetendo gli incontri perché il lavoro è a turni. E dare continuità nel tempo: niente spot, ma una cadenza ragionevole, compatibile con la carenza di tempo che caratterizza tutte le realtà. Le competenze per far funzionare al meglio dei gruppi di lavoro così organizzati sono quelle che hai elencato, per mettere
insieme la conoscenza delle attività da parte di chi le pratica ogni giorno, le competenze in sicurezza del SPP, quella di una Direzione Sanitaria e/o Infermieristica in fatto di errore clinico. Saper gestire un gruppo così sarebbe proprio interessante.
 
 
 
 


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Rispondi Autore: harleysta - likes: 0
12/07/2013 (08:42:57)
...certo che parlare di euristica e bias al manovale o all'operaio, la vedo dura...
Rispondi Autore: Stefano Monelli - likes: 0
12/12/2015 (17:04:57)
Buonasera!
Chiedo gentilmente un Vostro parere circa il seguente fatto:
sul sito istituzionale della scuola secondaria superiore (I.T.I.) nella quale lavoro, nella pagina relativa alla " Sicurezza nei Luoghi di Lavoro" è riportata la seguente citazione " Il compito a cui dobbiamo lavorare, non è di arrivare alla sicurezza, ma di arrivare a tollerare l’insicurezza. Erich Fromm ".
Al di la delle interpretazioni che si possono dare ad una frase del genere, secondo voi, riterreste opportuno inserirla in un contesto nel quale operano circa 1.200 studenti-lavoratori con età compresa tra i 14 e i 18 anni?
Grazie per la disponibilità.

Stefano Monelli

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