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T.U. in materia di sicurezza sul lavoro: innovazioni e conferme
Pubblicità
Commento a cura di Rolando Dubini e Anna Guardavilla. Il T.U. commentato non ha, per ora, carattere di ufficialità
TESTO UNICO 25 ottobre 2004
Titolo I DISPOSIZIONI GENERALI
Capo I Finalità, campo di applicazione definizioni
Art. 1 Finalità
Il Testo Unico (comma 1) “ha lo scopo di riordinare, coordinare, armonizzare in un unico testo normativo e di semplificare le disposizioni di legge vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro”.
Il comma 2 pone la seguente finalità:
La riconduzione dei principi fondamentali e della normativa vigente in materia in un «Testo Unico» ha come finalità primaria l’innalzamento della qualità e della sicurezza del lavoro per tutti i lavoratori, anche valorizzando il dialogo sociale e la bilateralità cui collegare la semplificazione di adempimenti e controlli nonché lo sviluppo della responsabilità sociale delle imprese.
L'art. 1 c. 1 del D. Lgs. n. 626/94 prevedeva invece, più sinteticamente, che “Il presente decreto legislativo prescrive misure per la tutela della salute e per la sicurezza dei lavoratori durante il lavoro, in tutti i settori di attività privati o pubblici”, ed aveva come finalità, affermata nel titolo, il miglioramento della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, concetto il cui contenuto e la cui filosofia appare decisamente più chiara e convincente del nuovo, e piuttosto vago, concetto di ”innalzamento”.
La direttiva 391 del 1989, peraltro, reca un concetto identico a quello del vigente D. Lgs. n. 626/94: Articolo 1 – Oggetto – 1: “La presente direttiva ha lo scopo di attuare misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro.”
Tale concetto è piuttosto diverso da quello previsto dal progetto di Testo Unico.
Art. 3 Campo di applicazione soggettivo (innovativo)
Il comma 2 estende la tutela prevenzionistica a tutte le forme di lavoro, indipendentemente dal contratto stipulato con un datore di lavoro o un committente.
L’art. 3 commi 3 e 4 del Testo Unico introduce l’obbligo di fornire i dispositivi di protezione individuale (“in relazione alle effettive mansioni effettuate”) ai lavoratori a domicilio, a quelli che rientrano nel campo di applicazione del contratto collettivo dei proprietari di fabbricati ed a coloro che svolgono l’attività lavorativa mediante collegamento informatico e telematico (c.d. Telelavoro) e prevede che, qualora vengano fornite a tali lavoratori attrezzature del Datore di Lavoro, queste debbano “essere conformi alle disposizioni di cui al Titolo III del presente decreto legislativo”.
Il comma 5 prevede che ai “collaboratori coordinati e continuativi [...], anche nella modalità a progetto” si applichino le tutele previste dall’articolo 10 del presente decreto”; ovvero nulla muta rispetto alla situazione presente, nella quale è applicabile l'art. 7 del D. Lgs. n. 626/94.
Art. 4 Computo dei lavoratori
Il comma 1 alla lettera b) innova la disciplina del D. Lgs. n. 626/1994 (art. 2) laddove ora esclude “gli allievi degli istituti di istruzione e universitari e i partecipanti ai corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori” dal computo dei lavoratori ai fini di diversi adempimenti previsti in materia di sicurezza del lavoro.
Art. 5 Definizioni
L’art. 5 comma 1 lett. a) del T.U. fornisce una definizione di ‘lavoratore’ “parzialmente innovativa” (come la definisce la relazione ministeriale) rispetto alla precedente in quanto specifica che “è la persona che presta il proprio lavoro fuori dal proprio domicilio alle dipendenze o sotto la direzione altrui “per profili di sicurezza”;
L’art. 5 comma 1 lett. h) e lett. i) del T.U. introduce poi le definizioni di “pericolo” e di “rischio”.
Sorprendente l'art. 5 comma 1 lett. l), dal quale si desume che è «norma di buona tecnica» non solo una “specifica tecnica emanata dai seguenti organismi europei, internazionali e nazionali: CEN (Comitato Europeo di normalizzazione), CENELEC (Comitato Europeo per la standardizzazione Elettrotecnica), ISO (Organizzazione Internazionale per la Standardizzazione), IEC (Commissione Internazionale Elettrotecnica), UNI (Ente Nazionale di Unificazione), CEI (Comitato Elettronico Italiano)”, ma altresì “le disposizioni legislative relative ad elementi di natura tecnica o costruttiva contenute nel DPR 27 aprile 1955 n° 547, DPR 7 gennaio 1956 n° 164, DPR 19 marzo 1956 n° 302, DPR 19 marzo 1956 n° 303, DPR 20 marzo 1956 n° 320, DPR 20 marzo 1956 n° 321, DPR 20 marzo 1956 n° 322, DPR 20 marzo 1956 n° 323”, derubricandole da norme prevenzionistiche sanzionate penalmente a norme che assumono una connotazione fondamentalmente diversa, retrocedendo di rango, nel sistema delle fonti del diritto, da fonte primaria a norma tecnica sussidiaria ed eventuale.
Il tutto, peraltro, con un grosso errore materiale dell'estensore del Testo Unico, che non si è accorto di avere abrogato il D.P.R. n. 303/1956 all'articolo 186 (sic).
Si introduce anche un inedito riferimento (lett. m) alle “«buone prassi»: soluzioni organizzative o procedurali coerenti con la normativa vigente e generalizzabili, che permettono di ottenere una riduzione dei rischi, miglioramenti delle condizioni di lavoro e in generale la promozione della salute sui luoghi di lavoro raccolte e validate dalle Regioni, dall’Ispesl, dall’Inail e dagli Enti Bilaterali”.
Infine si dà ampio spazio al ruolo e alle funzioni degli Enti Bilaterali.
