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Tra i fattori passibili di condizionare la messa in atto di
comportamenti sicuri sul lavoro, numerose ricerche sottolineano il peso degli atteggiamenti che i lavoratori hanno nei confronti delle misure di sicurezza e nei confronti del lavoro stesso.
Allport, scriveva in merito al concetto di atteggiamento: “E’ la chiave di volta dell’intero edificio della psicologia sociale americana”. Secondo la definizione di Gergen e Gergen (1990) l’atteggiamento è “la reazione spontanea, positiva o negativa, verso una persona o un oggetto”; in sintesi sono le nostre idee sul mondo, il nostro modo di vedere e di sentire. Trovare il modo di cambiare (o stabilizzare) gli atteggiamenti, significa in qualche modo poter pilotare la vita sociale.
Gli atteggiamenti possiedono alcune caratteristiche che ci permettono di comprendere come affrontarli. Ognuno di noi sa di avere idee molto precise in merito ad alcune questioni, ma non in merito ad altre. Queste ultime avrebbero bisogno di un po’ di riflessione senza necessariamente portare ad un opinione chiara.
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Chiunque abbia fatto esperienza di formazione sulla sicurezza sul lavoro ai lavoratori, all’affermazione che bisogna indossare i dispositivi di protezione individuale (DPI) si sarà sentito rispondere, che “con le protezioni è impossibile lavorare, sono un ostacolo”, oppure “sono vent’anni che lavoro in questo modo”. Queste espressioni sono sintomo di resistenze molto forti: l’atteggiamento, per esempio, nei confronti del lavoro con i DPI può essere definito accessibile perché frutto di un’esperienza diretta. Si tratta allora di accettare il modo di reagire di queste persone per accompagnarle, in un processo lento, verso nuove esperienze dirette, pilotate, che dimostrino la possibilità di abituarsi a un nuovo modo di lavorare, ovviamente, con il supporto dell’induzione di motivazione.
Capire il cambiamento degli atteggiamenti dal punto di vista cognitivista significa prima di tutto conoscere le modalità di elaborazione delle informazioni della mente umana, ovvero comprendere come la gente pensa. “Conoscere” le leggi del pensiero può significare anche poter intervenire su un fattore per modificare il risultato.
Un fattore che può incidere sul cambiamento degli atteggiamenti è la pressione sociale, ovvero come ciò che pensano gli altri ci può influenzare a tal punto da condizionare il nostro comportamento, le nostre scelte, e quindi anche i nostri atteggiamenti.
Il grado di influenza dipende però da più fattori che Fishbein (1966) definisce: “ipotesi normative e motivazioni a conformarsi”. Per ipotesi normative lo studioso intende le ipotesi su quello che gli altri si aspettano che noi facciamo. Se per esempio i colleghi di lavoro si aspettano che parteciperemo ad uno sciopero, riceveremo pressioni in tal senso. La motivazione a conformarsi, invece, si riferisce al fatto che ci può interessare o meno e con intensità diversa soddisfare le aspettative che gli altri nutrono verso di noi.
Per questo motivo è più facile che un adolescente sia fortemente influenzato da un gruppo di pari, piuttosto che dagli adulti, per rispondere al bisogno che ha di cercare una propria identità.
Altri fattori importanti che possono far variare il risultato sono la centralità e l’accessibilità dell’atteggiamento, che possono contrastare le ipotesi normative e le motivazioni a conformarsi.
Non bisogna dimenticare che il grado di influenza delle nostre intenzioni ad agire in un modo piuttosto che in un altro dipendono anche dal grado di autostima. Una persona con un basso livello di autostima sarà più facilmente succube delle opinioni e del giudizio altrui.
Ciò che risalta è l’importanza del gruppo nel determinare il
comportamento dei lavoratori nell’ambiente di lavoro. Pensiamo ora al giovane che inizia a lavorare in un’azienda per la prima volta; sicuramente vorrà essere accettato dal gruppo di colleghi, stringere amicizia o semplicemente non essere infastidito o discriminato. Forse il modo più comune e facile per raggiungere questo obiettivo è conformarsi agli altri. Questo significa che è più facile che sia il lavoratore ad adattarsi alla cultura aziendale piuttosto che il contrario, nel bene e nel male. Il nuovo arrivato poteva aver ricevuto un’adeguata educazione in merito alla sicurezza sul lavoro a scuola, e quindi un atteggiamento formato in merito, che la pressione esercitata su di lui da colleghi e superiori ha modificato. Essere accettato dai colleghi, far parte di un gruppo, una categoria, si rivela così più importante dell’applicazione pratica della conoscenza di una materia scolastica.
