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Nomina del Coordinatore quando l’obbligo non sussiste ex lege

Nomina del Coordinatore quando l’obbligo non sussiste ex lege
Carmelo G. Catanoso

Autore: Carmelo G. Catanoso

Categoria: Coordinatori

16/03/2023

Una recente pronuncia della Cassazione penale riguardante la nomina del coordinatore della sicurezza quando tale obbligo non sussiste.

Uno degli argomenti più discussi in questi anni ha riguardato le figure dei coordinatori della Sicurezza per la Progettazione (CSP) e per l’Esecuzione (CSE) dell’opera e i loro profili di responsabilità nei procedimenti penali per infortunio sul lavoro.

 

È noto agli addetti ai lavori che la Cassazione Penale, a partire dal 2010, abbia compiuto una netta inversione di rotta definendo con chiarezza il perimetro della condotta penalmente esigibile da parte di questi soggetti ed, in particolare, del  CSE.


Nel seguito di questo contributo, varrà analizzata una recente pronuncia della Suprema Corte riguardante un infortunio sul lavoro e il ruolo di un coordinatore designato da un ente pubblico pur non essendo espressamente richiesto dalla legge non sussistendo la presenza, anche non contemporanea, di più imprese.

 

Nel novembre 2021 la Corte di appello di Torino aveva confermato la sentenza di I grado, poi appellata dagli imputati, con la quale il GUP del Tribunale di Cuneo, nel settembre 2018, con giudizio abbreviato, aveva riconosciuto un datore di lavoro e un coordinatore della sicurezza (CSP/CSE) responsabili, in cooperazione colposa (ex art. 113 cp), del reato di omicidio colposo, con violazione delle norme di prevenzione infortuni, per un evento avvenuto nel marzo 2015.

 

I fatti, ricostruiti dai Giudici di merito, avevano riguardato i lavori di realizzazione di una pista forestale da parte di un’impresa edile. Durante l’esecuzione dei lavori un dipendente dell’impresa, mentre stava procedendo con una motosega all'abbattimento di un'alta betulla, era stato colpito al capo (non si era riusciti ad accertare se nell'occasione fosse stato protetto da casco o meno) da un pesante ramo, che gli aveva provocato una grave frattura cranica tale da provocarne il decesso.

 

Il datore di lavoro era stato ritenuto responsabile per:

  • avere solo assai genericamente previsto nel piano operativo di sicurezza ( POS) il rischio di caduta di oggetti dall'alto, senza fare specifico riferimento alle evenienze che potevano accadere in un fitto bosco, quale, ad esempio, quella dell'albero che, cadendo, colpisse un altro albero;
  • per avere omesso di informare e di formare adeguatamente il lavoratore dipendente, anche tenuto conto che l’impresa era un'impresa edile, non un'impresa boschiva che, per la prima volta, si accingeva a tale tipo di attività, dato che la vittima, generalmente impiegata come autista, non aveva mai svolto in precedenza l'attività di taglialegna e
  • per non aver disposto efficaci misure per la verifica circa l'effettivo impiego dei dispositivi di protezione individuale, primo tra i quali il casco protettivo.

 

Per quanto riguarda il coordinatore della sicurezza designato dall’ente pubblico committente, questi pur essendo era stato nominato senza che vi fosse tale obbligo in quanto l’appalto era stato affidato ad un’unica impresa, i Giudici di merito avevano ritenuto che <<lo stesso avesse, tuttavia, effettivamente svolto l'incarico, recandosi più volte nel cantiere boschivo, così di fatto ingerendosi nella esecuzione dei lavori, ed in un'occasione in particolare contestando formalmente il mancato impiego del casco protettivo. In tale veste l'imputato aveva anche redatto un piano di sicurezza e coordinamento (PSC) non meno generico del POS di cui ricalcava il testo, e, avendo fatto, appunto, accesso in più occasioni, non si era reso conto delle manchevolezze della ditta, che, anche solo avuto riguardo al profilo formale, risultava impiegare personale non adeguatamente formato per il pericoloso lavoro di abbattimento degli alberi>>.

In seguito alla conferma della sentenza da parte della Corte d’Appello di Torino, entrambi gli imputati avevano fatto ricorso in Cassazione con differenti motivazioni.


Nel seguito di questo contributo, sarà esaminato il solo ricorso del coordinatore rimandando, per quanto riguarda il ricorso del datore di lavoro, peraltro, rigettato dalla Suprema Corte, al testo integrale della pronuncia.


