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Datore di lavoro nelle grandi imprese e obblighi non delegabili

Anna Guardavilla

Autore: Anna Guardavilla

Categoria: Industria

16/03/2009

La Cassazione sulle responsabilità dei membri del Comitato Esecutivo della Thyssenkrupp per l’incendio colposo del 2002 presso lo stabilimento torinese: condannato il Presidente C.E. per omessa valutazione del rischio incendio. A cura di A. Guardavilla.

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Commento a cura di Anna Guardavilla.
 

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In una interessante sentenza recentemente depositata (Cass. Pen. Sez. IV, sent. 28 gennaio 2009, n. 4123) - una delle prime decisioni emanate alla luce del D.Lgs. 81/08 - la Suprema Corte si è pronunciata sull’incendio colposo scoppiato il 24 marzo 2002 e spento solo tre giorni dopo (a seguito dell’intervento di sedici squadre dei Vigili del Fuoco, con l’utilizzo di 270 uomini e di 20 mezzi fissi) presso lo stabilimento Thyssenkrupp di Torino ed in particolare, all’interno di tale stabilimento, presso la zona laminatoio Sendzimir 62.
 
Il reato ascritto agli imputati, il Presidente e due componenti del Comitato Esecutivo, era quello di incendio colposo ai sensi dell’art. 449 comma 1 del codice penale (inserito tra i delitti colposi di comune pericolo), ai sensi del quale “chiunque, al di fuori delle ipotesi previste nel secondo comma dell’articolo 423-bis (incendio boschivo colposo, n.d.r.), cagiona per colpa un incendio o un altro disastro preveduto dal capo primo di questo titolo, è punito con la reclusione da uno a cinque anni”.
 
La Cassazione conferma la condanna di G.V., nella qualità di Presidente del Comitato Esecutivo e di “titolare delle deleghe in materia di sicurezza e igiene del lavoro”, cui era stato contestato di “avere colposamente dato causa all’incendio, per avere omesso di individuare le misure di prevenzione e protezione da adottare contro il rischio incendio e di non avere segnalato la necessità di interventi costosi per fronteggiare l’imminente rischio di incendio”, nonché l’assoluzione disposta dalla Corte d’Appello degli altri due imputati, quali componenti del Comitato Esecutivo, in quanto “erano titolari di deleghe diverse da quella della sicurezza e non erano stati sollecitati da chi era preposto alla sicurezza”.
 
Per quanto attiene alle circostanze di fatto, la Corte d’Appello aveva ritenuto che:
-          anche prima dell’intervento dei Vigili del Fuoco vi fossero tutte le condizioni perché l’evento fosse configurabile come incendio (disattendendo così l’impostazione della difesa di G.V. che sosteneva invece che fino all’arrivo dei VV.F. non sussistessero le caratteristiche dell’incendio, quali la vastità, la diffusività e la difficoltà di estinzione, e che fosse stata l’attività maldestra dei soccorsi a trasformare il fuoco in incendio);
-          fossero riscontrabili rilevanti carenze dei presidi antincendio: in particolare, i locali sottostanti al laminatoio non erano compartimentati, mancava un sistema di intervento ad attivazione automatica e, in ultimo, pur esistendo dei rilevatori di fumo, mancava un sistema video, o a circuito chiuso, che consentisse l’immediata percezione del pericolo con l’entrata in funzione degli esistenti rilevatori di fumo.
 
La Quarta Sezione della Cassazione Penale, dopo aver confermato la correttezza dell’impostazione del giudice di secondo grado, nell’esaminare (ritenendolo infondato) il terzo motivo del ricorrente passa a considerare i profili di validità delle deleghe conferite da G.V.
Ciò rappresenta un’occasione per la Corte per ripercorrere la giurisprudenza in materia di delega di funzioni nelle grandi organizzazioni e dedicare un approfondimento agli obblighi indelegabili, con particolare riferimento alla ratio sottostante a tale scelta legislativa già presente nell’abrogato art. 1 ult. comma del D.Lgs. 626/94 e ora riconfermata dall’art. 17 del D.Lgs. 81/08.
 
Con il terzo motivo, in particolare, il ricorrente aveva sostenuto che la sentenza di merito fosse erronea nella parte in cui aveva escluso la validità delle deleghe conferite da G.V. in materia di sicurezza sulla base della “non trasferibilità a terzi di doveri e poteri in tema di sicurezza. Le violazioni contestate al V. riguardavano, secondo l’assunto difensivo, attività delegabili, in quanto non erano riferite né alla elaborazione del documento di valutazione dei rischi né alla nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione”.
 
Nel rigettare tale assunto difensivo, la Cassazione argomenta che correttamente “i giudici d’appello, richiamando anche le argomentazioni del primo giudice, hanno ritenuto che la delega operata dal V. non valeva ad esonerarlo da responsabilità, essendo taluni obblighi, tra cui quello di valutare i rischi connessi all’attività d’impresa e di individuare le misure di protezione, ontologicamente connessi alla funzione ed alla qualifica propria del datore di lavoro e, quindi, non utilmente trasferibili.”
 
Dunque la Corte riconnette le omissioni colpevoli a carico di V. alla mancata valutazione del rischio incendio e quindi all’omessa individuazione delle corrispondenti misure di prevenzione e protezione, quindi ad obblighi di natura indelegabile che non potevano non gravare su G.V. 
 
