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Sull’accertamento del nesso causale e le responsabilità del datore di lavoro

Sull’accertamento del nesso causale e le responsabilità del datore di lavoro

Autore: Carolina Avv. Valentino

Categoria: Datore di lavoro

21/07/2022

La presentazione di una recente sentenza della Cassazione. La morte del lavoratore avvenuta durante lo stato comatoso causato dall’infortunio non postula automaticamente la responsabilità del datore di lavoro. A cura dell’avv. Carolina Valentino.

 

 

Nella recente sentenza n. 15155 del 20 aprile 2022, la Suprema Corte di Cassazione ha ripreso il tema del nesso di causalità in un caso avente ad oggetto la morte di un lavoratore intervenuta dopo quattro anni che il medesimo versava in uno stato comatoso derivante da un infortunio sul lavoro.

 

Pur avendo constatato la responsabilità del datore di lavoro in relazione alle lesioni da cui era derivato lo stato vegetativo del lavoratore de quo, i Supremi Giudici affermano che tale circostanza non è ex se sufficiente a ritenere riconducibile alla responsabilità del datore altresì l’evento morte, sulla scorta di un mero automatismo, dovendosi, di contro, accertare che, nel caso concreto, non siano insorte patologie autonomamente idonee a causare il decesso.

In altre parole, la Suprema Corte afferma che, affinché possa pronunciarsi sentenza di condanna a carico del datore di lavoro per il reato più grave di omicidio colposo (in luogo del reato di lesioni colpose), occorre verificare che la condotta dal medesimo tenuta, violativa della normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro possa qualificarsi condicio sine qua non, ossia è necessario accertare che senza la condotta addebitata l’evento morte non si sarebbe verificato.


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Il fatto

La sentenza in commento veniva emessa nell’ambito di un procedimento scaturito dall’infortunio occorso ai danni di un lavoratore.

In merito alla dinamica dei fatti, emergeva dal materiale probatorio che, il giorno in cui avveniva l’infortunio, il lavoratore de quo era intento a scaricare, con l’aiuto di un muletto, delle casseforti da un TIR, agganciate ad una catena, in un’area portuale.

Per effetto del capovolgimento di una delle medesime, egli veniva travolto, riportando politraumi vari, trauma cervicale e toraco-addominale, dai quali derivava uno stato comatoso vegetativo permanente.

 

Dopo quattro anni dall’infortunio, periodo in cui il lavoratore aveva incessantemente versato in detto stato comatoso, interveniva il decesso del medesimo.

 

Nei giudizi di merito, l’amministratore della società [omissis], quale datore di lavoro della vittima, assolto dal reato di lesioni colpose, in quanto prescritto, veniva condannato per il reato di omicidio colposo per avere, con colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, nonché nella violazione della normativa antinfortunistica, cagionato la morte del lavoratore.

Più in dettaglio, i Giudici del merito avevano ritenuto che, essendo il decesso avvenuto durante lo stato vegetativo del lavoratore ed essendo stato, questo, cagionato da un infortunio sul lavoro, infortunio di cui era stato ritenuto responsabile il datore di lavoro per violazione della normativa antinfortunistica, non poteva che ravvisarsi il nesso causale tra il decesso e l’infortunio medesimo, con conseguente condanna del datore per il reato più grave di omicidio colposo (e non di lesioni colpose, come sarebbe avvenuto se il lavoratore non fosse deceduto).

Non si vuole, in questa sede, soffermarsi sulle condotte illecite contestate al datore di lavoro.

 

Basti, in questa sede, per fini di completezza, evidenziare come le norme della materia antinfortunistica ritenute, dall’accusa, violate dal datore di lavoro fossero le seguenti:

  1. art. 28, “Oggetto della valutazione dei rischi”;
  2. art. 70, “Requisiti di sicurezza”, in Titolo III, “Uso delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale”, Capo I, “Uso delle attrezzature di lavoro”;
  3.  art. 71, “Obblighi del datore di lavoro” (medesimo Titolo e Capo di cui al punto ii che precede);
  4. art. 109, “Recinzione del cantiere”.