Capo II Principi generali di prevenzione
Art. 6 Misure generali di tutela
Interessante e importante il comma 2 dell’art.6, che riscrive il vecchio art. 3 del D. Lgs. n. 626/94 affermando che
“2. (sic) I principi generali di prevenzione per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro sono:
a) valutazione dei rischi per la salute e sicurezza;
b) eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico mediante misure tecniche, organizzative e procedurali concretamente attuabili nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni in quanto generalmente utilizzate [...]”.
Il Testo Unico con questa modifica introdotta dalla lettera b) intende ridurre la portata degli obblighi impliciti in un principio di prevenzione solidamente presente nel nostro ordinamento, ovvero quello previsto dall'art. 2087 del codice civile. Tale norma è stata oggetto di una interpretazione costante della nostra giurisprudenza di legittimità, la quale in numerosissime sentenze, che definiscono un orientamento assolutamente costante, ha enucleato da tale articolo l'obbligo del Datore di Lavoro-imprenditore di perseguire la massima sicurezza tecnologicamente fattibile, ovvero l’obbligo di tutelare l'integrità fisica, morale e psicologica del lavoratore adottando tutte le misure tecniche, organizzative e procedurali concretamente fattibili. Nel commento ministeriale (nota 15) si precisa che “l’integrazione si rende necessaria al fine di adeguare la norma al principio della “concreta attuabilità” già presente nella normativa vigente in materia di sicurezza (es. D. Lgs. n. 277 del 1991)”. Secondo l'estensore del commento “tale principio è stato espressamente interpretato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 312/1996 nella quale, in sostituzione del concetto di “massima sicurezza tecnologicamente fattibile”, è stato affermato che il generale dovere di protezione della sicurezza dei lavoratori è soddisfatto, in particolare rispetto a norme che impongono la realizzazione di risultati (minimizzazione del rischio o massimizzazione della sicurezza), attraverso il riferimento “alle misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti”.
Il commentatore però dimentica che la sentenza citata (isolata, e che riguardava il rigetto della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Pretore di Reggio Emilia, sez. distaccata di Guastalla) aveva ad oggetto esclusivamente il rischio da rumore e le disposizioni in materia del D. Lgs. n. 277/1991 ed ogni sua estensione a tutta la rimanente legislazione prevenzionistica è una scelta politica e legislativa e non deriva affatto dalla logica della sentenza, che infatti la giurisprudenza della Cassazione ha interpretato nel senso di eccezione al più generale principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile.
In riferimento all'adozione delle misure “concretamente attuabili” (nel senso di cui al principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile ex art. 2087 c.c. e all'art. 3 c. 1 lett. b) del D. Lgs. n. 626/96) per la riduzione al minimo del rumore nell'ambiente di lavoro (art. 41 D. Lgs. n. 277/1996), la Corte Costituzionale ha sottolineato che “il legislatore si riferisce alle misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti generalmente acquisiti, sicché penalmente censurata sia soltanto la deviazione dei comportamenti dell'imprenditore dagli standard di sicurezza propri, in concreto e al momento, delle diverse attività produttive” (sentenza n. 312 del 18 luglio 1996).
La Cassazione ha successivamente precisato che quest'ultima sentenza interpretativa della Corte Costituzionale ha inciso solo sulle misure organizzative e procedurali "concretamente attuabili" per ridurre al minimo i danni derivanti dall'esposizione al rumore di cui all'art. 41 comma 1 D. Lgs. n. 277/1991, “dando specificità al generico dettato legislativo attraverso il riferimento agli standard di sicurezza generalmente praticati nei vari settori produttivi”. Ma l'art. 24 del D.P.R. n. 303/1956, rimasto in vigore per quanto attiene il danno extrauditivo (anche in applicazione degli articoli 2087 del codice civile e 3 del D. Lgs. n. 626/94), pone in effetti a carico del datore di lavoro non tanto l’“adozione di misure organizzative e procedurali, bensì dei provvedimenti consigliati dalla tecnica per diminuire l'intensità dei rumori propri delle lavorazioni a rischio: tale precetto corrisponde a quello contenuto nella prima parte del comma 1 dell'art. 41 D. Lgs. 277/1991, cioè "riduzione al minimo, in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, dei rischi [...] mediante misure tecniche” (Cass. sez. IV pen., 16 maggio 1997 in c. Minestrina). Dunque “è agevole comprendere che, nel quadro interpretativo delineato dalla Suprema Corte di legittimità, la sentenza n. 312 della Corte Costituzionale è, sì, destinata ad incidere sull'art. 41, comma 1, del D. Lgs. n. 277/91, ma con esclusivo riguardo alle misure organizzative e procedurali, non invece in rapporto alle misure tecniche, che devono ispirarsi tutt’ora al principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile”.
Di fatto con questa disposizione del Testo Unico, che rappresenta una norma speciale e posteriore, viene derogata l'applicazione della norma generale e peraltro anteriore dettata dall'art. 2087 del codice civile, secondo i noti principi giuridici che regolano la successione delle norme nel tempo in base ai quali da un lato la norma successiva nel tempo prevale su quella precedente (‘lex posterior derogat priori’) e dall’altro la norma speciale prevale su quella generale (‘lex specialis derogat generali’).
Pertanto l’art. 2087 del codice civile non sarà più applicabile nei termini previsti in precedenza dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale “il datore di lavoro deve ispirare la sua condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza. Pertanto non è sufficiente che una macchina sia munita degli accorgimenti previsti dalla legge in un certo momento storico se il processo tecnologico cresce in modo tale da suggerire ulteriori e più sofisticati presidi per rendere la stessa sempre più sicura. L'art. 2087 c.c., infatti, nell'affermare che l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa misure che, secondo le particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, stimola obbligatoriamente il datore di lavoro ad aprirsi alle nuove acquisizioni tecnologiche” (Cassazione Penale, Sez. IV - 27 settembre 1994 n. 10164, Kuster, cfr. anche Cass. Pen., Sez.IV, 8.3.1988, Corbetta).
