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Datore di lavoro, consiglio di amministrazione e amministratore unico

Datore di lavoro, consiglio di amministrazione e amministratore unico
Rolando Dubini

Autore: Rolando Dubini

Categoria: Datore di lavoro

04/04/2013

In una società di capitali il datore di lavoro in senso civilistico va originariamente individuato nel consiglio di amministrazione o nell'amministratore unico. Le sentenze Galeazzi e Montefibre. Di Rolando Dubini.

Milano, 4 Apr – La Cassazione penale, nella c.d.  sentenza Galeazzi, ha precisato che "nel caso di una società di capitali originariamente il datore di lavoro (in senso civilistico) va individuato nel consiglio di amministrazione o nell'amministratore unicoOve, con la nomina di uno o più amministratori delegati, si verifichi il trasferimento di funzioni in capo ad essi, non per questo va interamente escluso un perdurante obbligo di controllo della gestione degli amministratori delegati; ciò trova un importante argomento di conferma, sia pure sul piano civilistico (con conseguenze che, peraltro, non possono che riflettersi su quello penalistico comune essendo la matrice e la giustificazione degli obblighi di garanzia), nel testo dell'art. 2392 c. 2 cod. civ. che ribadisce, anche nel caso di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di uno o più amministratori, la solidale responsabilità degli amministratori (di tutti gli amministratori) ‘se non hanno vigilato sul generale andamento della gestione o se, essendo a conoscenza di atti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose’. Obblighi attenuati ma ribaditi anche nel nuovo testo dell'art. 2392 cod. civ. introdotto dal D.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 6 che ha riformato il diritto societario con entrata in vigore il 1 gennaio 2004”.
 
In base ad un criterio di ragionevolezza si preferisce escludere che questo obbligo [di vigilanza sul generale andamento della gestione aziendale, sulle scelte strategiche anche in materia di sicurezza sul lavoro] riguardi anche gli aspetti minuti della gestione, senza porre però in dubbio l'esigibilità di un dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione. Si riferisce a tale generale andamento non l'adozione di una singola misura di prevenzione per la tutela della salute di uno o più lavoratori o il mancato intervento in un singolo settore produttivo ma la complessiva gestione aziendale della sicurezza.
Dunque  con il trasferimento di funzioni (come anche nella  delega di funzioni) il contenuto della posizione di garanzia gravante sull'obbligato originario si modifica e si riduce agli indicati obblighi di controllo e intervento sostitutivo: ove l'amministratore non adempia a tali obblighi residuali e, in conseguenza di questa omissione, si verifichi l'evento dannoso si dovrà ravvisare la colpa nell'inosservanza di tali obblighi. (...) “In conclusione, in un sistema che si fonda su un assetto che esclude la delegabilità di determinate funzioni in tema di sicurezza, e che comunque prevede un residuo obbligo di controllo da parte di coloro cui originariamente è attribuita la qualità di datore di lavoro, non è ipotizzabile che residui un'area di irresponsabilità in base ad accordi, formali o meno che siano, o addirittura dedurre dall'inerzia un trasferimento di funzioni con efficacia giuridica escludente la responsabilità pervenendo al risultato di esonerare taluno dalla responsabilità penale in base ad un atto di autonomia privata” [ Cassazione sezione quarta penale - Sentenza n. 4981 del 6 febbraio 2004 (u.p. 5 dicembre 2003) - Pres. Fattori - Est. Brusco - P.M. (P. Diff.) lannelli - Ric. P.M. in e. - Res. Ligresti e altri]. Come a dire, che quando si tratta di mancata adozione di una singola misura di prevenzione per la tutela della salute di uno o più lavoratori o il mancato intervento in un singolo settore produttivo non è in questione l' obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione che è comunque a carico del consiglio di amministrazione, ma bensì i poteri di cui dispone, seguendo il filo del ragionamento giurisprudenziale, di cui è dotato l'amministratore delegato, che da soli giustificano la sua posizione di garanzia di datore di lavoro.

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Ciò in piena coerenza con la giurisprudenza, anche di merito, che ha sempre riconosciuto la responsabilità dell’imprenditore, a prescindere dall’eventuale delega, quando l’infortunio è da attribuire non tanto all’attuazione di questa o di quella misura, ma più in generale ad una situazione di assoluta inadeguatezza degli impianti in relazione alle esigenze di tutela della integrità fisica dei lavoratori [Pretura di Mantova sent. 3 marzo 1994 in Foro it., 1995, II, 594].
 
