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E’ configurabile il rischio elettivo nelle malattie professionali?

E’ configurabile il rischio elettivo nelle malattie professionali?

Un aggravamento di una malattia professionale in costanza di esposizione è responsabilità del Medico Competente e del Datore di Lavoro, e non potrà mai essere considerato un "rischio elettivo" cui si è sottoposto il lavoratore.

 
Viene commentata una sentenza della Corte di Appello di Genova - aggravamento di una malattia in costanza di esposizione al rischio - partendo dalla sentenza della Corte Costituzionale n.46/2010 - in cui si insinua la presenza di un "rischio elettivo" per il comportamento del lavoratore, al fine di far decadere il diritto alla prestazione, in quanto si ipotizza che l'assicurato si sia sottratto alla previsione di cui all'art. 131 del T.U non avendo abbandonato l'esposizione al rischio consapevolmente.
Dissente integralmente da tale posizione e ritiene che un aggravamento di una malattia professionale in costanza di esposizione è, eventualmente - in comprovata non rispondenza dei comportamenti posti in essere dei soggetti titolari della tutela della salute al dettame normativo sulla prevenzione - responsabilità del Medico Competente e del Datore di Lavoro, e non potrà mai essere considerato un "rischio elettivo" cui si è sottoposto il lavoratore tale da invalidare l'indennizzo.


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La nota sentenza n.46/2010 della Corte Costituzionale ha statuito che la protrazione dell'esposizione al rischio, dopo la costituzione della rendita, allorché comporta un aggravamento delle condizioni cliniche manifestatesi oltre l'ultimo termine revisionale, comporta che detto aggravamento debba essere considerato come una «nuova» malattia, seppure della stessa natura della prima, e come tale deve essere trattato.
 
Dopo l'uscita di questa suggestiva interpretazione ci si è spesi, in più riprese, in una disamina analitica di detta fattispecie con tutte le eventuali ricadute, affrontando le varie tematiche sottese, soffermandosi anche su alcuni gravi incongruenze - dopo aver analizzato tutto l'iter della causa nei diversi e plurimi gradi di giudizio per giungere ad una compiuta definizione - sia da parte della Corte Costituzionale, che dei diversi giudici di merito, che delle parti, attrice e resistente, che non hanno saputo ben interpretare compiutamente l'applicazione del nuovo e "audace" principio.
 
In uno dei tanti commenti ci soffermavamo anche sulla problematica, singolarmente ignorata, legata ad una mancata attività prevenzionale al fine di evitare un possibile, quasi certo, aggravamento legato alla prolungata esposizione anche dopo la manifestazione della malattia professionale, e sulle responsabilità connesse alle prerogative (obblighi) sia del Datore di lavoro che del Medico competente ai fini della tutela della salute del lavoratore.
 
Nel commento a caldo della sentenza, nel marzo 2010, si concludeva il contributo affermando che
"..la sentenza offre anche altri spunti sul piano prevenzionale relativamente alla tutela effettiva della salute del lavoratore laddove il giudizio di idoneità alla mansione specifica, da parte del Medico Competente, abbia mancato di evitare quella stessa esposizione al rischio che è stata causa di malattia professionale." aggiungendo che se è vero che "E' soggetto a responsabilità risarcitoria per violazione dell'art. 2087 c.c. il datore di lavoro che, consapevole dello stato di malattia del lavoratore con la sua residua capacità lavorativa continua ad adibirlo a mansioni, che sebbene corrispondenti alla sua qualifica, siano suscettibili - per la loro natura e per lo specifico impegno (fisico e mentale) - di aggravamento a seguito dell'attività svolta..." (Cass. sez. lav. 3 luglio 1997, n. 5961) la responsabilità non potrà che ricadere sul Medico Competente.
Infatti, come è noto, il Medico Competente deve attuare la sorveglianza sanitaria, con il relativo giudizio di idoneità, non solo in fase preventiva per constatare l'assenza di controindicazioni al lavoro da svolgere ma anche periodicamente onde evitare "un peggioramento delle condizioni di salute del lavoratore a causa dell'attività lavorativa" come statuisce la normativa prevenzionale.
 
