Sull’omessa formazione e sulla natura del lavoro subordinato
Roma, 31 Ago – È indubbio che uno dei temi più delicati in materia di sicurezza, che riguarda insieme i diritti e i doveri di lavoratori e datori di lavoro, sia quello relativo al tema della formazione, con riferimento specifico a quanto richiesto dal D.Lgs. 81/2008 e dai vari Accordi Stato/Regioni dedicati alla formazione dei lavoratori e dei vari altri attori della sicurezza aziendale
E come abbiamo visto anche in precedenti articoli di PuntoSicuro, ad occuparsi degli obblighi di formazione, è stata spesso anche la Corte di Cassazione chiamata ad esprimersi su alcune questioni di diritto. Ad esempio, recentemente, con riferimento alla Sentenza n. 3898 del 27 gennaio 2017, che si esprime anche sulla funzione dell’Accordo Stato-Regioni 21 dicembre 2011 in materia di formazione dei lavoratori, e alla Sentenza n. 54519 del 22 dicembre 2016 relativa alla mancata informazione e formazione dei lavoratori da parte del datore di lavoro.
Ad affrontare il tema della formazione, con riferimento specifico all’omessa formazione e alla presenza di attività di lavoro subordinate mascherate da lavoro autonomo, è anche la recente Sentenza della Cassazione Penale, Sez. 3, 10 agosto 2017, n. 39057.
La nuova sentenza si interroga sul ricorso relativo ad una condanna di alcuni imputati per i reati “di cui ai capi b), art. 37, comma 1, e 55, comma 5, lett. c), d. Lgs. 81/08” perché in qualità di legali rappresentanti di un’azienda “avevano consentito, tollerato e comunque non avevano provveduto a dotare il lavoratore C.A. di una formazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza con particolare riferimento ai concetti di rischio, danno, prevenzione, protezione, organizzazione della prevenzione aziendale, diritti e doveri dei vari soggetti aziendali, organi di vigilanza, controllo, assistenza, rischi riferiti alle mansioni ed ai possibili danni - e c), art. 36, comma 2 e 55 comma 5, d. Lgs. 81/08, perché nella medesima qualità sopra menzionata, avevano consentito, tollerato e comunque non avevano provveduto affinché il predetto lavoratore ricevesse un'adeguata informazione sui rischi per la salute e sicurezza sul lavoro connessi all'attività d'impresa in generale, sulle procedure che riguardavano il primo soccorso e la lotta antincendio, sui nominativi dei lavoratori incaricati di applicare le misure per la gestione delle emergenze e sui nominativi del responsabile e degli addetti al servizio di prevenzione e protezione e del medico competente”.
Tuttavia secondo gli imputati “non era emersa alcuna prova del rapporto di lavoro subordinato” tra C.A. e l’azienda, perché non era stato accertato il potere direttivo e/o organizzativo e/o disciplinare da parte della società ed il C.A. aveva dichiarato all'udienza del 3.5.2016 che nessuno gli aveva detto come fare il lavoro edile che gli era stato già assegnato”. E sempre secondo gli imputati “nell'ambito dell'accertamento indiziario della subordinazione, la pluricommittenza assumeva estrema rilevanza perché l'aver lavorato presso altri cantieri escludeva comunque il rapporto continuativo di lavoro nei confronti di un unico e medesimo soggetto ed il suo stabile inserimento nell'organizzazione aziendale”.
