Sulla responsabilità per un decesso in cantiere causato da un colpo di calore
In tema di infortuni sul lavoro, ha sostenuto la suprema Corte, non occorre, per configurare la responsabilità di un datore di lavoro, che sia integrata la violazione di specifiche norme dettate per la salute e sicurezza dei lavoratori essendo sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa dell'omessa adozione di quelle misure ed accorgimenti imposti all'imprenditore dall'art. 2087 del codice civile ai fini della più efficace tutela dell'integrità fisica dei lavoratori stessi, Si era già espressa la Corte di Cassazione in analogo modo in una precedente sentenza, la n. 46979 del 10/11/2015 della IV Sezione penale, esplicitamente citata in questa sentenza ora emanata per decidere su di un ricorso presentato dal legale rappresentante e da un socio di una società condannati nei due primi gradi di giudizio perché ritenuti responsabili per il decesso per ipertermia da colpo di calore di un lavoratore dipendente avvenuto in un cantiere edile nel mentre era impegnato ad operare esposto al sole in una giornata in cui era stata registrata una temperatura massima di circa 37 gradi, superiore alla massima temperatura del periodo.
E’ un argomento di particolare attualità quello che emerge dalla lettura di questa sentenza in quanto riguarda la particolare esigenza di valutare i rischi e di adottare appropriate misure di prevenzione sul posto di lavoro a protezione dal “ colpo di calore” imposte anche dall’art. 2087 del codice civile in modo che i lavoratori possano far fronte alle alte temperature, specie nei cantieri edili nei quali prevalgono le attività svolte all’esterno ed esposte direttamente alla luce del sole.
Il fatto e l’iter giudiziario
In tema di infortuni sul lavoro, ha sostenuto la suprema Corte, non occorre, per configurare la responsabilità di un datore di lavoro, che sia integrata la violazione di specifiche norme dettate per la salute e sicurezza dei lavoratori essendo sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa dell'omessa adozione di quelle misure ed accorgimenti imposti all'imprenditore dall'art. 2087 del codice civile ai fini della più efficace tutela dell'integrità fisica dei lavoratori stessi, Si era già espressa la Corte di Cassazione in analogo modo in una precedente sentenza, la n. 46979 del 10/11/2015 della IV Sezione penale, esplicitamente citata in questa sentenza ora emanata per decidere su di un ricorso presentato dal legale rappresentante e da un socio di una società condannati nei due primi gradi di giudizio perché ritenuti responsabili per il decesso per ipertermia da colpo di calore di un lavoratore dipendente avvenuto in un cantiere edile nel mentre era impegnato ad operare esposto al sole in una giornata in cui era stata registrata una temperatura massima di circa 37 gradi, superiore alla massima temperatura del periodo.
E’ un argomento di particolare attualità quello che emerge dalla lettura di questa sentenza in quanto riguarda la particolare esigenza di valutare i rischi e di adottare appropriate misure di prevenzione sul posto di lavoro a protezione dal “ colpo di calore” imposte anche dall’art. 2087 del codice civile in modo che i lavoratori possano far fronte alle alte temperature, specie nei cantieri edili nei quali prevalgono le attività svolte all’esterno ed esposte direttamente alla luce del sole.
Il ricorso per cassazione e le motivazioni
Avverso la sentenza aveva ricorso, con un unico atto, il difensore di fiducia di entrambi gli imputati nonché della menzionata società, mediante l'articolazione di due motivi uno per una erronea applicazione ed interpretazione della legge penale e dell'art. 96, comma 1, lettera d), del D. Lgs. n. 81/2008 e l’altro per la carenza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione stessa in rapporto alla ricostruzione dell'organizzazione dell'attività lavorativa emersa dall'esame dell'imputato socio lavoratore datore di lavoro di fatto. La Corte di Appello, infatti, secondo il ricorrente, aveva sbagliato a riferirsi alla mancata previsione di adeguate misure di prevenzione "a monte" ovvero in quello che viene genericamente chiamato "documento", con ciò probabilmente intendendo la documentazione della ditta relativa ai piani di sicurezza e prevenzione; invero, tale documentazione, così come tutte le misure di sicurezza che dovevano essere predisposte all'interno del cantiere, erano risultate pienamente in regola.