Anche se non vi è alcun divieto esplicito per lasciare un lavoratore esposto ad un rischio laddove a causa di detto rischio si sia manifestata la malattia professionale, purché detta attività venga svolta nel rispetto della normativa di riferimento - D-.lgs 81/2008 e s.m.i. - è ovvio che il principio cardine della tutela della salute del lavoratore deve essere prevalente e quindi con maggior cura valutare la possibilità o meno dell'ulteriore esposizione a soggetti già menomati come quelli che hanno già contratto la malattia, al fine di evitare che il proseguimento dell'esposizione possa comportare maggior danno.
 
Fermo detto principio siamo incappati, in materia similare - cioè aggravamento per la continuazione ad esposizione nociva - in una sentenza della Corte di Appello di Genova 1 , che
francamente ci ha lasciati interdetti e assai perplessi in merito alla posizione tenuta da parte dell'Istituto assicuratore che avrebbe dovuto - visto anche la riforma del 2012 con l'affidamento allo stesso anche di specifiche competenze ai fini preventivi - essere un po' più cauto ed attento nel sostenere posizioni con interpretazioni a dir poco "fantasiose" della norma.
 
In concreto, rimandiamo alla lettura completa della sentenza allegata, trattavasi di un soggetto che si vedeva, in sede amministrativa, riconoscere un danno biologico per malattia professionale - " Ipoacusia da rumore" - sotto il minimo indennizzabile, quindi NON risultava contestato l'an ma il quantum, e che adiva il giudizio per vedersi riconoscere un maggior danno; il CTU, ben motivando, riconosceva dopo i necessari accertamenti un danno per ipoacusia da rumore del 9% (D.B.) dal 2008, atto della domanda, con un aggravamento successivo che quantificava, per il 2011, pari all'13%. Il giudice del Tribunale sposava integralmente detta posizione motivandone l'adesione
 
L'Istituto assicuratore proponeva appello - senza entrare nello specifico delle diverse e plurime motivazioni cui si rimanda - con due considerazioni che ci appaiono francamente singolari.
 
La prima laddove si contestava l’aggravamento avvenuto tra il 2008 ed il 2011, dato il breve lasso di tempo tra i due riscontri, sembrando ignorare che per legge in caso di malattia professionale il danno è rivedibile con scadenza annuale, il che statuisce, ope legis, che anche in un brevissimo lasso di tempo, un anno - vi può essere una modificazione della situazione, altrimenti non si comprende la specificità della visita di revisione annuale, motivazione di appello, quindi, quanto meno poco ortodossa.
 
Da segnalare, inoltre, che tale soggetto aveva continuato ad essere esposto ed "...è ampiamente noto in letteratura che persistendo l'esposizione a rischio sia possibile un’aggravamento dell'ipoacusia professionale in relazione all'intensità ed ai tempi di esposizione al rumore ambientale, l'ipoacusia potrà quindi aggravarsi estendendosi anche alle altre frequenze acute per poi coinvolgere anche le frequenze medie." ma l'aggravamento può avvenire anche senza il protrarsi dell'esposizione per un fatto evolutivo progressivo, visto e considerato, che la revisione decorre dalla costituzione della rendita ed a nulla rileva il protrarsi o meno dell'esposizione che semmai potrà comportare un maggiore aggravamento.
 