Tutto ciò comporta che non sarà più prescritto dall’ordinamento l'obbligo di preseguire una sicurezza assoluta, ma solo relativa, dettata dalle applicazioni tecnologiche generalmente praticate e dagli accorgimenti organizzativi e procedurali generalmente acquisiti nei diversi settori e nelle diverse lavorazioni, secondo il principio della “concreta attuabilità”.
L’art. 6 comma 1 lett. f) del Testo Unico, che elenca le misure generali di tutela, prescrive il rispetto dei principi ergonomici nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, “in particolare al fine di ridurre gli effetti sulla salute del lavoro monotono e di quello ripetitivo” (che sostituisce l’espressione precedente, “anche per attenuare il lavoro monotono e quello ripetitivo” ex art. 3 lett. f) del D.Lgs.626/1994 per conformarsi alla precisa disposizione della direttiva n. 89/391 art. 6 paragrafo 2).
Sempre il comma 2 lettera l) prevede la “programmazione delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza, attraverso l’adozione di codici di condotta e di buone prassi”.
Anche qui quello che era un obbligo intrinseco al documento di valutazione dei rischi, previsto dall'art. 4 comma 2 lett. c) del D.Lgs.626/1994, viene “innalzato” a principio generale, ma di fatto non è più un requisito del documento di valutazione dei rischi e quindi dal punto di vista pratico e applicativo ne viene meno l'aspetto di obbligo penalmente sanzionato precedentemente previsto.
Art. 7 Obblighi dei datori di lavoro e dei dirigenti
Il comma 1 lett. b) modifica drasticamente l'obbligo di redazione del documento di valutazione dei rischi lavorativi, prevedendo che “la scelta dei criteri di redazione del documento è rimessa al datore di lavoro”, che “vi provvede con criteri di semplicità, brevità e comprensibilità”. Dunque il valore prioritario è ora quello della semplicità, brevità e comprensibilità. Mentre il terzo requisito non sollecita discussioni, i primi due, posti prioritariamente e apoditticamente, sembrano ridurre la portata prevenzionistica di tale documento, anche se lo stesso articolo aggiunge che comunque occorre garantirne “la completezza e l’idoneità quale strumento operativo di pianificazione degli interventi aziendali e di prevenzione”.
Secondo il commento che accompagna il Testo Unico “la disposizione non intende impedire all’Autorità giudiziaria di “trarre notizie di reato” dal documento di valutazione del rischio, ma evitare che le indicazioni contenute nello stesso documento vengano assunte, di per sé, quali “fonte o elemento di prova” ai fini sanzionatori”.
In effetti è difficile sfuggire alla tentazione che la norma sia stata scritta non tanto per rendere il documento un efficace e idoneo documento di gestione della sicurezza aziendale, quanto per far fronte a situazioni di fatto, nelle quali il giudice penale ha tratto elementi di prova della colpevolezza penale del Datore di Lavoro e del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione da un documento di valutazione inesatto, incompleto e insufficiente.
Peraltro la valutazione delle prove in sede penale è definita da criteri contenuti nel codice di procedura penale e nel codice penale, e quindi difficilmente la nuova disposizione renderà più agevole la posizione dei soggetti obbligati.
L’art. 7 comma 2 lett. d) prevede l’obbligo di aggiornamento delle misure di prevenzione “secondo le applicazioni tecnologiche generalmente praticate nel settore di attività dell’azienda o dell’unità produttiva” riducendo così l’applicabilità del principio della massima sicurezza tecnicamente fattibile ex art.2087 del codice civile, nei termini già analizzati in relazione all'art. 6 comma 2 lett. b).
L’art. 7 comma 2 non richiama l’obbligo del Datore di Lavoro in precedenza previsto dall’art. 4 comma 5 lett. g) del D. Lgs. n. 626/94 di richiedere “l’osservanza da parte del medico competente degli obblighi previsti dal presente decreto, informandolo sui processi e sui rischi connessi all’attività produttiva”; viene così cancellato l'obbligo, penalmente sanzionato, del datore di lavoro di vigilare affinché il medico svolga i compiti che la legge gli attribuisce.
L’art. 7 comma 6 riduce e semplifica ulteriormente l’obbligo di redazione del documento di valutazione dei rischi, già abbondantemente semplificato da un precedente Decreto Ministeriale del 6 dicembre 1996, per le aziende artigiane ed industriali fino a 50 addetti, agricole e zootecniche fino a 10 addetti, aziende della pesca fino a 20 addetti e per le altre aziende fino a 200 addetti.
Art. 8 Obblighi dei preposti
L'articolo 8 semplifica radicalmente la disciplina relativa agli obblighi penalmente sanzionati a carico dei preposti, riducendo radicalmente il novero dei comportamenti penalmente illeciti a quelli descritti da questo solo articolo, a confronto delle decine di ipotesi incriminatorie precedentemente previste dal D. Lgs. n. 626/94. Questa estesa deresponsabilizzazione dell'unico soggetto della gerarchia aziendale che è a diretto contatto del lavoratore, e che meglio di altri può svolgere il compito di far rispettare le disposizioni aziendali in materia di prevenzione, costituisce un significativo indebolimento dell'azione prevenzionistica aziendale, la cui logica ispiratrice sfugge anche all'osservatore più attento.
Art. 9 Obblighi dei lavoratori, dei lavoratori autonomi e dei componenti dell’impresa familiare
Vengono introdotti parziali obblighi prevenzionistici anche a carico dei lavoratori autonomi e dei collaboratori familiari, che ampliano l'area del lavoro protetto dalla normativa di prevenzione.
Art. 10 Obblighi dei datori di lavoro committenti e appaltatori nel contratto di appalto, dei lavoratori autonomi nel contratto d'opera, del distaccante e del distaccatario.