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Il difensore del coordinatore aveva presentato ricorso adducendo quattro distinte motivazioni:

Il primo motivo riguardava la violazione degli artt. 521 e 522 cpp, per avere sia il Tribunale che la Corte di appello pronunziato condanna sulla base di profili di colpa specifica relativi a fatti che non formavano oggetto dell'imputazione e rispetto ai quali al ricorrente non sarebbe stato consentito di approntare una difesa effettiva. Infatti, era stata contestata al coordinatore un unico profilo di colpa specifica, consistente nell'avere previsto nel PSC di cui all'art. 100 del D. Lgs. n. 81/2008, a fronte di un rischio di caduta di materiale dall'alto, misure di prevenzione e protezione tipiche di un cantiere edile, e non già di un cantiere forestale, ove si sarebbero dovuti abbattere alberi.

 

Il ricorrente aveva evidenziato come il PSC risalisse al luglio 2013 e cioè anteriormente alla data di assegnazione dei lavori all’impresa edile e che, pertanto, in assenza di ulteriori contestazioni di colpa generica, l'imputato aveva deciso di chiedere di essere giudicato con il rito abbreviato, nell'ambito del quale aveva depositato memoria difensiva con la quale sosteneva:

  1. l'inapplicabilità del titolo IV del D. Lgs. n. 81/2008 ai lavori forestali, che, dunque, non erano stati recepiti nel PSC redatto in fase di progettazione;
  2. che, in ogni caso, il PSC redatto in fase di progettazione aveva perso efficacia nella fase esecutiva per il mancato verificarsi della compresenza di più imprese ed era stato, dunque, sostituito da un Piano di Sicurezza Sostitutivo (PSS), presentato nel novembre 2014 dall’impresa edile unica assegnataria dell'appalto;
  3. che, in ogni caso, anche ove il PSC redatto dal coordinatore fosse inopinatamente ritenuto efficace, tale documento sarebbe stato in concreto idoneo a prevenire i rischi, in virtù del combinato disposto tra le misure generali ivi indicate e le misure specifiche contenute nel POS dell’impresa edile;
  4. infine, che la contestata genericità del POS non avrebbe avuto alcun ruolo causale o concausale nella verificazione dell'evento, non essendo riconducibile ad un rischio interferenziale ma ad un rischio tipico e specifico dell'attività dell’impresa edile.

 

Pertanto, secondo la difesa, la sentenza di primo grado, in realtà, aveva operato <<un'evidente metamorfosi dell'unico profilo di colpa specifica - di natura per così dire "documentale" - contestato nel capo d'imputazione, fondando il giudizio di responsabilità penale dell'odierno ricorrente su profili di omessa vigilanza attinenti alla fase di esecuzione dei lavori presso il cantiere, mai indicati nella richiesta di rinvio a giudizio>>.

 

Il secondo motivo riguardava la violazione dell'art. 100 del D. Lgs. n. 81/2008 e dell’art. 131 del D. Lgs. n. 163/2006 nonché vizio di motivazione in relazione alla rilevanza causale delle presunte carenze PSC.

 

Ad avviso del ricorrente, la Corte di appello aveva fatto un’erronea applicazione della disciplina riguardante il PSC e non si sarebbe confrontata specificamente con motivi svolti nell'impugnazione di merito concernenti il profilo della causalità della colpa relativo alla contestata carenza del citato documento.

 

Premesso che il coordinatore aveva ricevuto dall’ente pubblico l’incarico di CSP  in relazione alla realizzazione di una pista forestale e che nel luglio 2013, cioè prima dell'inizio dei lavori, aveva redatto il PSC per l'evenienza che, a seguito dell'affidamento, si verificasse la compresenza, anche non contemporanea, di più imprese, sottolineava il ricorrente che una sola impresa era intervenuta nel cantiere e non si era mai verificata la situazione di interferenza tra imprese che potesse rendere efficace il PSC redatto dall'imputato. Inoltre, al momento dell'infortunio la vittima stava compiendo un'attività connotata da un rischio specifico proprio dell'impresa appaltatrice, rischio rispetto al quale il PSC non avrebbe potuto avere un ruolo precettivo.