 

Il ricorso in Cassazione del datore di lavoro

Ricorreva in Cassazione la difesa dell’imputato, sulla base – inter alia – del seguente motivo.

La difesa faceva valere vizio di motivazione in relazione alla ritenuta assoluta carenza del nesso causale tra le lesioni patite dal lavoratore a seguito dell’infortunio e l’evento morte, avvenuto quattro anni dopo.

 

In particolare, rilevava come i Giudici del merito avessero ritenuto il decesso conseguenza diretta delle lesioni, senza svolgere, come sarebbe stato opportuno, alcuna indagine medico-scientifica che potesse fondare l’indubbio collegamento tra l’infortunio ed il decesso, e, anzi, sostenendo, in maniera ritenuta del tutto contraria alle previsioni normative in materia di onere della prova, che fosse onere della difesa dimostrare l’estraneità dell’evento morte alle lesioni riportate dal lavoratore e, dunque, l’interruzione del nesso causale.

 

In altre parole, lungi dal ricollegare l’evento morte all’infortunio per il solo fatto di essersi, il primo, verificato durante lo stato vegetativo provocato dal secondo, avrebbero dovuto indagare quale fosse stata concretamente la causa della morte.

 

Difatti, sosteneva la difesa, la letteratura scientifica dimostra che, nel caso in cui un soggetto versi in stato comatoso, la morte può sopraggiungere per cause del tutto diverse rispetto a quelle che avevano originariamente causato lo stato vegetativo.

Trattavasi di una motivazione fondata su un mero ed irragionevole automatismo, posto che la condanna poteva scaturire esclusivamente dall’accertamento circa la colpa del datore di lavoro in relazione all’evento specifico, quale la morte del lavoratore.

 

La pronuncia della Cassazione

I Supremi Giudici ritengono che il ricorso vada accolto.

 

La questione verte sulla sussistenza o meno del nesso causale tra le violazioni ascritte all’imputato, che avevano cagionato le lesioni del lavoratore ed il conseguente stato comatoso del medesimo, e l’evento morte occorso quattro anni dopo.

 

La Suprema Corte evidenza come l’impugnata sentenza si sia limitata a fornire una ricostruzione analitica della dinamica dell’evento infortunistico, errando, tuttavia, nel limitarsi a constatare, sulla base di meri eventi fattuali, come, a seguito del sinistro, il lavoratore fosse rimasto in stato comatoso e che, quattro anni dopo, fosse intervenuto il decesso del medesimo, conseguentemente condannando il datore di lavoro.

 

Per dare soluzione al quesito posto con il ricorso, affermano ancora i Supremi Giudici, occorre affrontare il tema dell’imputazione causale dell’evento morte.

E, difatti, non essendo contestato che le lesioni che avevano cagionato lo stato vegetativo fossero scaturite dalle violazioni della normativa antinfortunistica addebitate al datore di lavoro, i Giudici del merito avrebbero dovuto, tuttavia, ulteriormente indagare se il decesso fosse scaturito dalle menzionate lesioni, ovvero se sia ipotizzabile che sia intervenuta una causa, ulteriore e diversa rispetto a dette lesioni, che possa aver cagionato autonomamente la morte del lavoratore.

 

Sul punto, non può che richiamarsi la celeberrima sentenza Franzese, SS.UU., n. 30328 del 10/7/2002, secondo la quale il nesso causale va ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica – si accerti che, ipotizzandosi come realizzata la condotta doverosa, l’evento non si sarebbe verificato.

A ciò aggiungendosi, nondimeno, che l’ipotesi accusatoria sulla sussistenza del nesso causale non può trovare automatica conferma solo sulla considerazione del coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze di fatto, […] esclusa l’interferenza di fattori eziologici alternativi di produzione dell’evento”.

Ma ancora.