L’art.10 comma 4 prescrive l’obbligo in capo al Datore di Lavoro distaccante di formare ed addestrare i lavoratori distaccati ai sensi dell’art. 30 del D. Lgs.10 settembre 2003 n. 276 per l’uso delle attrezzature di lavoro necessarie allo svolgimento dell’attività lavorativa per la quale viene attuato il distacco e stabilisce le modalità di adempimento di tale obbligo.
Per il resto nulla viene innovato rispetto al vigente art. 7 del D. Lgs. n. 626/94.
Capo VI Consultazione e partecipazione dei datori di lavoro
Art. 26 Attribuzioni del rappresentante per la sicurezza
Il comma 1 lettera e) stabilisce una innovazione di non poco conto, laddove prescrive che il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza:
“e) riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente alla valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative, con esclusione del documento di cui all’articolo 7, comma 1, lett. b), nonché quelle inerenti alle sostanze ed ai preparati pericolosi, alle macchine, agli impianti, alla organizzazione e agli ambienti di lavoro, agli infortuni ed alle malattie professionali”.
Nella nota 17 del commento ministeriale si precisa che:
“L’inserimento dell’inciso “con esclusione del documento di cui all’art. 7, comma 1, lett. b)” si rende necessario per chiarire definitivamente che un obbligo di riproduzione del documento e di consegna dello stesso al Rls non può essere configurato, anche nel caso in cui ciò fosse tecnicamente praticabile, a motivo della riservatezza industriale che spesso caratterizza molte delle informazioni in esso contenute. Le stesse parti sociali, nell’accordo interconfederale Confindustria – CGIL – CISL - UIL del 22 giugno 1995, hanno convenuto, nel rispetto delle disposizioni del D. Lgs. n. 626/1994, che il diritto di accesso del Rls al documento di valutazione dei rischi di cui all’art. 4, comma 2, dello stesso Decreto Legislativo - a differenza della documentazione di cui all’art. 19, comma 1, lett. e) (“documentazione aziendale inerente alla valutazione dei rischi”, che è cosa diversa dal vero e proprio “documento di valutazione dei rischi”) – si esercita esclusivamente mediante consultazione presso la sede aziendale”.
Tale deduzione è del tutto in contrasto con quanto definito in precedenza dalla prassi amministrativa e dalla giurisprudenza.
La magistratura ha affermato che "tenuto conto del ruolo effettivo e non meramente formale del RLS […] lo stesso abbia diritto alla materiale consegna dei documenti", ovviamente in copia, necessari per svolgere appieno le sue funzioni (si veda il parere della Procura della Repubblica di Milano del 29 gennaio 1998 in risposta a una richiesta di chiarimento presentata dalla Azienda u.s.s.l. 40 di Milano). È da dire inoltre che ben difficilmente la consegna di copia del documento sulla valutazione dei rischi potrebbe comportare una violazione del segreto industriale (a cui il r.l.s. è comunque tenuto).
La Circolare 3 Ottobre 2000 numero 68 emanata dallo stesso Ministero che ha predisposto il Testo Unico ed avente ad oggetto “Accesso del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza al documento di valutazione dei rischi. Chiarimenti interpretativi” fornisce indicazioni utili sui “problemi interpretativi circa l'effettiva portata dell'onere di consegna del documento di valutazione del rischio al rappresentante dei lavoratori da parte del datore di lavoro”.
La Circolare precisa che “il "diritto di accesso" al documento di valutazione del rischio, previsto dall'art.19, comma cinque del D.Lgs. n. 626 del 1994 va in ogni caso assicurato, in via ordinaria, mediante la materiale consegna del documento”, “solo in via eccezionale, qualora obiettive esigenze di segretezza aziendale legata a ragioni di sicurezza o particolari oneri di riproduzione non rendano praticabile tale consegna, il datore di lavoro potrà assicurare altrimenti il diritto di accesso del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza mediante forme e modalità che consentano comunque la messa a disposizione del documento di valutazione del rischio”.
In quest’ultimo caso “spetta comunque al datore di lavoro dimostrare la sussistenza dei presupposti di fatto che non consentono la materiale consegna del documento al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”.
Il diritto del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (Rls) a ricevere la documentazione e le informazioni rilevanti in materia di salute e sicurezza del lavoro, pur imposta al datore di lavoro dall'art. 18 del D. Lgs. n. 626/94, è spesso oggetto di resistenze giuridicamente illegittime da parte di alcuni datori di lavoro.
Con una significativa sentenza del Tribunale di Pisa del 7 marzo 2003 [Giudice G. Schiavone, Ricorrente Segreteria Provinciale CO.I.SP Resistente Questore di Pisa] il tema è stato oggetto di un chiarimento importante. La sentenza è stata così massimata da Guida al Lavoro, il settimanale de Il Sole 24 ore (n. 13 del 29 marzo 2003 pag. 44):
Al rappresentante per la sicurezza si applicano, ai sensi dell'articolo 19, comma 4, del D. Lgs. 626/94, le stesse tutele previste dalla legge per le rappresentanze sindacali, ivi compresa la tutela ex art. 28 dello Statuto dei Lavoratori.
E', pertanto, da ritenersi antisindacale la condotta del datore di lavoro che abbia omesso, nonostante le reiterate richieste da parte del rappresentante per la sicurezza, di fornirgli i documenti e le informazioni riguardanti ilpiano per l asicurezza, la valutazione dei rischi, il parere del medico competente ed ogni altra comunicazione relativa ai provvedimenti che il datore intendeva adottare ai fini dell'adeguamento dei locali di servizio a quanto stabilito dal D. Lgs. n. 626/94 (nel caso di specie, il Giudice ha accertato la sussistenza della condotta antisindacale nel comportamento di un dirigente dell'Amministrazione pubblica per aver omesso di rilasciare al rappresentante per la sicurezza, che nello specifico era anche segretario provinciale del sindacato CO.I.SP, le informazioni e i documenti attestanti l'adempimento degli obblighi di salute e sicurezza relativamente ai locali di servizio mensa).