Ben altro doveva essere il tema dell'accertamento, secondo lo stesso ricorrente, e cioè la condotta tenuta dal datore di lavoro alla luce degli obblighi imposti dall'art. 96, comma 1, lett. d), del D. Lgs. n. 81/2008, occorrendo rispondere alla domanda se, nel giorno dell’accaduto, in costanza delle anzidette condizioni atmosferiche, il lavoratore fosse stato esposto, per la mancata adozione di misure idonee a contenere l'impatto atmosferico, ad un rischio prevedibile ed evitabile. Sul punto, infatti, secondo la difesa, la sentenza impugnata aveva offerto una risposta illogica, astratta e priva di continuità con le risultanze istruttorie. Nel caso concreto le misure per fronteggiare il caldo avevano trovato applicazione, giacché era emerso che la vittima aveva svolto una attività che non aveva comportato particolari sforzi fisici, in gran parte all'interno di aree riparate, e che l'esposizione al sole era stata costantemente intervallata.
Contrariamente a quanto affermato dalla Corte di Appello inoltre, secondo il ricorrente, non erano emersi indicatori specifici tali da far ritenere che la vittima fosse inidonea al lavoro di muratore in quanto anche le visite mediche preventive, finalizzate alla sua regolare assunzione, non avevano di certo escluso la sua idoneità allo svolgimento delle mansioni a cui era stato adibito. Essendo poi il citato art. 96, ha sostenuto la difesa, una norma "aperta" che lascia al destinatario del precetto la scelta del comportamento da adottare al fine di prevenire il pericolo, deve essere sempre individuato sia il margine di prevedibilità dell'evento sia il nesso causale tra esso e le opzioni concretamente percorribili prima del suo verificarsi. Nella sentenza impugnata tale piano valutativo era stato soppiantato da una visione astratta che aveva configurata un'ipotesi di responsabilità oggettiva.
Anche in riferimento alla fase di soccorso inoltre, secondo il difensore di fiducia, la motivazione era risultata carente; il fatto che l'attività istruttoria non fosse approdata alla certezza provata di un intervento di pronto soccorso inidoneo deve portare, in forza della presunzione di non colpevolezza, ad escludere la responsabilità penale dell'imputato. Di qui la richiesta avanzata dalla difesa di annullamento della sentenza. Il Procuratore Generale, da parte sua, aveva concluso per la inammissibilità dei ricorsi.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione
Sui ricorsi la Corte di Cassazione ha fatto alcune considerazioni. Gli imputati ricorrenti, ha evidenziato la stessa, hanno lamentata l'inesistenza della violazione dell'obbligo di cui all'art. 96, comma 1, lett. d), del D. Lgs. n. 81/2008 di curare la protezione dei lavoratori contro le influenze atmosferiche che potessero compromettere la loro sicurezza e la loro salute. Tale obbligo, come ben rimarcato nella sentenza impugnata, è posto in generale a carico del datore di lavoro quale garante della incolumità degli addetti che svolgono attività all'aperto, e tra questo gli addetti all'edilizia, attraverso la indicazione del fattore di pericolo legato ad agenti atmosferici, rientranti ex art. 180 del D. Lgs. n. 81/2008, tra gli agenti fisici da valutare al fine di approntare le misure precauzionali necessarie a fronteggiare la incidenza sulle condizioni di sicurezza.
Quanto al profilo di colpa generica, del pari ravvisato nella condotta degli imputati, la suprema Corte ha ricordato che “in tema di infortuni sul lavoro non occorre, per configurare la responsabilità del datore di lavoro, che sia integrata la violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione degli infortuni stessi, essendo sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa dell'omessa adozione di quelle misure ed accorgimenti imposti all'imprenditore dall'art. 2087 cod. civ. ai fini della più efficace tutela dell'integrità fisica del lavoratore” e ha citato quale precedente espressione la sentenza n. 46979 del 26/11/2015 della IV Sezione penale della stessa Corte che era giunta alle stesse conclusioni, pubblicata e commentata dallo scrivente nell’articolo ” Sulla responsabilità per la mancata applicazione dell’art. 2087 cc.”.
Tanto premesso in punto di diritto, ha ricordato ancora la suprema Corte, nella istruttoria dibattimentale era stato acclarato che il lavoratore infortunato si stava occupando del posizionamento di una copertina di cemento su un muretto esterno ad una villetta, esposto al sole in una giornata particolarmente calda, in un orario, immediatamente successivo alla pausa pranzo, in cui i valori termici progrediscono verso il massimo, con rischio di ipertermia da colpo di calore, dovuto anche allo sforzo fisico impiegato nell'attività. La stessa ha ritenuto pertanto immune da vizi logici e giuridici l'argomentare della Corte territoriale, la quale, in base alla consulenza tecnica, aveva affermato che, in situazioni del genere, vanno previste ed applicate regole precauzionali capaci di prevenire la concretizzazione del rischio, evitando di sottoporre il lavoratore ad attività all'esterno faticose in ore calde, prevedendo pause di riposo frequenti, predisponendo ripari ombreggiati, oltre ad accorgimenti sul vestiario, nonché sulla alimentazione e idratazione.