Nel far questo, la Cassazione ribadisce i principi dalla stessa sanciti e consolidati nel tempo (in attuazione prima dei D.P.R. degli anni 50 e poi del D.Lgs. 626/94, ed ora alla luce del D.Lgs. 81/08) in tema di delega conferita dal datore di lavoro, ricordando che “è vero che nelle imprese di grandi dimensioni, come sostenuto dalla difesa, si pone la delicata questione, attinente all’individuazione del soggetto che assume su di sé, in via immediata e diretta, la posizione di garanzia, la cui soluzione precede, logicamente e giuridicamente, quella della (eventuale) delega di funzioni.
In imprese di tal genere, infatti, non può individuarsi questo soggetto, automaticamente, in colui o in coloro che occupano la posizione di vertice, occorrendo un puntuale accertamento, in concreto, dell’effettiva situazione della gerarchia delle responsabilità all’interno dell’apparato strutturale, così da verificare la eventuale predisposizione di un adeguato organigramma dirigenziale ed esecutivo il cui corretto funzionamento esonera l’organo di vertice da responsabilità di livello intermedio e finale (così, esattamente, Sezione IV, 9 luglio 2003, Boncompagni; Sezione IV, 27 marzo 2001, Fornaciari, nonché Sezione IV, 26 aprile 2000, Mantero).”
 
Diversamente ragionando si ricondurrebbe all’organo di vertice una sorta di responsabilità oggettiva, inaccettabile a fronte del deferimento ad altri soggetti di obblighi e quindi di connesse responsabilità in materia di salute e sicurezza. 
 
La responsabilità gravante sul datore di lavoro in materia di salute e sicurezza sul lavoro, lungi dall’essere responsabilità oggettiva, va dunque  ricondotta alla posizione di garanzia attribuita a tale soggetto dall’ordinamento prevenzionistico nel suo complesso e quindi in primis dall’art. 2087, norma di chiusura del sistema antinfortunistico che sancisce il principio della massima sicurezza organizzativa, tecnica e procedurale tecnicamente e tecnologicamente fattibile, oltre che ovviamente dalle norme specifiche contenute nella legislazione prevenzionale.
In tal senso, “il datore di lavoro è il primo e principale destinatario degli obblighi di assicurazione, osservanza e sorveglianza delle misure e dei presidi di prevenzione antinfortunistica. Ciò dovendolo desumere, anche a non voler considerare gli obblighi specifici in tal senso posti a carico dello stesso datore di lavoro dal decreto legislativo in commento, dalla “norma di chiusura” stabilita nell’articolo 2087 del codice civile, che integra tuttora la legislazione speciale di prevenzione, imponendo al datore di lavoro di farsi tout court garante dell’incolumità del lavoratore.”
Tutto ciò “con la già rilevata conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l’evento lesivo gli viene addebitato in forza del principio che “non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo” (articolo 40, comma 2, c.p.).” (responsabilità omissiva, equiparata dalla legge alla responsabilità attiva).

Accanto a ciò va ribadito “il principio che la delega non può essere illimitata quanto all’oggetto delle attività trasferibili. In vero, pur a fronte di una delega corretta ed efficace, non potrebbe andare esente da responsabilità il datore di lavoro allorché le carenze nella disciplina antinfortunistica e, più in generale, nella materia della sicurezza, attengano a scelte di carattere generale della politica aziendale ovvero a carenze strutturali, rispetto alle quali nessuna capacità di intervento possa realisticamente attribuirsi al delegato alla sicurezza (v., tra le altre, Sez. IV, 6 febbraio 2007, Proc. gen. App. Messina ed altro in proc. Chirafisi ed altro).”

Ciò giustifica e motiva la previsione da parte del legislatore di una categoria di obblighi intrasferibili in virtù della loro natura di attività afferenti alla fase primaria di impostazione e predisposizione del sistema stesso di prevenzione aziendale.

Tutto ciò trova ora un puntuale riscontro nel c.d. testo unico (artt. 17 e 28), che su questi temi (ma non solo su questi) ha adottato una linea di continuità con la giurisprudenza della Suprema Corte, come ricordato nella pronuncia in commento che sottolinea che tali principi hanno trovato conferma nel decreto legislativo n. 81 del 2008, che prevede, infatti, gli obblighi del datore di lavoro non delegabili per l’importanza e, all’evidenza, per l’intima correlazione con le scelte aziendali di fondo che sono e rimangono attribuite al potere/dovere del datore di lavoro (v. art. 17).  Trattasi: a) dell’attività di valutazione di tutti i rischi per la salute e la sicurezza al fine della redazione del documento previsto dall’articolo 28 del decreto cit., contenente non solo l’analisi valutativa dei rischi, ma anche l’indicazione delle misure di prevenzione e di protezione attuate; nonché b) della designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dal rischi (RSPP)”.

Pertanto la pronuncia della Corte d’Appello è “in linea con i principi sopra tratteggiati, tenuto conto che il profilo di colpa contestato all’imputato e ritenuto dai giudici di merito era stato ravvisato, in sostanza, nella mancata analisi del rischio incendio e nella violazione degli obblighi di individuare le misure di protezione, di definire il programma per migliorare i livelli di sicurezza, di fornire gli impianti ed i dispositivi di protezione individuali, tutti aspetti che riguardano le complessive scelte aziendali inerenti alla sicurezza delle lavorazioni e che, quindi, coinvolge appieno la sfera di responsabilità del datore di lavoro.”


 
 


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