[L'autore informa che l'articolo è parte di una discussione in corso sul sito AIAS].
Commento a cura di Rolando Dubini e Anna Guardavilla. Il T.U. commentato non ha, per ora, carattere di ufficialità
TESTO UNICO 25 ottobre 2004
Titolo I DISPOSIZIONI GENERALI
Capo I Finalità, campo di applicazione definizioni
Art. 1 Finalità
Il Testo Unico (comma 1) “ha lo scopo di riordinare, coordinare, armonizzare in un unico testo normativo e di semplificare le disposizioni di legge vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro”.
Il comma 2 pone la seguente finalità:
La riconduzione dei principi fondamentali e della normativa vigente in materia in un «Testo Unico» ha come finalità primaria l’innalzamento della qualità e della sicurezza del lavoro per tutti i lavoratori, anche valorizzando il dialogo sociale e la bilateralità cui collegare la semplificazione di adempimenti e controlli nonché lo sviluppo della responsabilità sociale delle imprese.
L'art. 1 c. 1 del D. Lgs. n. 626/94 prevedeva invece, più sinteticamente, che “Il presente decreto legislativo prescrive misure per la tutela della salute e per la sicurezza dei lavoratori durante il lavoro, in tutti i settori di attività privati o pubblici”, ed aveva come finalità, affermata nel titolo, il miglioramento della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, concetto il cui contenuto e la cui filosofia appare decisamente più chiara e convincente del nuovo, e piuttosto vago, concetto di ”innalzamento”.
La direttiva 391 del 1989, peraltro, reca un concetto identico a quello del vigente D. Lgs. n. 626/94: Articolo 1 – Oggetto – 1: “La presente direttiva ha lo scopo di attuare misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro.”
Tale concetto è piuttosto diverso da quello previsto dal progetto di Testo Unico.
Art. 3 Campo di applicazione soggettivo (innovativo)
Il comma 2 estende la tutela prevenzionistica a tutte le forme di lavoro, indipendentemente dal contratto stipulato con un datore di lavoro o un committente.
L’art. 3 commi 3 e 4 del Testo Unico introduce l’obbligo di fornire i dispositivi di protezione individuale (“in relazione alle effettive mansioni effettuate”) ai lavoratori a domicilio, a quelli che rientrano nel campo di applicazione del contratto collettivo dei proprietari di fabbricati ed a coloro che svolgono l’attività lavorativa mediante collegamento informatico e telematico (c.d. Telelavoro) e prevede che, qualora vengano fornite a tali lavoratori attrezzature del Datore di Lavoro, queste debbano “essere conformi alle disposizioni di cui al Titolo III del presente decreto legislativo”.
Il comma 5 prevede che ai “collaboratori coordinati e continuativi [...], anche nella modalità a progetto” si applichino le tutele previste dall’articolo 10 del presente decreto”; ovvero nulla muta rispetto alla situazione presente, nella quale è applicabile l'art. 7 del D. Lgs. n. 626/94.
Art. 4 Computo dei lavoratori
Il comma 1 alla lettera b) innova la disciplina del D. Lgs. n. 626/1994 (art. 2) laddove ora esclude “gli allievi degli istituti di istruzione e universitari e i partecipanti ai corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori” dal computo dei lavoratori ai fini di diversi adempimenti previsti in materia di sicurezza del lavoro.
Art. 5 Definizioni
L’art. 5 comma 1 lett. a) del T.U. fornisce una definizione di ‘lavoratore’ “parzialmente innovativa” (come la definisce la relazione ministeriale) rispetto alla precedente in quanto specifica che “è la persona che presta il proprio lavoro fuori dal proprio domicilio alle dipendenze o sotto la direzione altrui “per profili di sicurezza”;
L’art. 5 comma 1 lett. h) e lett. i) del T.U. introduce poi le definizioni di “pericolo” e di “rischio”.
Sorprendente l'art. 5 comma 1 lett. l), dal quale si desume che è «norma di buona tecnica» non solo una “specifica tecnica emanata dai seguenti organismi europei, internazionali e nazionali: CEN (Comitato Europeo di normalizzazione), CENELEC (Comitato Europeo per la standardizzazione Elettrotecnica), ISO (Organizzazione Internazionale per la Standardizzazione), IEC (Commissione Internazionale Elettrotecnica), UNI (Ente Nazionale di Unificazione), CEI (Comitato Elettronico Italiano)”, ma altresì “le disposizioni legislative relative ad elementi di natura tecnica o costruttiva contenute nel DPR 27 aprile 1955 n° 547, DPR 7 gennaio 1956 n° 164, DPR 19 marzo 1956 n° 302, DPR 19 marzo 1956 n° 303, DPR 20 marzo 1956 n° 320, DPR 20 marzo 1956 n° 321, DPR 20 marzo 1956 n° 322, DPR 20 marzo 1956 n° 323”, derubricandole da norme prevenzionistiche sanzionate penalmente a norme che assumono una connotazione fondamentalmente diversa, retrocedendo di rango, nel sistema delle fonti del diritto, da fonte primaria a norma tecnica sussidiaria ed eventuale.
Il tutto, peraltro, con un grosso errore materiale dell'estensore del Testo Unico, che non si è accorto di avere abrogato il D.P.R. n. 303/1956 all'articolo 186 (sic).
Si introduce anche un inedito riferimento (lett. m) alle “«buone prassi»: soluzioni organizzative o procedurali coerenti con la normativa vigente e generalizzabili, che permettono di ottenere una riduzione dei rischi, miglioramenti delle condizioni di lavoro e in generale la promozione della salute sui luoghi di lavoro raccolte e validate dalle Regioni, dall’Ispesl, dall’Inail e dagli Enti Bilaterali”.
Infine si dà ampio spazio al ruolo e alle funzioni degli Enti Bilaterali.