Questa realtà ci deve insegnare, ad esempio, che l’attività formativa non può essere svolta sporadicamente e per pochi gruppi alla volta in modo molto diluito nel tempo ma, per apportare cambiamenti significativi, deve essere programmata per coinvolgere tutti i lavoratori di tutte le funzioni aziendali che abbiano un legame con la sicurezza sul lavoro, in modo tale che tutti inizino a parlare lo stesso linguaggio, affinché coloro che hanno già un atteggiamento favorevole alla sicurezza abbiano un sostegno e diventino coloro che influenzano i nuovi arrivati, esercitando la pressione sociale.
L’implementazione di corrette politiche preventive basate sul coinvolgimento dei lavoratori, permette che si possano risolvere i problemi agendo sulle cause e non sugli effetti, con ritorni economici, qualitativi e professionali verificabili ed in continuo sviluppo. Prioritario è, dunque, saper motivare il personale, di qualsiasi grado gerarchico esso sia, ad eseguire l’attività quotidiana attraverso il coinvolgimento generale dei lavoratori nella gestione, organizzazione e finalità del lavoro, migliorando, contemporaneamente, le condizioni di benessere. Tutto questo, non solamente intervenendo sul lato economico, ma anche tutelando, in modo sempre più incisivo, la sicurezza e salute del lavoratore. In questo contesto, la soluzione più facilmente percorribile e redditizia è quella della orizzontalizzazione dell’organizzazione del lavoro, anche utilizzando sistemi che tendono ad avvicinare il più possibile il momento decisionale, riferito ad un problema, all’origine del problema stesso in modo da rendere più praticabili e sostenibili la definizione e risoluzione. Pertanto occorre rendere più incisive formazione, informazione, comunicazione e collaborazione con i lavoratori, investire sulle persone e sul “team” (inteso come gruppo di lavoro omogeneo), sapere valorizzare l’operato, ma soprattutto riuscire a coinvolgere e stimolare tutto e tutti, su obiettivi chiari, comuni e condivisi. Inoltre, coinvolgere anche l’operatore in campo, può rendere più visibili le micronegatività vicinissime all’origine del problema perché facilmente individuabili “dall’esperto” del proprio lavoro, mentre le “macro”, appartenenti alla cultura dei progettisti e dei gestori del lavoro, dovrebbero già essere inserite nel Documento sulla valutazione dei rischi, e quindi essere già conosciute dal sistema di sicurezza aziendale.
Vanno adottati metodi che arrivino a considerare anche che le sommatorie di micro elementi dannosi (comunemente non presi in considerazione) perché queste possono avere ricadute negative, della stessa portata degli altri elementi noti, sull’ambiente, sull’uomo, sul processo e sulle strutture. Uno dei compiti individuali del lavoratore, supportato adeguatamente dal RLS e dal “sistema di sicurezza aziendale”, è quello di ricercare, oltre ai rischi stessi, le modalità per arrivare a valutare, pesare e modificare i comportamenti sbagliati, non considerazione di situazioni pericolose quali gli infortuni mancati, manutenzioni ed operazioni eseguite volontariamente in condizioni “particolari”, mancato utilizzo dei mezzi di protezione in dotazione sia di natura collettiva che individuale, adozione di modalità operative sempre tarate sulla “fretta” e scarsamente attente agli aspetti infortunistici, mancata segnalazione delle condizioni pericolose, mancato confronto e/o discussione con i colleghi di lavoro e responsabili, ecc.) ed esaltare quelli corretti. Tutto questo non può che avere effetti positivi sulle attività, sulla professionalità e sull’efficienza di tutto il personale. Coinvolgere i lavoratori significa anche avviare un sistema partecipativo, oramai fondamentale in un’azienda moderna, che consideri l’adattamento delle macchine, degli strumenti, dei metodi di lavoro alle capacità fisiologiche, sensoriali e psicologiche del lavoratore, nell’ottica che è la macchina che va adattata all’uomo e non viceversa.
Massimo Servadio
Psicologo del Lavoro e delle Organizzazioni
Riferimenti bibliografici:
- Allport, G. W. “Attitudes”. In Handbook of social psychology. Edited by C. Murchison, 798-844. Worcester, MA: Clark Univ. Press.
- Fishbein, M. (1966). “The relationship between beliefs, attitudes and behavior”. In S. Feldman (Ed.), Cognitive consistency: Motivational antecedents and behavioural consequents. New York: Academic Press.
- Gergen, K. J. & Gergen, M. M. (1990). “Psicologia sociale”. Il Mulino.