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Dall’inchiesta alla storia: un repertorio di storie di infortuni

 
Così inizia la storia intitolata “Volevo essere a casa per Natale” raccontata da un operatore del Servizio di Prevenzione e Sicurezza negli Ambienti di Lavoro (SPreSAL) dell’ASL TO3 di Collegno e Pinerolo in provincia di Torino.
 
È una delle 24 storie di infortunio scritte da 43 operatori SPreSAL del Piemonte pubblicate sul sito del Centro di Documentazione per la Promozione della Salute (DoRS).
 
Questo è il primo risultato del progetto “ Dall’inchiesta alla storia: costruzione di un repertorio di storie di infortunio sul lavoro” iniziato nel 2012 a cura di DoRS, del Servizio di Epidemiologia e degli operatori delle ASL piemontesi.
 
L’obiettivo è raccogliere storie di infortunio redatte a partire dalle inchieste dei Servizi di Prevenzione e Sicurezza negli Ambienti di Lavoro, valorizzandone la struttura narrativa con inserti di testimonianze dirette e indirette, fotografie e filmati.
 
Gli SPreSAL del Piemonte partecipano al sistema nazionale di sorveglianza degli infortuni lavorativi analizzando come accadono gli infortuni e quali ne sono le cause. Si è trattato dunque di affiancare a questo sistema un nuovo modo di raccontare l’infortunio che privilegiasse i diversi punti di vista dei soggetti coinvolti, i fattori di contesto fondamentali ma spesso trascurati e tutti gli elementi utili a far emergere le indicazioni preventive, evidenziando ciò che si sarebbe dovuto fare per evitare che accadesse.
 
Sono stati realizzati 3 incontri, strutturati come laboratori, durante i quali si è affrontato il tema della narrazione che, come già per la medicina, sembra essere una modalità efficace per condividere le conoscenze tra chi si occupa di prevenzione. Lo studio di un infortunio realmente accaduto, descritto con un linguaggio semplice e chiaro, stimola processi di identificazione che ne favoriscono il ricordo e l’apprendimento.
 
Al termine di ognuno dei 3 laboratori, gli operatori hanno redatto una storia che, dopo un processo di peer review, è stata pubblicata sul sito.
 
Tra gli sviluppi futuri si prevede di promuovere e sperimentare l’uso delle storie di infortunio, raccolte con il contributo anche di operatori di altre regioni, come casi studio nel corso di attività formative sia in ambito accademico sia in aggiornamento professionale. Un’ulteriore sfida è la costruzione di una comunità di pratica tra gli operatori con l’obiettivo di validare le indicazioni per la prevenzione di alcune storie emblematiche. Le indicazioni condivise alimenteranno una banca dati soluzioni disponibile sul web costituendo un patrimonio comune di conoscenza sistematizzata e di qualità. Infine verrà sviluppata un’area destinata ai commenti per stimolare il dibattito e il confronto tra i soggetti interessati, con l’obiettivo strategico di coinvolgere i lavoratori, destinatari privilegiati e primi promotori di sicurezza sui luoghi di lavoro.


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Formazione specifica sui D.P.I. (D. Lgs. n.81, 9 aprile 2008, Art. 66 D.P.R. 177/2011)

 
 
Volevo essere a casa per natale
a cura di Federico Magrì, Servizio Pre. S.A.L. della Asl TO3
 
Mi chiamo Ivo, ho 53 anni, e da una vita lavoro come meccanico e faccio montaggi di macchinari, quasi sempre in trasferta in giro per l’Italia e l’Europa. Eravamo a metà dicembre del 2012 quando, appena tornato a Terni (dove abito) da una trasferta, il mio titolare mi ha detto che prima delle festività io e due dei miei operai avremmo dovuto andare a montare dei macchinari su un impianto a biogas in provincia di Torino. Un lavoro veloce, tre, massimo quattro giorni, così avremmo potuto essere a casa per Natale. Il titolare era un po’ preoccupato perché la ditta da cui prendeva i lavori abbassava ogni volta l’importo per la nostra ditta. Ora ci dava un incarico da seimila euro, con i quali il titolare doveva pagare lo stipendio e la trasferta di tre operai e il noleggio di un’autogru.
Un impianto da più di un milione di euro e noi lavoravamo per seimila. Certo c’era poco da guadagnare con lavori del genere…
 
Mi misi subito ad organizzare la cosa, ed il 18 dicembre, alle 5 del mattino, io ed i due operai siamo partiti con il camioncino aziendale, sul quale avevamo già caricato i vari materiali e le attrezzature. La ditta che produce i macchinari che dovevamo montare mi aveva assicurato che li avrebbe consegnati in cantiere quel giorno stesso, in mattinata.
Verso l’ora di pranzo siamo arrivati in quel paesino di campagna, non ricordo nemmeno il nome, fra Torino e Pinerolo. Trovato l’agriturismo dove avremmo dormito, abbiamo lasciato le nostre cose in camera ed abbiamo mangiato un boccone. Appena finito di mangiare siamo andati in cantiere. Lì ci aspettava il tecnico della ditta che aveva costruito i pezzi dell’impianto che dovevamo montare (e che a sua volta lavorava in subappalto dalla ditta responsabile dell’intero impianto), il quale doveva sovrintendere al nostro lavoro. Poco dopo è arrivata anche l’autogru con operatore di una ditta della zona che avevamo noleggiato telefonando da Terni.
 