 

Questa precisazione da parte della difesa è assolutamente condivisibile in quanto, negli appalti pubblici, non è possibile vietare il subappalto e, men che meno si può vietarlo per non avere più imprese presenti in cantiere in modo da evitare la designazione del CSP e del CSE. Peraltro, se anche si vietasse il subappalto, ciò non sarebbe sufficiente ad evitare la presenza, anche non contemporanea, di più imprese in cantiere. Infatti, nel cantiere possono legittimamente entrare altre imprese che non hanno stipulato un contratto di subappalto ma altre tipologie di subcontratti. Tali imprese, che possono essere anche di dimensioni minime e svolgere lavori edili o d’ingegneria civile di modeste dimensioni tecniche e/o economiche, sono già di per sé sufficienti a far ricadere l’appalto nella condizione di presenza, anche non contemporanea, di più imprese. Ne consegue che, in un appalto pubblico escludere la presenza, anche non contemporanea, di più imprese è pressocché impossibile. Pertanto, in un appalto pubblico di lavori, soddisfatte le condizioni previste dal D. Lgs. n. 163/2006, il committente non può negare il subappalto.

 

Dunque, in fase progettuale, il committente pubblico deve sempre ragionare come se, per l'esecuzione di un appalto, in cantiere sarebbero state presenti più imprese e procedere alla designazione del CSP contestualmente all'affidamento dell'incarico al progettista. Nel caso in cui, in fase esecutiva, i lavori venissero affidati ad un’unica impresa, al committente non è richiesta la nomina del CSE.

 

Del resto, la stessa impresa affidataria aveva presentato il Piano di Sicurezza Sostitutivo (PSS), la cui funzione è proprio quella di sostituire il PSC allorché i lavori vengano eseguiti da un'unica impresa.

Altra critica riguardava la rilevanza eziologica o meno delle prescrizioni del PSC, visto che al momento dell’evento il documento programmatico vigente era il PSS e non il PSC e che, in ogni caso, l’evento non era certo avvenuto per un rischio interferenziale ma per un rischio “proprio” o “intra-aziendale” e derivante, inoltre, da un’attività non rientranti tra quelle elencate all’Allegato X del D. Lgs. n. 81/2008. Tale chiarimento era già stato effettuato dalla Cassazione Penale sez. IV n. n. 3288 del 27/09/2016. Qui la Suprema Corte ribadiva che:

<<In tema di infortuni sul lavoro, la funzione di alta vigilanza che grava sul coordinatore per l'esecuzione dei lavori ha ad oggetto esclusivamente il rischio c.d. generico, relativo alle fonti di pericolo riconducibili all'ambiente di lavoro, al modo in cui sono organizzate le attività, alle procedure lavorative ed alla convergenza in esso di più imprese; ne consegue che il coordinatore non risponde degli eventi riconducibili al c.d. rischio specifico, proprio dell'attività dell'impresa appaltatrice o del singolo lavoratore autonomo>>.

 

Il terzo motivo riguardava la violazione dell'art. 92 del D. Lgs. n. 81/2008 e, allo stesso tempo, difetto di motivazione in relazione alla ritenuta omessa verifica della formazione da parte del ricorrente e alla sua rilevanza causale.

 

Secondo il ricorrente, la Corte d’appello avrebbe fatto erronea applicazione della disciplina sulla verifica della formazione dei dipendenti delle imprese appaltatrici attribuendo a questi tale onere ed avrebbe omesso di motivare adeguatamente sia in ordine alla evidenza della carenza formativa (secondo i Giudici di merito da rilevarsi da parte dell'imputato), sia sulla rilevanza causale nel caso di specie di tale profilo di colpa specifica.

 

Nell'atto di appello si era contestata l'affermazione che competesse al coordinatore della sicurezza la verifica "in concreto" della correttezza e della completezza della formazione dei lavoratori delle imprese appaltatrici, spettando al coordinatore la verifica di tipo documentale ed essendo onere del datore di lavoro controllare la effettività della formazione, come del resto chiarito dalla Suprema Corte nella motivazione della pronunzia della Cassazione Penale Sez. 4, n. 27165 del 04/07/2016 (dove chi scrive era stato Consulente Tecnico per la difesa del CSE).

 

Il quarto motivo di ricorso riguardava la violazione di legge, sia in riferimento all'art. 92 del D. Lgs. n. 81/2008, sia quanto alla omissione di pronunzia ed illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta omessa vigilanza del coordinatore sulle attività di cantiere e sulla contestazione di omessa sospensione dei lavori da parte dell'imputato.