Il riscontro della ricorrenza del nesso causale fra la condotta dell’imputato e l’evento deve, dunque, operarsi attraverso un doveroso giudizio controfattuale, ovverosia quell’operazione logica che, eliminando dalla realtà (contro i fatti) la condizione costituita da una determinata condotta umana, verifica se il fatto oggetto del giudizio sarebbe ugualmente accaduto, con la conseguenza che nell’ipotesi di indifferenza della condotta nella produzione dell’evento, deve escludersi che essa ne costituisca una causa, mentre, al contrario, laddove senza quella condotta l’evento non si sarebbe prodotto, essa è condizione causale dell’evento”.

 

Nel caso di specie, essendo indubbio che lo stato vegetativo della vittima fosse derivato dall’infortunio occorso e che questo fosse addebitabile al datore di lavoro, a parere dei Supremi Giudici, occorreva ulteriormente indagare, al fine di fondare la condanna per omicidio colposo, in luogo dell’ipotesi di lesioni colpose, se il decesso fosse da collegarsi causalmente al coma, ovvero se sussistano delle possibili cause alternative, che abbiano potuto innescare un rischio nuovo ed indipendente rispetto a quello attivato dalla condotta criminosa del datore di lavoro, che non consentono di ritenere la responsabilità di quest’ultimo oltre ogni ragionevole dubbio.

Ciò perché l’eventuale diversità dei rischi interrompe e separa la sfera di responsabilità del garante (datore di lavoro) dall’evento prodottosi, quando una qualunque circostanza – in questo caso l’eventuale instaurarsi di una patologia del tutto indipendente dalle lesioni riportate – radicalmente esorbitante rispetto al rischio che egli è chiamato a governare, inneschi una nuova ed autonoma serie causale”.

 

Afferma la Suprema Corte come i Giudici del merito abbiano del tutto pretermesso questo accertamento causale, fondamentale ed imprescindibile affinché possa ritenersi fondata l’impugnata sentenza, ritenendo, essi, di contro, in maniera del tutto destituita da qualsivoglia risultanza derivante da un’indagine medico-scientifica, che il decesso fosse da ricondursi allo stato vegetativo, omettendo in tal modo di verificare, come sarebbe stato doveroso, l’eventuale ricorrere di cause alternative atte a causare l’evento morte.

 

Peraltro, tale accertamento non può certamente incombere sull’imputato, al quale certamente non compete l’onere di dimostrare la sussistenza di una serie causale alternativa, essendo la prova del collegamento tra la condotta e la morte onere specifico dell’accusa.

 

Sulla scorta di tali argomentazioni, la Suprema Corte annulla la sentenza impugnata, con rinvio a nuovo giudizio.

 

 

Avv. Carolina Valentino

 

 

Scarica la sentenza di riferimento:

Corte di Cassazione Penale, Sezione IV - Sentenza n. 15155 del 20 aprile 2022 - Lavoratori travolti durante lo scarico delle casseformi da un T.I.R.. Morte intervenuta quattro anni dopo il sinistro: il datore di lavoro responsabile non risponde automaticamente del decesso.

 


 

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Rispondi Autore: Avv. Rolando Dubini - likes: 0
22/07/2022 (12:12:00)
Bel commento relativo ad una fattispecie che di tanto in tanto si ripropone, purtroppo.
Illuminante questo passaggio:
Pur avendo constatato la responsabilità del datore di lavoro in relazione alle lesioni da cui era derivato lo stato vegetativo del lavoratore de quo, i Supremi Giudici affermano che tale circostanza non è ex se sufficiente a ritenere riconducibile alla responsabilità del datore altresì l’evento morte, sulla scorta di un mero automatismo, dovendosi, di contro, accertare che, nel caso concreto, non siano insorte patologie autonomamente idonee a causare il decesso.
Rispondi Autore: Luca P. - likes: 0
01/08/2022 (15:27:52)
Non entro nel merito dei tecnicismi e delle responsabilità, vorrei però condividere come forse lo stato vegetativo dovrebbe essere considerato pari alla morte, ovvero molto più di una lesione grave o gravissima.

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