La seconda, invero sconcertante, laddove ci si avventura nel sostenere che avendo l'assicurato continuato a svolgere - dopo il riconoscimento della malattia professionale - mansioni che lo esponevano rumore nocivo, "..si sarebbe esposto a rischio elettivo, cosi determinando l'interruzione del nesso di causalità tra il danno e l'esposizione al rischio..." in considerazione che l'assicurato essendo consapevole del riconoscimento della malattia professionale non si era sottratto volontariamente al rischio; il tutto veniva fondato su di una interpretazione che riteniamo "provocatoria" dell'art. 136, 1 comma, del D.P.R. n. 1124 del 1965, che recita "Nel caso di inabilità permanente al lavoro in conseguenza di malattia professionale, se il grado dell'inabilità può essere ridotto con l'abbandono definitivo o temporaneo della specie di lavorazione per effetto e nell'esercizio della quale la malattia fu contratta, e il prestatore d'opera non intende cessare dalla lavorazione, la rendita è commisurata a quel minor grado di inabilità presumibile al quale il prestatore d'opera sarebbe ridotto con l'abbandono definitivo o temporaneo della lavorazione predetta."
 
A nostro avviso si ravvedono due grossolane forzature - giustamente respinte entrambe dalla Corte di Appello - uno sul concetto di rischio elettivo e l'altro in merito all'applicazione e rispetto della normativa prevenzionale che non può certo essere in capo al lavoratore ma ad altri soggetti preposti alla "prevenzione ed alla tutele della salute sui luoghi di lavoro".
 
In merito al rischio elettivo - "vivisezionato" è il caso di dire nel campo dell'infortunistica sul lavoro, per dare una compiuta ed esaustiva definizione di "occasione di lavoro, in primis sull' infortunio in itinere - mal si comprende come possa essere fatto riferimento al "rischio elettivo" per una malattia professionale in considerazione che, in quest'ultima fattispecie, il lavoro NON è occasione ma causa!
 
Come è noto la Corte di Cassazione 2 più e più volte ha affermato che "...costituisce orientamento interpretativo acquisito di questa Suprema Corte che il rischio elettivo, quale limite alla responsabilità del datore di lavoro nella causazione degli infortuni sul lavoro, (e di indennizzo da parte Inail ) è ravvisabile, per richiamare una definizione sintetica ricorrente, solo in presenza di un comportamento abnorme, volontario ed arbitrario del lavoratore, tale da condurlo ad affrontare rischi diversi da quelli inerenti alla normale attività lavorativa, pur latamente intesa, e tale da determinare una causa interruttiva di ogni nesso fra lavoro, rischio ed evento secondo l'apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito", ci sfugge quindi la ratio, essendo tacita detta interpretazione ormai UNIVOCA, come possa in qualche modo essere applicato alla malattia professionale il concetto di rischio elettivo dato che la M.P. è sempre da ricollegarsi al lavoro come causa e non come occasione.
 
E' ormai codificato che il "rischio elettivo" sia configurabile solo quando concorrano tre elementi nella condotta del lavoratore:
a) vi deve essere non solo un atto volontario (in contrapposizione agli atti automatici del lavoro, spesso fonte di infortuni), ma altresì arbitrario, nel senso di illogico ed estraneo alle finalità produttive;
b) diretto a soddisfare impulsi meramente personali, il che esclude le iniziative, pur incongrue, ed anche contrarie alle direttive datoriali, ma motivate da finalità produttive;
c) che affronti un rischio diverso da quello cui sarebbe assoggettato, sicché l'evento non abbia alcun nesso di derivazione con lo svolgimento dell'attività lavorativa.
 
Questi elementi concorrono a distinguere il rischio elettivo dall'atto lavorativo compiuto con colpa, costituita da imprudenza, negligenza, imperizia se si vuole ipotizzare nel caso di specie.
Ci si domanda come potesse rispondere a detti requisiti il presunto comportamento del lavoratore per fare rientrare il tutto nel "rischio elettivo".
 
A meno che non si volesse far intendere che c'era un "dolo" per pervenire ad un aggravamento, perché solo se c'è il dolo si perde il diritto alla prestazione come recita l'art. 65 del T.U. , esteso anche alle M.P. , l'indennizzo non viene meno neanche per colpa grave, ma il "dolo" non ha nulla a che fare con il "rischio elettivo".
 