 

Secondo la difesa del ricorrente la Corte di appello non avrebbe fatto buon governo dei principi che regolano la vigilanza del coordinatore per l'esecuzione sulle attività di cantiere, poiché dal testo della sentenza impugnata non sarebbe possibile ricavare l'esistenza dei presupposti che avrebbero imposto la sospensione dei lavori da parte del coordinatore né la rilevanza causale dell'iniziativa rispetto al verificarsi dell'infortunio.

 

In realtà, il coordinatore, pur non esercitando formalmente tale funzione, aveva effettuato più accessi in cantiere ed aveva in un'occasione, il 7 gennaio 2015, peraltro in presenza di lavori diversi, con oggetto sbancamento del piano stradale e non già di taglio di alberi, stigmatizzato il mancato uso dei dispositivi di protezione individuale (DPI). Tutto ciò, secondo la difesa dimostrava la professionalità e la diligenza dell'imputato nello svolgimento del proprio compito di "alta vigilanza", anziché il contrario. Inoltre, sempre secondo la difesa, la sentenza sarebbe carente di motivazione, lacunosa, illogica ed in contrasto con l'art. 92 del D. Lgs. n. 81/2008 nella parte in cui non spiega per quali ragioni, cioè in presenza di quali presupposti, l'imputato avrebbe dovuto adottare l'ordine di sospensione dei lavori, previsione che il richiamato articolo richiede solo nel caso di pericolo grave ed imminente direttamente riscontrato (art. 92 comma 1, lett. f).

 

Inoltre, nel ricorso si segnalava che documentalmente emergeva che la situazione di mancato impiego dei DPI, riscontrata il 7 gennaio 2015, si era risolta allorquando, dopo otto giorni, la mattina del 15 gennaio 2015, il coordinatore si era nuovamente recato sul cantiere, constatando la regolarità della situazione. L'infortunio si era verificato nel pomeriggio dello stesso giorno e, pertanto, non poteva ritenersi sussistente una responsabilità di questi visto che l'infortunio era stato causato da fattori estemporanei e contingenti. Del resto, la stessa Suprema Corte aveva più volte ribadito che:

 <<In tema di infortuni sul lavoro, il coordinatore per l'esecuzione dei lavori ha una funzione di autonoma vigilanza che riguarda la generale configurazione delle lavorazioni, e non anche il puntuale controllo, momento per momento, delle singole attività lavorative, che è demandato ad altre figure operative (datore di lavoro, dirigente, preposto>>.

 

Preso atto del ricorso, la Cassazione Penale ha respinto il primo motivo dei ricorsi presentati dalla difesa del coordinatore ma ha accolto gli altri tre con le seguenti motivazioni.

 

Il primo ricorso è stato respinto in quanto la giurisprudenza di legittimità ritiene possibile, quantomeno quando nel capo d'imputazione originario siano stati contestati elementi generici e specifici di colpa, la sostituzione o l'aggiunta di un profilo di colpa, sia pure specifico, rispetto ai profili originariamente contestati senza che ciò valga a realizzare diversità o mutamento del fatto, con sostanziale ampliamento - talora vera e propria modifica - della contestazione; ed in genere si giustifica tale interpretazione con il rilievo che il riferimento alla colpa generica evidenzia che la contestazione riguarda la condotta dell'agente globalmente considerata in riferimento all'evento verificatosi, sicché l'imputato è posto in grado di difendersi relativamente a tutti gli aspetti del comportamento tenuto in occasione di tale evento, di cui è chiamato a rispondere.

 

La Suprema Corte accogliendo gli altri tre ricorsi ha fatto riferimento a due consolidati principi di diritto:

<<In tema di infortuni sul lavoro, la funzione di alta vigilanza che grava sul coordinatore per la sicurezza dei lavori - che si esplica prevalentemente mediante procedure e non poteri doveri di intervento immediato - riguarda la generale configurazione delle lavorazioni che comportino un rischio interferenziale, e non anche il puntuale controllo delle singole lavorazioni, demandato ad altre figure (datore di lavoro, dirigente, preposto), salvo l'obbligo di adeguare il piano di sicurezza in relazione all'evoluzione dei lavori e di sospendere, in caso di pericolo grave e imminente, direttamente riscontrato ed immediatamente percettibile, le singole lavorazioni fino alla verifica degli avvenuti adeguamenti da parte delle imprese interessate>>[1]

e

<<In tema di infortuni sul lavoro, l'area di rischio governata dal coordinatore per la sicurezza nell'esecuzione dei lavori si individua in base all'area di intervento di tale garante, per come definita, ai sensi dell'allegato XV al d. lgs 9 aprile 2008, n. 81, dal piano di sicurezza e coordinamento, che comprende, oltre ai rischi connessi all'area di cantiere e all'organizzazione di cantiere, anche i rischi interferenziali connessi alle lavorazioni (cd. rischi generici), tra i quali non rientrano i rischi specifici propri dell'attività della singola impresa, di competenza del datore di lavoro, in quanto non inerenti all'interferenza fra le opere di più imprese>>[2].

