Sulla responsabilità di un coordinatore per una caduta mortale dall’alto
Roma, 9 Giu – Sono molti gli articoli pubblicati da PuntoSicuro sul tema della responsabilità di quell’importante attore della sicurezza nei cantieri che è il coordinatore per la sicurezza, con riferimento sia al coordinatore per la progettazione che al coordinatore per l’esecuzione dell’opera.
E se in molti articoli, ad esempio con riferimento all’intervista rilasciata qualche anno fa da Marco Masi (“ Coordinatori: responsabilità e compiti secondo la Corte di Cassazione”), si cerca di cogliere anche gli orientamenti giurisprudenziali in materia, è tuttavia necessario rimanere costantemente aggiornati anche sulle più recenti sentenze, anche quelle apparentemente meno innovative riguardo ai principi esplicitati.
Ci occupiamo oggi, in particolare, di una breve presentazione della sentenza n. 2590 del 21 gennaio 2019 che, in relazione alla caduta mortale dall'alto di un lavoratore, si è soffermata sulle responsabilità di un coordinatore per la progettazione e l'esecuzione dei lavori.
Con riferimento a tale sentenza, l’articolo presenta:
- L’evento e i motivi del ricorso
- La logicità delle conclusioni della Corte territoriale
- La non abnormità del comportamento del lavoratore
L’evento e i motivi del ricorso
Nella sentenza n. 2590 si indica che il ricorrente D'A.F. ricorre per cassazione contro una sentenza con la quale “è stata confermata la pronuncia di condanna emessa in primo grado, in ordine al reato di cui all'art. 589 cod.pen. perché, in qualità di coordinatore per la progettazione e l'esecuzione dei lavori, per colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia e in violazione delle normative di prevenzione degli infortuni sul lavoro, non predisponendo misure di sicurezza idonee a prevenire la caduta dall'alto, cagionava la morte di C.C., il quale, mentre era intento alla posa in opera di lastre di marmo sulla parete esterna del vano scala di un fabbricato in costruzione, senza alcuna impalcatura, ponteggio o altra cautela, rovinava al suolo da un'altezza di circa 4-5 m”.
Riguardo poi ai motivi del ricorso contro tale sentenza, si segnala che il ricorrente deduce innanzitutto “violazione di legge e vizio di motivazione, poiché né il funzionario della ASL di Caserta né i Carabinieri, giunti circa tre ore dopo l'infortunio, sono riusciti ad accertare l'esatta dinamica dei fatti”.
In particolare – indica il ricorso - secondo l'ipotesi accusatoria, “vi era un cavalletto sul quale lavorava il C.C. ma questo cavalletto non è mai stato trovato e inoltre si assume che i fatti siano avvenuti in un luogo diverso da quello in cui la persona offesa stava, in realtà, lavorando. Né è possibile stabilire con precisione l'attività svolta dal C.C. la mattina in cui si è verificato l'infortunio, poiché non era possibile che qualcuno avesse ordinato al C.C. di incollare i marmi, in quanto la consegna di questi ultimi sarebbe avvenuta a dicembre. Si è trattato, pertanto, di un comportamento abnorme e imprevedibile da parte della persona offesa, che si è posto al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dell'imputato”.
Inoltre si contesta che “ingiustificatamente è stata negata la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla contestata aggravante e la pena non è stata quantificata nei minimi edittali, nonostante l'imputato non sia gravato da precedenti penali e da carichi pendenti e le parti lese siano state ampiamente risarcite”.
La logicità delle conclusioni della Corte territoriale
La Cassazione indica che il primo motivo di ricorso “esula dal novero delle censure deducibili in sede di legittimità”, cioè in sede di Cassazione. Infatti riguardo al supposto vizio di motivazione, “il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all'affidabilità delle fonti di prova bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni, a preferenza di altre (Sez. U., 13-12-1995, Clarke, Rv. 203428)”.
In questo caso il “giudice a quo” - il giudice di cui s'impugna la sentenza – “ha evidenziato che le lesioni riportate dalla persona offesa sono state giudicate compatibili con una precipitazione di media altezza e cioè da meno di 10 m: altezza compatibile con quella di una nicchia che iniziava dal piano di calpestio del secondo piano, ad oltre 3 m da terra, e che finiva due piani più in alto, ad oltre 6 m, a cui si deve aggiungere l'altezza raggiunta con i cavalletti sui quali il C.C. stava verosimilmente lavorando”. Inoltre la caduta del C.C., con conseguente impatto violento al suolo, “ha costituito la causa dell'evento-morte dell'Infortunato”.
E sull'imputato, che rivestiva qualità di coordinatore per la progettazione e l'esecuzione dei lavori, “gravavano gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza dei lavoratori, di talché la sua condotta omissiva ha costituito condicio sine qua non dell'evento-morte, non avendo egli predisposto alcuna opera provvisionale né attrezzature adeguate a prevenire la caduta dall'alto del C.C.”.
Dunque la Corte territoriale “ha preso in esame tutte le deduzioni difensive ed è pervenuta alle proprie conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità”. Né la Corte suprema “può esprimere alcun giudizio sull'attendibilità delle acquisizioni probatorie, giacché questa prerogativa è attribuita al giudice di merito, con la conseguenza che le scelte da quest'ultimo compiute, se coerenti, sul piano logico, con una esauriente analisi delle risultanze agli atti, si sottraggono al sindacato di legittimità ( Sez. U. 25-11-1995 , Facchini , Rv. 203767)”.