Capo II Principi generali di prevenzione
Art. 6 Misure generali di tutela
Interessante e importante il comma 2 dell’art.6, che riscrive il vecchio art. 3 del D. Lgs. n. 626/94 affermando che
“2. (sic) I principi generali di prevenzione per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro sono:
a) valutazione dei rischi per la salute e sicurezza;
b) eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico mediante misure tecniche, organizzative e procedurali concretamente attuabili nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni in quanto generalmente utilizzate [...]”.
Il Testo Unico con questa modifica introdotta dalla lettera b) intende ridurre la portata degli obblighi impliciti in un principio di prevenzione solidamente presente nel nostro ordinamento, ovvero quello previsto dall'art. 2087 del codice civile. Tale norma è stata oggetto di una interpretazione costante della nostra giurisprudenza di legittimità, la quale in numerosissime sentenze, che definiscono un orientamento assolutamente costante, ha enucleato da tale articolo l'obbligo del Datore di Lavoro-imprenditore di perseguire la massima sicurezza tecnologicamente fattibile, ovvero l’obbligo di tutelare l'integrità fisica, morale e psicologica del lavoratore adottando tutte le misure tecniche, organizzative e procedurali concretamente fattibili. Nel commento ministeriale (nota 15) si precisa che “l’integrazione si rende necessaria al fine di adeguare la norma al principio della “concreta attuabilità” già presente nella normativa vigente in materia di sicurezza (es. D. Lgs. n. 277 del 1991)”. Secondo l'estensore del commento “tale principio è stato espressamente interpretato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 312/1996 nella quale, in sostituzione del concetto di “massima sicurezza tecnologicamente fattibile”, è stato affermato che il generale dovere di protezione della sicurezza dei lavoratori è soddisfatto, in particolare rispetto a norme che impongono la realizzazione di risultati (minimizzazione del rischio o massimizzazione della sicurezza), attraverso il riferimento “alle misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti”.
Il commentatore però dimentica che la sentenza citata (isolata, e che riguardava il rigetto della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Pretore di Reggio Emilia, sez. distaccata di Guastalla) aveva ad oggetto esclusivamente il rischio da rumore e le disposizioni in materia del D. Lgs. n. 277/1991 ed ogni sua estensione a tutta la rimanente legislazione prevenzionistica è una scelta politica e legislativa e non deriva affatto dalla logica della sentenza, che infatti la giurisprudenza della Cassazione ha interpretato nel senso di eccezione al più generale principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile.
In riferimento all'adozione delle misure “concretamente attuabili” (nel senso di cui al principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile ex art. 2087 c.c. e all'art. 3 c. 1 lett. b) del D. Lgs. n. 626/96) per la riduzione al minimo del rumore nell'ambiente di lavoro (art. 41 D. Lgs. n. 277/1996), la Corte Costituzionale ha sottolineato che “il legislatore si riferisce alle misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti generalmente acquisiti, sicché penalmente censurata sia soltanto la deviazione dei comportamenti dell'imprenditore dagli standard di sicurezza propri, in concreto e al momento, delle diverse attività produttive” (sentenza n. 312 del 18 luglio 1996).
La Cassazione ha successivamente precisato che quest'ultima sentenza interpretativa della Corte Costituzionale ha inciso solo sulle misure organizzative e procedurali "concretamente attuabili" per ridurre al minimo i danni derivanti dall'esposizione al rumore di cui all'art. 41 comma 1 D. Lgs. n. 277/1991, “dando specificità al generico dettato legislativo attraverso il riferimento agli standard di sicurezza generalmente praticati nei vari settori produttivi”. Ma l'art. 24 del D.P.R. n. 303/1956, rimasto in vigore per quanto attiene il danno extrauditivo (anche in applicazione degli articoli 2087 del codice civile e 3 del D. Lgs. n. 626/94), pone in effetti a carico del datore di lavoro non tanto l’“adozione di misure organizzative e procedurali, bensì dei provvedimenti consigliati dalla tecnica per diminuire l'intensità dei rumori propri delle lavorazioni a rischio: tale precetto corrisponde a quello contenuto nella prima parte del comma 1 dell'art. 41 D. Lgs. 277/1991, cioè "riduzione al minimo, in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, dei rischi [...] mediante misure tecniche” (Cass. sez. IV pen., 16 maggio 1997 in c. Minestrina). Dunque “è agevole comprendere che, nel quadro interpretativo delineato dalla Suprema Corte di legittimità, la sentenza n. 312 della Corte Costituzionale è, sì, destinata ad incidere sull'art. 41, comma 1, del D. Lgs. n. 277/91, ma con esclusivo riguardo alle misure organizzative e procedurali, non invece in rapporto alle misure tecniche, che devono ispirarsi tutt’ora al principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile”.
Di fatto con questa disposizione del Testo Unico, che rappresenta una norma speciale e posteriore, viene derogata l'applicazione della norma generale e peraltro anteriore dettata dall'art. 2087 del codice civile, secondo i noti principi giuridici che regolano la successione delle norme nel tempo in base ai quali da un lato la norma successiva nel tempo prevale su quella precedente (‘lex posterior derogat priori’) e dall’altro la norma speciale prevale su quella generale (‘lex specialis derogat generali’).
Pertanto l’art. 2087 del codice civile non sarà più applicabile nei termini previsti in precedenza dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale “il datore di lavoro deve ispirare la sua condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza. Pertanto non è sufficiente che una macchina sia munita degli accorgimenti previsti dalla legge in un certo momento storico se il processo tecnologico cresce in modo tale da suggerire ulteriori e più sofisticati presidi per rendere la stessa sempre più sicura. L'art. 2087 c.c., infatti, nell'affermare che l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa misure che, secondo le particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, stimola obbligatoriamente il datore di lavoro ad aprirsi alle nuove acquisizioni tecnologiche” (Cassazione Penale, Sez. IV - 27 settembre 1994 n. 10164, Kuster, cfr. anche Cass. Pen., Sez.IV, 8.3.1988, Corbetta).