Singolare poi che questa particolare interpretazione del "rischio elettivo" viene svolta equivocamente con riferimento all'art.136 del T.U. - assai incauto - perché così vengono anche ribaltati i ruoli e le responsabilità di chi è obbligato a dare attuazione alla normativa di tipo preventivo, implicita in detto articolo, trascurando anche principi basilari scaturenti dal D.Lgs 81/2008 ed addossando la, eventuale, responsabilità al lavoratore.
 
La sentenza nel respingere anche questo addebito ha "sorvolato" su questo abbaglio, limitandosi a respingerla sotto il profilo giuridico dichiarando da una parte l'inammissibilità del motivo in considerazione che la questione veniva proposta per la prima volta in appello e dall'altra, con pienezza, ne definiva l'infondatezza, "..non essendo stata dedotta l'esistenza di un provvedimento che invitava il lavoratore ad abbandonare le lavorazioni morbigene..." facendo capire chiaramente che comunque erano altri che, eventualmente, si dovevano attivare in tal senso e nulla poteva essere addebitato, come responsabilità, al lavoratore.
 
Il DLgs 81/2008 - ma anche il precedente testo 626/1994 - ha ben delineato compiti e responsabilità dei diversi attori della prevenzione, in primis il Datore di Lavoro ed il Medico Competente e se nel caso di specie il soggetto ha continuato a svolgere la propria attività rimanendo esposto allo stesso rischio, l'eventuale responsabilità del successivo aggravamento non potrebbe mai esser addebitato a quest'ultimo ma semmai a chi ha "omesso" i dovuti controlli prima dell'adibizione nuovamente a detto rischio.
 
Crediamo, anzi siamo certi, che la posizione sostenuta in appello sia stato solo un equivoco, diciamo per troppa foga di difesa, perché è inimmaginabile ritenere detta posizione - anche solo latamente - condivisibile nel metodo e nel merito da chiunque lavori in campo assicurativo sociale ed in campo preventivo ed in chi abbia a cuore la tutela della salute del lavoratore
 
Rimane nello sfondo la problematica da cui eravamo partiti - esposizione allo stesso rischio dopo aver contratto la malattia professionale - ma la soluzione deve essere ritrovata all'interno della normativa di riferimento - senza artifizio alcuno - ed a noi pare già "risolta" in quanto è noto che il giudizio di idoneità deve essere espresso a seguito di visita medica dopo aver constatato ".. l'assenza di controindicazioni al lavoro cui il lavoratore è destinato...".
 
Non è di difficile comprensione il fatto che un soggetto già portatore di una malattia professionale meriti un'attenzione ancor più scrupolosa da parte del medico competente prima di dare il parere di idoneità, e che il Datore di Lavoro non può sottrarsi ad una scelta ponderata di tale figura limitandosi ad una scelta di convenienza economica nell'affidamento di detto compito.
 
E' uno specifico obbligo del Datore di lavoro - norma preventiva - quello di affidare i compiti ai lavoratori "..tenendo conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza" e, come detto, a quanto previsto dall'art.2087 al fine di "..tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro..", per il tramite del medico competente.
 
Il dettame legislativo indica con chiara evidenza come il datore di lavoro, pur se responsabile debba essere sostenuto, nell'adempimento dell'obbligo, da figure specialistiche previste dalla norma stessa, ed in primis dal medico competente relativamente agli obblighi sanitari, in quanto solo il professionista medico può valutare "compiti", "capacità" e "condizioni" del lavoratore per l'adibizione al lavoro, ed è per questo che la scelta dello stesso è una responsabilità piena del Datore di Lavoro che non può limitarsi a chiedere quanto chiede il MC per lo svolgimento dell'attività e basare la sua scelta su un "risparmio", ma valutarne in qualche modo la professionalità per essere veramente garantito in caso di evento negativo.
 
Adriano Ossicini
Specialista in Medicina Legale e del Lavoro
 
 
 
 
 



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