 

Infatti, secondo la Suprema Corte, dovendosi applicare tali principi, occorre convenire con il ricorrente circa la non necessità, nel caso di specie, di nomina del coordinatore per la sicurezza, poiché, come spiegato nelle sentenze di merito, la originaria ipotesi di compresenza di più ditte impegnate nel cantiere non si è in concreto realizzata, essendovi unicamente la presenza di una sola impresa.

 

Secondo la Cassazione, i Giudici di merito non hanno approfondito le implicazioni, logiche e giuridiche, relative ad un ruolo di coordinatore svolto "di fatto", pur non essendovi compresenza di più imprese, con la redazione di un PSC generico e poi eseguendo le visite in cantiere e segnalando formalmente la necessità di corretto uso dei caschi. Quello che i Giudici di merito non hanno accertato è se l’imputato si sia "volontariamente accollato" la posizione di garanzia di CSE, mediante un comportamento concludente consistente nella effettiva presa in carico del bene protetto e tenendo a mente la distinzione tra CSP (incaricato della redazione del PSC) e CSE con gli obblighi dell’art. 92 comma 1, lett. a), b), c), d), e) ed f) del D. Lgs. n. 81/2008. Pertanto, dovrà essere chiarito quale ruolo o quali ruoli abbia in concreto svolto l'agente, se cioè quello di CSP e/o quello di CSE, aspetti di decisiva importanza, che non risultano chiari nella sentenza della Corte d’appello, al fine di offrire risposta alle questioni poste con il secondo, terzo e quarto motivo di ricorso.

 

Ove, dunque, si ritenga di dover inquadrare il ruolo eventualmente svolto dal ricorrente in quello di CSP, si dovrà tenere conto che:

<<In tema di infortuni sul lavoro, nel caso in cui i lavori contemplino l'intervento di più imprese o lavoratori autonomi, anche in successione tra loro, il coordinatore per la progettazione risponde per l'infortunio riconducibile all'inadeguata valutazione, nel piano di sicurezza e di coordinamento, del rischio interferenziale, e alla mancata previsione di misure di sicurezza idonee a prevenirlo>> [3].

 

Ove si intenda risolta in senso affermativo la questione dello svolgimento di fatto, da parte dell'imputato, delle funzioni di CSE, con specifico riferimento al contenuto dell'ultimo motivo di ricorso, appare meramente affermata, ma in realtà non dimostrata, la ricorrenza di un caso di doverosità, da parte dell’imputato, dell'adozione di ordine di sospensione dei lavori ex art. 92 del D. Lgs. n. 81/2008, non misurandosi i decidenti con una circostanza fattuale e con un principio di diritto.

 

Infatti, non va dimenticato che:

  • l'imputato, dopo avere riscontrato il mancato impiego del casco protettivo, ne aveva già raccomandato l'uso ai lavoratori;
  • non compete al CSE il puntuale controllo, momento per momento, delle singole lavorazioni, controllo che è demandato ad altre figure come datore di lavoro, dirigenti e preposti.  

 

Alla luce delle considerazioni fatte, secondo la Suprema Corte si impone, in definitiva, un nuovo giudizio che, prendendo le mosse dalla corretta ricostruzione in fatto rispetto alle emergenze istruttorie, prima, e dal corretto inquadramento in diritto, poi, dell'effettivo ruolo eventualmente svolto del ricorrente ovvero degli effettivi ruoli avuti nella peculiare vicenda, tragga, con il necessario rigore logico, le conseguenti implicazioni, sotto il profilo della eventuale doverosità giuridica di un agire dell'imputato in maniera difforme da come agito, senza trascurare il profilo della cosiddetta causalità della colpa nel caso di specie, profilo che è stato efficacemente affrontato dalla Difesa nel secondo, terzo e quarto motivo di ricorso e, già prima, nell'atto di appello ma che non è stato adeguatamente risolto nella sentenza impugnata.

 

Pertanto, la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Torino per nuovo giudizio.

 

 

Carmelo G. Catanoso

Ingegnere Consulente di Direzione







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