Tutto ciò comporta che non sarà più prescritto dall’ordinamento l'obbligo di preseguire una sicurezza assoluta, ma solo relativa, dettata dalle applicazioni tecnologiche generalmente praticate e dagli accorgimenti organizzativi e procedurali generalmente acquisiti nei diversi settori e nelle diverse lavorazioni, secondo il principio della “concreta attuabilità”.
L’art. 6 comma 1 lett. f) del Testo Unico, che elenca le misure generali di tutela, prescrive il rispetto dei principi ergonomici nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, “in particolare al fine di ridurre gli effetti sulla salute del lavoro monotono e di quello ripetitivo” (che sostituisce l’espressione precedente, “anche per attenuare il lavoro monotono e quello ripetitivo” ex art. 3 lett. f) del D.Lgs.626/1994 per conformarsi alla precisa disposizione della direttiva n. 89/391 art. 6 paragrafo 2).
Sempre il comma 2 lettera l) prevede la “programmazione delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza, attraverso l’adozione di codici di condotta e di buone prassi”.
Anche qui quello che era un obbligo intrinseco al documento di valutazione dei rischi, previsto dall'art. 4 comma 2 lett. c) del D.Lgs.626/1994, viene “innalzato” a principio generale, ma di fatto non è più un requisito del documento di valutazione dei rischi e quindi dal punto di vista pratico e applicativo ne viene meno l'aspetto di obbligo penalmente sanzionato precedentemente previsto.
Art. 7 Obblighi dei datori di lavoro e dei dirigenti
Il comma 1 lett. b) modifica drasticamente l'obbligo di redazione del documento di valutazione dei rischi lavorativi, prevedendo che “la scelta dei criteri di redazione del documento è rimessa al datore di lavoro”, che “vi provvede con criteri di semplicità, brevità e comprensibilità”. Dunque il valore prioritario è ora quello della semplicità, brevità e comprensibilità. Mentre il terzo requisito non sollecita discussioni, i primi due, posti prioritariamente e apoditticamente, sembrano ridurre la portata prevenzionistica di tale documento, anche se lo stesso articolo aggiunge che comunque occorre garantirne “la completezza e l’idoneità quale strumento operativo di pianificazione degli interventi aziendali e di prevenzione”.
Secondo il commento che accompagna il Testo Unico “la disposizione non intende impedire all’Autorità giudiziaria di “trarre notizie di reato” dal documento di valutazione del rischio, ma evitare che le indicazioni contenute nello stesso documento vengano assunte, di per sé, quali “fonte o elemento di prova” ai fini sanzionatori”.
In effetti è difficile sfuggire alla tentazione che la norma sia stata scritta non tanto per rendere il documento un efficace e idoneo documento di gestione della sicurezza aziendale, quanto per far fronte a situazioni di fatto, nelle quali il giudice penale ha tratto elementi di prova della colpevolezza penale del Datore di Lavoro e del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione da un documento di valutazione inesatto, incompleto e insufficiente.
Peraltro la valutazione delle prove in sede penale è definita da criteri contenuti nel codice di procedura penale e nel codice penale, e quindi difficilmente la nuova disposizione renderà più agevole la posizione dei soggetti obbligati.
L’art. 7 comma 2 lett. d) prevede l’obbligo di aggiornamento delle misure di prevenzione “secondo le applicazioni tecnologiche generalmente praticate nel settore di attività dell’azienda o dell’unità produttiva” riducendo così l’applicabilità del principio della massima sicurezza tecnicamente fattibile ex art.2087 del codice civile, nei termini già analizzati in relazione all'art. 6 comma 2 lett. b).
L’art. 7 comma 2 non richiama l’obbligo del Datore di Lavoro in precedenza previsto dall’art. 4 comma 5 lett. g) del D. Lgs. n. 626/94 di richiedere “l’osservanza da parte del medico competente degli obblighi previsti dal presente decreto, informandolo sui processi e sui rischi connessi all’attività produttiva”; viene così cancellato l'obbligo, penalmente sanzionato, del datore di lavoro di vigilare affinché il medico svolga i compiti che la legge gli attribuisce.
L’art. 7 comma 6 riduce e semplifica ulteriormente l’obbligo di redazione del documento di valutazione dei rischi, già abbondantemente semplificato da un precedente Decreto Ministeriale del 6 dicembre 1996, per le aziende artigiane ed industriali fino a 50 addetti, agricole e zootecniche fino a 10 addetti, aziende della pesca fino a 20 addetti e per le altre aziende fino a 200 addetti.
Art. 8 Obblighi dei preposti
L'articolo 8 semplifica radicalmente la disciplina relativa agli obblighi penalmente sanzionati a carico dei preposti, riducendo radicalmente il novero dei comportamenti penalmente illeciti a quelli descritti da questo solo articolo, a confronto delle decine di ipotesi incriminatorie precedentemente previste dal D. Lgs. n. 626/94. Questa estesa deresponsabilizzazione dell'unico soggetto della gerarchia aziendale che è a diretto contatto del lavoratore, e che meglio di altri può svolgere il compito di far rispettare le disposizioni aziendali in materia di prevenzione, costituisce un significativo indebolimento dell'azione prevenzionistica aziendale, la cui logica ispiratrice sfugge anche all'osservatore più attento.
Art. 9 Obblighi dei lavoratori, dei lavoratori autonomi e dei componenti dell’impresa familiare
Vengono introdotti parziali obblighi prevenzionistici anche a carico dei lavoratori autonomi e dei collaboratori familiari, che ampliano l'area del lavoro protetto dalla normativa di prevenzione.
Art. 10 Obblighi dei datori di lavoro committenti e appaltatori nel contratto di appalto, dei lavoratori autonomi nel contratto d'opera, del distaccante e del distaccatario.
