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La sicurezza si nasconde nei dettagli

Per moltissimi anni la sicurezza è stata definita come una condizione in cui il numero di eventi avversi come gli infortuni, gli incidenti senza conseguenze, i cosiddetti “near misses”, le condizioni pericolose o “hazards” sia il più basso possibile. Secondo questa prospettiva, la gestione del Sistema di Sicurezza in azienda, richiamando l’art. 30 del T.U. 81, sta nel garantire che il numero di questi eventi avversi rimanga il più basso possibile, chiaramente compatibilmente con la tipologia di azienda e i rischi connessi alle varie mansioni e alla tipologia dei luoghi di lavoro della stessa. In termini pratici, sembra che paradossalmente lo stato della condizione di sicurezza aziendale venga misurata in base alla quantità di eventi in cui si ha un fallimento, anche parziale, della sicurezza stessa, invece che tener conto di tutte quelle situazioni quei momenti in cui invece ha successo, come se fossero di minore importanza. Evidentemente, questo approccio induce i lavoratori, i preposti, ed in generale tutti coloro che hanno un ruolo chiave in termini di salute e sicurezza aziendale, a pensare di dover “saper rispondere a tutto quello che va o che potenzialmente potrebbe andare male”.

 

Provando però a cambiare prospettiva, se provassimo a focalizzarci sul buon andamento della sicurezza in azienda (e quindi alla riuscita del sistema di gestione della stessa), invece che sulle sconfitte, avremmo la percezione della materia di sicurezza non come il tentativo di far sì che qualcosa “finisca male”, ma come una certezza, una garanzia che “sta andando tutto bene”. Quello che spesso l’essere umano, condizionato da una serie di fattori quali la stanchezza, la troppa confidenza con il luogo di lavoro o di transito, etc.. spesso non riesce a cogliere, sono le variabili che intervengono e inevitabilmente modificano il sistema di riferimento, in questo caso il luogo di lavoro, a cui siamo abituati. Basti pensare ad alcuni esempi molto comuni ma che spesso si tende a trascurare anche e soprattutto in fase di valutazione dei rischi, quali condizioni metereologiche avverse (pioggia, vento,), condizioni climatiche limite (calore estivo soffocante o freddo rigido invernale), scarsa illuminazione (il luogo di lavoro cambia letteralmente faccia se osservato in visione diurna rispetto che in visione notturna), o ancora guasti o malfunzionamenti delle attrezzature da lavoro, cambio dei componenti, quindi delle persone, all’interno di squadre di lavoro, possibili interferenze dovute alla coesistenze, nello stesso contesto, di più squadre o più aziende, e così via.

 

 

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È proprio in queste circostanze fuori dallo standard che il lavoratore ha in testa che la sicurezza ha successo: se provassimo a contare, nonostante l’elevato numero delle variabili ed il continuo cambiamento delle stesse, il numero dei risultati che consideriamo “buoni” o “desiderati”, rispetto a quelli in cui la sicurezza non è andata come ci saremmo aspettati, la nostra visione della materia cambierebbe notevolmente. Pertanto, il nuovo scopo sarà quello di provare a garantire che il maggior numero possibile di attività all’interno di una stessa azienda vada per il verso giusto, e che il lavoro di tutti i giorni raggiunga gli obbiettivi prefissati. Da un punto di vista pratico e, se vogliamo, quantitativo, la sicurezza viene gestita in base al numero degli obbiettivi raggiunti (gli eventi che sono “andati bene”), e che quindi viene misurata contando il numero dei successi anziché degli insuccessi.

 

Affinché quanto sopra sia possibile però, non possiamo accontentarci di una sicurezza reattiva, ma dobbiamo puntare a una sicurezza che sia pro-attiva: ogni attore della sicurezza (dal lavoratore al dirigente delegato) deve basare la sua percezione della stessa sul fatto che le prestazioni o le attività che svolge tutti i giorni vanno a buon fine, anziché far riferimento a quando queste sono fallite, seguendo l’approccio quasi standard di molte valutazioni o analisi dei rischi.

 

Lo scoglio vero e proprio di questa “transazione” dalla vecchia alla nuova prospettiva, è che si tratta a tutti gli effetti di un cambio culturale; una formazione efficace può essere una rampa di lancio verso un pensiero comune innovativo, che evidentemente dovrà poi venir coltivato tramite interventi mirati quali training on the job, condivisione dei risultati ottenuti e dei “Safety KPI” con i lavoratori, i preposti, e i loro rappresentanti.

 

L’obbiettivo finale sarà il monitoraggio delle diverse attività in tema di metodologia di lavoro: gli operatori sono (o saranno) capaci di svolgere il loro lavoro di routine avendo sempre un occhio aperto per quelle variabili che potrebbero intervenire sul loro sistema di riferimento e alterarne il risultato, anche in termini di sicurezza?

 

“Ai posteri l’ardua sentenza…”

 

 

Massimo Servadio

Psicoterapeuta e Psicologo del Lavoro e delle Organizzazioni, Esperto in Psicologia della Salute Organizzativa e Psicologia della Sicurezza lavorativa




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