Certo eravamo un gruppetto stile “armata Brancaleone”: tre operai da Terni, un tecnico da Trento, un gruista della provincia di Cuneo, tutti a lavorare in un cantiere a 30 km da Torino. E non basta: in cantiere oltre a noi erano al lavoro almeno altre 7 o 8 imprese, ognuna con i suoi operai ed ognuna impegnata a fare cose diverse. Era un continuo viavai ed un intrecciarsi di mezzi, materiali e persone. La causa di ciò era che per ottenere i finanziamenti statali l’impianto doveva entrare in funzione entro il 31 dicembre, ma i lavori erano ancora abbastanza indietro, e d’inverno le giornate sono corte, quindi bisognava fare in fretta, molto in fretta.
 
Per me la scadenza non era il 31, ma il 25: io volevo essere a casa per Natale, passare le feste con mia moglie e i miei ragazzi, dopo un anno passato sempre via per il lavoro.
Abbiamo passato il pomeriggio a predisporre i pezzi di macchinario e assemblarne insieme alcune parti poi, arrivato il buio, siamo andati a dormire.
Il mattino dopo, alle 7 eravamo di nuovo in cantiere. Faceva un freddo cane, era ancora scuro e la nebbia ghiacciata aveva ricamato di brina tutta la campagna circostante.
Dovevamo montare un elevatore a coclea in posizione verticale sul fianco del digestore, la vasca circolare in cui i liquami fermentano per generare il biogas. L’elevatore aveva un braccio inclinato che doveva entrare all’interno del digestore, passando attraverso una feritoia inclinata appositamente lasciata dai carpentieri nella muratura del digestore.
 
Mentre i pezzi erano ancora a terra, abbiamo assemblato la parte verticale dell’elevatore con il braccio inclinato, facendo attenzione che l’angolo fra i due pezzi fosse quello indicato a disegno. Poi, con l’autogru, abbiamo sollevato l’elevatore per infilarne il braccio inclinato all’interno della feritoia. Il braccio però si è subito bloccato, e non c’era modo di farlo entrare nella feritoia. Non capivo il perché, poi ho scoperto che gli addetti di un’altra ditta avevano tappato la feritoia per fare le prove di tenuta del digestore, e si sono pure arrabbiati perché stavamo interferendo col loro lavoro.
 
Ma io che ne sapevo, nessuno mi aveva detto nulla! Il risultato è stato che abbiamo perso oltre un’ora aspettando che finissero le loro prove e togliessero il diaframma con cui avevano sigillato la feritoia. Se continua così altro che tornare a casa per Natale…
 
Abbiamo ripreso il nostro lavoro, e nuovamente abbiamo infilato il braccio inclinato dentro la feritoia; stavolta è entrato bene, ma ci siamo accorti subito di un altro problema: la feritoia era stata fatta con l’inclinazione sbagliata, e la parte verticale dell’elevatore a coclea non rimaneva a piombo, ma un po’ storta. Accidenti, in questo cantiere non funziona nulla, ogni cosa è un problema.
 
Non potevamo fare altro che rimettere a terra l’elevatore, smontare il braccio inclinato e rimontarlo con un’inclinazione diversa, in modo da compensare l’errore dell’inclinazione della feritoia. Bisognava però andare a misurare esattamente l’inclinazione del buco della feritoia, che era a 7 metri di altezza da terra. Avevo fatto montare accanto all’elevatore un trabattello con l’altezza giusta, ma non avevamo montato gli intavolati, e quindi c’era solo la struttura in tubi metallici. Pur di fare in fretta e recuperare il tempo perso prima, ho detto ai miei operai che sarei salito io sul trabattello, portandomi su due listelli di legno inchiodati ad un’estremità, come un compasso, per copiare l’angolo della feritoia.
 
Ho anni di esperienza, ho fatto i corsi sulla sicurezza, sono stato nominato preposto, ed avevo lì accanto la sacca con la mia imbracatura e i cordini e i moschettoni per assicurarmi, ma io volevo essere a casa per Natale, dovevo fare in fretta. E così ho deciso di salire senza imbracatura, arrampicandomi sui tubi del trabattello, in fondo era questione di un attimo, presa la misura sarei sceso.
 
Non è andata così.
 
Non ho capito nemmeno io cosa sia successo. Arrivato all’altezza della feritoia, tenendomi ai tubolari del trabattello mi sono sporto per appoggiare i due listelli di legno alla muratura e segnare con un pennarello l’apertura fra i due per avere il riferimento dell’inclinazione della feritoia. Forse il trabattello ha ondeggiato un po’, forse mi sono sbilanciato ed ho perso la presa. Sono caduto a terra da sette metri di altezza, sbattendo violentemente la testa sul getto di cemento.
 
Quando è arrivato il medico dell’elisoccorso non c’era più nulla da fare.
Non sono arrivato a casa per Natale, e mia moglie e i miei figli non passeranno più un Natale con me.
 
 
 
 
RPS

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Rispondi Autore: Luciano Vignati - likes: 0
14/10/2014 (16:52:00)
Sono un ex tecnico del CPT (ente bilaterale di assistenza alla sicurezza nei cantieri edili) e nei 12 anni che ho lavorato, storie simili ne ho viste e sentite tante, ma le motivazioni comportamentali li ho capite solo da pochi anni facendo il docente di antinfortunistica nei corsi teorici e pratici in una scuola della categoria edile. Se il datore di lavoro non lancia il messaggio che occorre comunque in ogni circostanza "lavorare bene, lavorare in fretta e lavorare in sicurezza" molti lavoratori, anche dopo aver partecipato ai corsi sulla sicurezza, hanno ancora comportamenti pericolosi, retaggio di anni di in cui la vita umana non valeva nulla.

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