Questo indirizzo giurisprudenziale consolidato ha visto un importante segno di continuità con l'importante sentenza della Cassazione, Quarta sezione penale, sentenza 38991 del 4.11.2010 (Montefibre) che ha ribadito una volta di più che «anche in presenza di una delega di funzioni a uno o più amministratori (con specifiche attribuzioni in materia di igiene del lavoro), la posizione di garanzia degli altri componenti del consiglio di amministrazione non viene meno, pur in presenza di una struttura aziendale complessa e organizzata, con riferimento a ciò che attiene alle scelte aziendali di livello più alto in ordine alla organizzazione delle lavorazioni che attingono direttamente la sfera di responsabilità del datore di lavoro».
 
La sentenza riguarda una mancata protezione dei lavoratori dal rischio amianto protrattasi per alcuni decenni.
La particolare gravità dei fatti ha indotto la Corte di Cassazione ad allargare la responsabilità anche in capo a coloro che non hanno controllato i soggetti direttamente obbligati dalla legge alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori.
L’imputazione ha ad oggetto l’omessa adozione, soprattutto durante i frequenti lavori di manutenzione degli impianti, di decoibentazione e nuova coibentazione, delle cautele  necessarie per evitare che i lavoratori dello stabilimento, appartenente ad un importante società che opera a livello internazionale, fossero esposti in modo diretto e indiretto alla inalazione delle polveri di amianto. I lavoratori non erano stati dotati di dispositivi personali di protezione, inoltre non erano state attuate le norme di igiene, non erano stati edotti i lavoratori del rischio specifico a cui erano esposti, non era stato disposto di effettuare in luoghi separati le lavorazioni insalubri, non erano state adottate le misure per prevenire o ridurre la dispersione e diffusione nei luoghi di lavoro delle polveri e fibre di amianto.
 
Gli accertamenti nel giudizio di merito hanno consentito di verificare come le suddette violazioni delle disposizioni sull’igiene del lavoro fossero state gravi e come, inoltre, a partire dal momento in cui la società coinvolta nel relativo procedimento è venuta a conoscenza dei rischi correlati all’esposizione all’amianto, il colposo comportamento dell’azienda si fosse protratto per circa 30 anni.
Alla società era, infatti, ben noto il rischio dell’esposizione all’amianto sin dal 1973 ossia a partire da quando i manutentori dello stabilimento erano stati sottoposti a controlli medici proprio per sospetta asbestosi e, a seguito di tali controlli, erano stati trasferiti, senza però che ciò avesse comportato alcuna riduzione al rischio di esposizione all’amianto, dai reparti in cui si trovavano.
Nonostante tale conoscenza, l’istruttoria condotta in giudizio ha accertato che la società, salvo che per poche e limitate iniziative giudicate del tutto insufficienti, non ha provveduto ad adottare radicali modifiche volte ad eliminare o a ridurre in modo significativo il rischio amianto né con riguardo agli impianti né con riguardo alle attività di manutenzione tanto che è risultato che nello stabilimento fosse presente amianto ancora nel 2002.
 
Tali comportamenti colposi hanno comportato le morti, avvenute fra il 1999 e il 2004, di 11 dipendenti dello stabilimento che hanno lavorato fra la metà degli anni ’50 e l’ultima metà degli anni ’90 con mansioni che comportavano forti esposizioni all’amianto. Di tali persone, 8 sono morte per mesotelioma pleurico, 3 per asbestosi.
Dei reati di cui sopra sono stati chiamati a rispondere 14 dirigenti della società: 2 direttori di stabilimento; 3 amministratori delegati, 9 consiglieri di amministrazione.
 
La Corte di Cassazione ha ritenuto corretto il giudizio di merito di condanna di tali imputati con riguardo all’esistenza:
a) di gravi e reiterate omissioni colpose di norme antinfortunistiche;
b) delle patologie contestate;
c) di un nesso di causa fra tali patologie e l’omissione colposa delle norme antinfortunistiche; d) di una responsabilità da parte di tutti gli imputati nel non avere impedito, avendone il potere, l’insorgenza e/o l’aggravamento delle  patologie contestate.
 
Va poi ricordato, con particolare riferimento alle società di persone come le s.n.c., che in presenza di imprese con pluralità di titolari, si è stabilito che “..l'obbligo grava indiscriminatamente su tutti i titolari dell’impresa, salvo che preventivamente le attività per la sicurezza del lavoro vengano delegate ad uno di essi..” (Cassazione IV. 6.4.79, ric. Bortolato; Sez. IV. 30.3.65. ric. Ornago).
Fondamentale risulta, nella prospettiva costituzionale della responsabilità penale individuale (art. 27 comma 1 della Costituzione), la concreta individuazione del datore di lavoro, ovvero del soggetto al quale può essere legittimamente imputata la responsabilità penale per i fatti compiuti nell’esercizio dell’attività alla quale sono addetti lavoratori come definiti dall’art. 2 comma 1 lett. a) del D.Lgs. n. 81/2008.
 
 
 
Rolando Dubini, avvocato in Milano
 

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