Ciò perché l'ipertermia da colpo di calore, come è emerso dalla consulenza tecnica citata in sentenza, è una "sindrome generale che si manifesta quando la temperatura interna del corpo si innalza notevolmente perché l'organismo non è più capace di mantenere il proprio equilibrio termico di fronte all'elevarsi della temperatura ambientale per difetto dei processi di termolisi, che si verifica quando la vasodilatazione periferica, la sudorazione, la termodispersione attraverso la cute, l'iperventilazione polmonare non sono più capaci di ridurre la termogenesi interna". Nel caso in esame, pur in presenza di una norma "aperta", nessun tipo di accorgimento era stato adottato per proteggere il lavoratore dal rischio di un danno alla salute come conseguenza di una prolungata esposizione al sole, in costanza di temperature assai elevate, durante lo svolgimento di mansioni lavorative pesanti e faticose.
Nessun dubbio quindi aveva avuto la Corte territoriale, condividendo le valutazioni del primo giudice, a individuare la causa del decesso nel "colpo di calore" apparendo evidente il nesso di causalità con l'attività lavorativa che la vittima stava svolgendo e che l'evento mortale non si sarebbe verificato se i datori di lavoro avessero adottato le precauzioni contro le influenze atmosferiche, anche sospendendo i lavori nelle ore più calde. Di contro, l'imputato, presente sul posto, aveva fatto riprendere l'attività lavorativa subito dopo la pausa pranzo, quindi in orario molto caldo (alle 14.30 circa), con la digestione in corso, inviando il lavoratore, da solo, sotto il sole e senza alcuna protezione, a caricare e trasportare una carriola di impasto, attività che ha richiesto una decina di minuti e proprio in seguito alla quale, come riferito anche dall'imputato stesso, aveva cominciato a barcollare e a stare male. Di qui l'infondatezza del ricorso relativamente a quest’ultimo profilo di colpa.
A diverse conclusioni, ha sostenuto ancora la Corte di Cassazione, deve pervenirsi con riguardo al secondo profilo di colpa contestato al solo imputato socio lavoratore di aver ritardato l'intervento dei sanitari, trasportando il lavoratore mediante automobile anziché facendo intervenire tempestivamente l'ambulanza, nonché chiamando in ritardo il soccorso mediante il numero 118. Sul punto il Tribunale aveva ritenuto che l'imputato avesse ritardato "colpevolmente" i soccorsi del lavoratore in vario modo, dapprima, dicendo di soprassedere dal chiamare il 118 in quanto lo stesso sembrava essersi ripreso e quindi caricando il lavoratore, già in ipetermia, sulla propria auto, "evidentemente per evitare che venisse soccorso sul luogo di lavoro", esponendolo così al calore dell'autovettura e ritardando ulteriormente i soccorsi non avendo una cognizione di dove fosse l'ospedale da raggiungere.
La Corte territoriale aveva quindi ripresa tale considerazione fatta dal primo giudice rimarcando che la condotta tenuta dall'imputato nella fase di soccorso aveva dimostrato un livello di forte approssimazione, connesso alla mancanza di conoscenza e formazione sul da farsi e della importanza dei sintomi del colpo di calore poco prima manifestatisi (vomito, perdita di sensi, rialzo termico), marginalizzati rispetto al verosimile timore di determinare un intervento diretto del 118 sul cantiere ove l'operaio lavorava in nero, così da improntare un soccorso "che non è dato sapere se conforme alle regole di primo intervento prescritte dai protocolli e da adottarsi nella immediatezza (spugnature e simili, piuttosto che idratazione diretta con acqua) poi un ritardo più o meno consistente nell'intervento medico".
La motivazione addotta dalla Corte territoriale è stata pertanto ritenuta dalla suprema Corte carente e inadeguata, per non avere la stessa spiegato in maniera sufficientemente approfondita né la consapevolezza dell'imputato di porre in essere un comportamento non adeguato alla situazione concreta, né la evitabilità dell'evento mortale in caso di un intervento più tempestivo del 118. Di qui, in conclusione, l'annullamento della sentenza con rinvio della stessa alla Corte territoriale di provenienza per una nuova valutazione limitatamente al profilo di colpa consistito nel ritardato intervento dei sanitari e il rigetto dei ricorsi presentati dal legale rappresentante della società quale datore di lavoro e dalla società medesima che ha condannati al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese di giudizio a favore dell'Inail, liquidate in mille euro, oltre agli accessori di legge, per ciascuno di essi.
Gerardo Porreca
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