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La formazione sostenibile in tema di sicurezza

La formazione sostenibile in tema di sicurezza
Massimo Servadio

Autore: Massimo Servadio

Categoria: Informazione, formazione, addestramento

26/04/2017

La formazione è un’azione “pertinente” alla sicurezza e alla sostenibilità della vita socio-organizzativa dell’azienda. La “formazione che serve” e la sostenibilità formativa. A cura di Massimo Servadio.

La formazione sostenibile in tema di sicurezza

La formazione è un’azione “pertinente” alla sicurezza e alla sostenibilità della vita socio-organizzativa dell’azienda. La “formazione che serve” e la sostenibilità formativa. A cura di Massimo Servadio.

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Il tema della sicurezza e della salute sui luoghi di lavoro è ormai una priorità nell’agenda delle organizzazioni aziendali. Una sensibilità che è cresciuta nonostante episodi ancora troppo frequenti di disagio lavorativo, causati da una sempre più pressante richiesta (ed esigenza) di efficienza organizzativa e processuale; da cambiamenti repentini e da scenari futuri sempre più precari.

Individuare strategie di azione che assicurino ambienti di lavoro più sicuri e una vita professionale più sostenibile è quindi fondamentale e la formazione diventa un’azione “pertinente” alla sicurezza e alla sostenibilità della vita socio-organizzativa dell’azienda.

 

Il concetto di “formazione” legato alla sicurezza è sempre più spesso associato a quello di “gestione dei rischi” negli ambienti di lavoro.

 

Se percorriamo storicamente le evoluzioni del quadro normativo, è facilmente verificabile come fosse la “presunzione del rischio l’elemento trainante del sistema di tutela della salute” (Kaneklin, Scaratti, 2010). La rigidità di questo modello di prevenzione era associato all’idea di “formazione” come “INformazione” e di lavoratore come “soggetto passivo da rendere edotto”.

 

Nel 1994 la svolta, con il D.Lgs. 626 si passa dal principio di “presunzione del rischio” a quello di “valutazione del rischio” e si inizia a introdurre l’esigenza di una “squadra” della prevenzione.

È con il D.Lgs. 81/08 che finalmente si dà ordine, in un unico testo, al complesso quadro normativo, con una serie di novità, in particolare la legittimazione della formazione come “processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori e agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi” (art. 2, c. 1, 1.aa).

La formazione, pertanto, acquista un ruolo indispensabile nel processo di prevenzione anche se è indubbio debba fronteggiare ancora parecchie criticità nella sua applicazione, soprattutto perché non ancora supportata da un utilizzo “sistemico” di metodologie di valutazione della sua efficacia, in azienda.

 

Se si accetta l’assunto per il quale esiste “una stretta connessione tra i temi di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, la qualità della vita lavorativa e l’efficacia dei processi produttivi” (Kaneklin, Scaratti, 2010), diventa determinante essere in grado di strutturare interventi formativi che siano calati in contesti organizzativi “reali” cioè tengano conto dei processi di costruzione di significato relativi a eventi e comportamenti sulla sicurezza che gli stessi attori organizzativi condividono. In altri termini la domanda formativa deve avvicinarsi alle pratiche lavorative e organizzative esistenti, curare alleanze e accordi con dirigenti e manager per una legittimazione istituzionale di un tale investimento in formazione.

La formazione, quindi, non può essere autoreferenziale e non deve limitarsi a semplice ottemperanza di una norma. Al contrario deve diventare anch’essa sostenibile, praticabile, sfidante e in grado di generare valore, a fronte di costi applicativi non trascurabili.

Si parla di “azione formativa pertinente” (Lipari, 2008), così definita “in quanto capace di stabilire legami con processi organizzativi concreti, di essere e stare dentro i problemi che le persone vivono nei contesti di lavoro” e non semplice modello ideale: il rischio viene percepito come una sintesi di molteplici fattori, dove un ruolo determinante giocano le variabili psicosociali.

 

A questo punto, appare evidente che il concetto di “formazione che serve” è fortemente connesso all’apprendimento dall’esperienza delle pratiche quotidiane, dove i protagonisti sono coloro che costruiscono il significato stesso di sicurezza all’interno dell’organizzazione.

La “formazione che serve”, quindi, ha necessariamente un aspetto di parzialità perché non può prescindere dal vissuto di coloro che quotidianamente danno forma e negoziano la costruzione dei significati nell’ambiente lavorativo.

Come spiegano molto bene Kaneklin e Scaratti (2010): “occorre quindi avere chiaro che aprirsi e investire in chiave formativa sulle pratiche di lavoro comporta l’ingresso in una densità di priorità diverse, riconoscimenti, aspettative, legittimazioni reciproche; di situazioni caratterizzate di volta in volta da conflitti aperti, ancora latenti, da dinamiche di potere, da domande sul senso della stessa formazione proposta e sulla sua utilità”.

 

Ecco insinuarsi il paradosso della sostenibilità formativa: da un lato la necessità di andare a toccare i modelli interiorizzati (nelle rappresentazioni e nelle convinzioni) dei lavoratori, embedded (incarnati) nelle pratiche quotidiane; dall’altro cogliere e accettare tutti i meccanismi messi in atto per affrontare / eludere / bypassare gli aspetti più dolenti, propri di una percezione poco consapevole della responsabilità sui rischi.

Il confine tra dimensione privata e dimensione sociale è molto sottile, pertanto, andare a scavare nella sfera della conoscenza, nei processi di attribuzione di significato e di consapevolezza situazionale rischia di fare saltare equilibri faticosamente costruiti; scardinare dinamiche di potere (o di inerzia) consolidate; riattivare meccanismi di difesa verso verità scomode o conflitti irrisolti.

 

Il dilemma è proprio questo: se non si lavora sul reale e non si interviene sulle pratiche quotidianamente ripetute, la formazione non incide, non “serve”; tuttavia penetrare a questa profondità richiede un’attenta operazione di negoziazione.

Per superare il limite tra vicinanza e intrusione bisogna essere in grado di gestire un costante lavoro di interpretazione e condivisione della percezione nei soggetti coinvolti: il formatore, eticamente, deve legittimare la propria funzione di autorità e regolare eventuali squilibri connaturati alla sua posizione, per evitare di esporsi a strumentalizzazioni o manipolazioni, più o meno esplicitate.

Le persone hanno una posizione lavorativa interna e non solamente un ruolo professionale esterno.

Superare il paradosso della sostenibilità formativa vuol dire riuscire a individuare gli interventi formativi più “addestrativi” e “trasmissivi”, perché non scissi da problematiche e contesto reale. L’obiettivo è coinvolgere e mantenere attive sollecitazioni e attenzioni nell’ambiente lavorativo, in ottica di salute e sicurezza e, in generale, di benessere organizzativo.

 

I temi di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e la ricerca della qualità nella vita lavorativa hanno (e non potrebbe essere diversamente) un minimo comune denominatore: passano necessariamente attraverso gli aspetti personali, i processi interiori di attribuzione di senso e valore dei lavoratori e sono rielaborati attraverso le rappresentazioni sociali.

 

 

Massimo Servadio,

Psicoterapeuta Sistemico Relazionale e Psicologo del Lavoro e delle Organizzazioni



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