L’art.10 comma 4 prescrive l’obbligo in capo al Datore di Lavoro distaccante di formare ed addestrare i lavoratori distaccati ai sensi dell’art. 30 del D. Lgs.10 settembre 2003 n. 276 per l’uso delle attrezzature di lavoro necessarie allo svolgimento dell’attività lavorativa per la quale viene attuato il distacco e stabilisce le modalità di adempimento di tale obbligo.
Per il resto nulla viene innovato rispetto al vigente art. 7 del D. Lgs. n. 626/94.
Capo VI Consultazione e partecipazione dei datori di lavoro
Art. 26 Attribuzioni del rappresentante per la sicurezza
Il comma 1 lettera e) stabilisce una innovazione di non poco conto, laddove prescrive che il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza:
“e) riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente alla valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative, con esclusione del documento di cui all’articolo 7, comma 1, lett. b), nonché quelle inerenti alle sostanze ed ai preparati pericolosi, alle macchine, agli impianti, alla organizzazione e agli ambienti di lavoro, agli infortuni ed alle malattie professionali”.
Nella nota 17 del commento ministeriale si precisa che:
“L’inserimento dell’inciso “con esclusione del documento di cui all’art. 7, comma 1, lett. b)” si rende necessario per chiarire definitivamente che un obbligo di riproduzione del documento e di consegna dello stesso al Rls non può essere configurato, anche nel caso in cui ciò fosse tecnicamente praticabile, a motivo della riservatezza industriale che spesso caratterizza molte delle informazioni in esso contenute. Le stesse parti sociali, nell’accordo interconfederale Confindustria – CGIL – CISL - UIL del 22 giugno 1995, hanno convenuto, nel rispetto delle disposizioni del D. Lgs. n. 626/1994, che il diritto di accesso del Rls al documento di valutazione dei rischi di cui all’art. 4, comma 2, dello stesso Decreto Legislativo - a differenza della documentazione di cui all’art. 19, comma 1, lett. e) (“documentazione aziendale inerente alla valutazione dei rischi”, che è cosa diversa dal vero e proprio “documento di valutazione dei rischi”) – si esercita esclusivamente mediante consultazione presso la sede aziendale”.
Tale deduzione è del tutto in contrasto con quanto definito in precedenza dalla prassi amministrativa e dalla giurisprudenza.
La magistratura ha affermato che "tenuto conto del ruolo effettivo e non meramente formale del RLS […] lo stesso abbia diritto alla materiale consegna dei documenti", ovviamente in copia, necessari per svolgere appieno le sue funzioni (si veda il parere della Procura della Repubblica di Milano del 29 gennaio 1998 in risposta a una richiesta di chiarimento presentata dalla Azienda u.s.s.l. 40 di Milano). È da dire inoltre che ben difficilmente la consegna di copia del documento sulla valutazione dei rischi potrebbe comportare una violazione del segreto industriale (a cui il r.l.s. è comunque tenuto).
La Circolare 3 Ottobre 2000 numero 68 emanata dallo stesso Ministero che ha predisposto il Testo Unico ed avente ad oggetto “Accesso del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza al documento di valutazione dei rischi. Chiarimenti interpretativi” fornisce indicazioni utili sui “problemi interpretativi circa l'effettiva portata dell'onere di consegna del documento di valutazione del rischio al rappresentante dei lavoratori da parte del datore di lavoro”.
La Circolare precisa che “il "diritto di accesso" al documento di valutazione del rischio, previsto dall'art.19, comma cinque del D.Lgs. n. 626 del 1994 va in ogni caso assicurato, in via ordinaria, mediante la materiale consegna del documento”, “solo in via eccezionale, qualora obiettive esigenze di segretezza aziendale legata a ragioni di sicurezza o particolari oneri di riproduzione non rendano praticabile tale consegna, il datore di lavoro potrà assicurare altrimenti il diritto di accesso del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza mediante forme e modalità che consentano comunque la messa a disposizione del documento di valutazione del rischio”.
In quest’ultimo caso “spetta comunque al datore di lavoro dimostrare la sussistenza dei presupposti di fatto che non consentono la materiale consegna del documento al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”.
Il diritto del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (Rls) a ricevere la documentazione e le informazioni rilevanti in materia di salute e sicurezza del lavoro, pur imposta al datore di lavoro dall'art. 18 del D. Lgs. n. 626/94, è spesso oggetto di resistenze giuridicamente illegittime da parte di alcuni datori di lavoro.
Con una significativa sentenza del Tribunale di Pisa del 7 marzo 2003 [Giudice G. Schiavone, Ricorrente Segreteria Provinciale CO.I.SP Resistente Questore di Pisa] il tema è stato oggetto di un chiarimento importante. La sentenza è stata così massimata da Guida al Lavoro, il settimanale de Il Sole 24 ore (n. 13 del 29 marzo 2003 pag. 44):
Al rappresentante per la sicurezza si applicano, ai sensi dell'articolo 19, comma 4, del D. Lgs. 626/94, le stesse tutele previste dalla legge per le rappresentanze sindacali, ivi compresa la tutela ex art. 28 dello Statuto dei Lavoratori.
E', pertanto, da ritenersi antisindacale la condotta del datore di lavoro che abbia omesso, nonostante le reiterate richieste da parte del rappresentante per la sicurezza, di fornirgli i documenti e le informazioni riguardanti ilpiano per l asicurezza, la valutazione dei rischi, il parere del medico competente ed ogni altra comunicazione relativa ai provvedimenti che il datore intendeva adottare ai fini dell'adeguamento dei locali di servizio a quanto stabilito dal D. Lgs. n. 626/94 (nel caso di specie, il Giudice ha accertato la sussistenza della condotta antisindacale nel comportamento di un dirigente dell'Amministrazione pubblica per aver omesso di rilasciare al rappresentante per la sicurezza, che nello specifico era anche segretario provinciale del sindacato CO.I.SP, le informazioni e i documenti attestanti l'adempimento degli obblighi di salute e sicurezza relativamente ai locali di servizio mensa).
[L'autore informa che l'articolo è parte di una discussione in corso sul sito AIAS].
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