La non abnormità del comportamento del lavoratore
Un altro tema spesso affrontato nelle sentenze è quello relativo alla supposta abnormità del comportamento del lavoratore.
La Cassazione indica, infatti, che è infondato anche l'asserto del ricorrente secondo cui sarebbe da ravvisarsi, in questo specifico caso in esame, un comportamento abnorme del lavoratore.
Quest'ultimo – indica la sentenza – “può, infatti, essere ritenuto abnorme allorquando sia consistito in una condotta radicalmente, ontologicamente, lontana dalle ipotizzabili, e quindi prevedibili, scelte, anche imprudenti, del lavoratore, nell'esecuzione del lavoro (Cass., Sez. 4, n. 7267 del 10-11-2009, Rv. 246695). È dunque abnorme soltanto il comportamento del lavoratore che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all'applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro. Tale non è il comportamento del lavoratore che abbia compiuto un'operazione comunque rientrante, oltre che nelle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro assegnatogli ( Cass., Sez. 4, n. 23292 del 28-4-2011, Rv. 250710) o che abbia espletato un incombente che, anche se inutile ed imprudente, non risulti eccentrico rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate, nell'ambito del ciclo produttivo ( Cass., Sez. 4, n. 7985 del 10-10-2013, Rv. 259313)” .
E nel caso in esame, il “giudice a quo” ha evidenziato che “il lavoratore stava ponendo in opera le lastre di marmo di rivestimento della nicchia: dunque un'operazione rientrante appieno nelle sue mansioni”. E “non può quindi ravvisarsi abnormità del comportamento del lavoratore”.
E si ricorda anche il “consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità”, secondo cui è compito del titolare della posizione di garanzia “evitare che si verifichino eventi lesivi dell'incolumità fisica intrinsecamente connaturati all'esercizio di talune attività lavorative, anche nell'ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuali negligenze, imprudenze e disattenzioni dei lavoratori subordinati, la cui incolumità deve essere protetta con appropriate cautele”. E il garante non può invocare, “a propria scusa, il principio di affidamento, assumendo che il comportamento del lavoratore era imprevedibile, poiché tale principio non opera nelle situazioni in cui sussiste una posizione di garanzia (Cass., Sez. 4., 22-10-1999, Grande, Rv. 214497). Il garante, dunque, ove abbia negligentemente omesso di attivarsi per impedire l'evento, non può invocare, quale causa di esenzione dalla colpa, l'errore sulla legittima aspettativa in ordine all'assenza di condotte imprudenti, negligenti o imperite da parte dei lavoratori, poiché il rispetto della normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore anche dai rischi derivanti dalle sue stesse imprudenze e negligenze o dai suoi stessi errori, purché connessi allo svolgimento dell'attività lavorativa (Cass., Sez. 4, n. 18998 del 27-3-2009, Rv. 244005)”.
E ne deriva che “il titolare della posizione di garanzia è tenuto a valutare i rischi e a prevenirli e la sua condotta non è scriminata, in difetto della necessaria diligenza, prudenza e perizia, da eventuali responsabilità dei lavoratori (Cass., Sez. 4, n. 22622 del 29-4-2008, Rv. 240161). Da ciò consegue che non può essere ravvisata, nel caso di specie, interruzione del nesso causale”.
L'interruzione del nesso causale, come ricordato più volte dalla Cassazione, è infatti ravvisabile “esclusivamente qualora il lavoratore ponga in essere una condotta del tutto esorbitante dalle procedure operative alle quali è addetto ed incompatibile con il sistema di lavorazione ovvero non osservi precise disposizioni antinfortunistiche. In questi casi, è configurabile la colpa dell'infortunato nella produzione dell'evento, con esclusione della responsabilità penale del titolare della posizione di garanzia (Cass., Sez. 4, 27-2-1984, Monti, Rv. 164645; Sez. 4, 11-2-1991, Lapi, Rv. 188202)”. Ma nel caso esaminato, come indicato precedentemente, “l'operazione che stava effettuando il lavoratore rientrasse appieno nelle sue attribuzioni”.
Infine la Corte ricorda come anche le determinazioni del giudice di merito in ordine al trattamento sanzionatorio “siano insindacabili in cassazione ove sorrette da motivazione esente da vizi logico-giuridici”. E nel caso di specie, “la motivazione della sentenza impugnata è senz'altro da ritenersi adeguata”.
In definitiva la Corte di Cassazione dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende.
Tiziano Menduto
Scarica la sentenza da cui è tratto l’articolo:
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Rispondi Autore: Fausto pane - likes: 0 | 10/06/2020 (16:02:48) |
Di nuovo il CSP/CSE è chiamato ad obblighi di sorveglianza del corretto comportamento dei lavoratori. Ma non era il suo un compito di 'alta sorveglianza' e 'programmazione' e 'gestione delle interferenze'? Registro nuovamente l'atteggiamento ondivago di una Corte di Cassazione che si conferma più che mai incapace di rappresentare la certezza del diritto di questo bellissimo Paese. Fausto Pane |