Nella sentenza vengono poi ricordati i vari altri motivi di ricorso a sostegno delle tesi difensive, ad esempio
a) “il teste Ca.AN. aveva dichiarato di aver lavorato per circa una settimana sul cantiere e di non aver visto nessuno oltre ai tre soci e di non conoscere C.A.;
b) C.A. aveva escluso l'obbligo di rispettare un orario di lavoro determinato;
c) la società non gli aveva pagato un compenso con cadenze periodiche ma aveva effettuato solo due pagamenti a fronte delle relative fatture, una prima dell'inizio, e una dopo;
d) vi era un contratto scritto di subappalto avente ad oggetto l'incarico di lavori di stuccatura di piccole crepe non strutturali di intonaco già esistente;
e) C.A. aveva una propria partita IVA ed era iscritto alla locale Camera di Commercio e in udienza aveva dichiarato di essere artigiano;
f) il motivo per il quale era stato pattuito un compenso orario non era un indizio grave e preciso della subordinazione perché l'imputato; esso B.F. aveva ben spiegato in udienza la ragione di tale pattuizione, siccome C.A., che aveva iniziato la sua attività di artigiano da poco tempo, non era stato in grado di quantificare il compenso a corpo o a misura;
g) nemmeno la mancanza di un mezzo proprio di locomozione era indizio grave e preciso della subordinazione, perché C.A. aveva dichiarato di essersi licenziato in quanto non più retribuito dal datore di lavoro e nella speranza di poter trovare occasioni di lavoro a seguito del terremoto del 2012;
h) pertanto, anche l'assenza di un'organizzazione non era una circostanza rilevante perché, dal punto di vista civilistico, l' organizzazione del lavoro proprio con gli altri fattori produttivi (capitale e/o lavoro altrui) costituiva l'elemento di distinzione del ‘piccolo imprenditore’ rispetto al ‘lavoratore autonomo’, ossia di un soggetto che esercitava la propria attività economica avvalendosi essenzialmente della sua energia-lavoro, con l'impiego di strumenti ed attrezzature minime;
i)l'appartenenza a C.A. dell'attrezzatura usata per eseguire il lavoro era circostanza ampiamente provata dalla testimonianza dallo stesso resa in udienza a conferma di una sua precedente dichiarazione scritta;
l) la circostanza che il materiale dallo stesso usato per la stuccatura gli era stato fornito dalla società non era un elemento decisivo perché esso B.F. aveva spiegato che questo materiale, necessario per eliminare le crepe dell'intonaco causate dal terremoto, doveva essere elastico e quindi provvedeva lui al rifornimento relativo”.
E un quarto motivo di ricorso lamenta che il Tribunale di Ferrara “non aveva spiegato quale circostanza di fatto e massima di esperienza avrebbero dovuto applicare per giungere alla conclusione che il rapporto con C.A. fosse subordinato, atteso che lo stesso era titolare di propria partita IVA ed iscritto alla Camera di Commercio, munito di propria attrezzatura, ed aveva emesso fattura”.
Al di là degli altri ricorsi riportati nella sentenza, veniamo alle conclusioni della Corte di Cassazione.
Si ricorda che il cosiddetto “Giudice di prime cure” (primo grado) è pervenuto all'accertamento di responsabilità degli imputati sulla base dei seguenti elementi:
a) “solo dopo qualche giorno dal controllo del nucleo CC dell'ispettorato del lavoro, in data 26.6.2013, C.A. aveva prodotto il contratto di subappalto relativo a lavori di stuccatura di piccole crepe non strutturali di intonaco già esistente con un compenso orario di € 19,00;
b) non era stato in grado di produrre altre fatture, ma solo la n. 5 e la n. 6, rispettivamente del 20.6.2013 e del 13.7.2013;
c) aveva reso una deposizione assai lacunosa e confusa, dichiarando che si considerava un artigiano e non ricordava alcunché di preciso, non scevra da sospetti di reticenza;
d) aveva ricordato di aver aperto la partita IVA alla fine del 2012 perché disoccupato, ma non aveva saputo riferire se tra l'apertura della ditta e la prestazione di lavoro presso il citato cantiere avesse svolto altri lavori, tranne in un caso;
e) aveva dichiarato che alcuni strumenti di lavoro erano suoi, che il preparato gli veniva fornito dal committente, che non disponeva di un furgone;
f) i testi della difesa non erano comparsi ed erano stati quindi ritenuti superflui perché la pluricommittenza era solo un indice da valutare, mentre il fatto che avesse avuto lavori presso altri cantieri, prima o dopo il periodo di interesse, non modificava la natura del rapporto con il committente;
g) vi era incongruenza tra il compenso pattuito nel contratto che era orario ed il compenso indicato in fattura che era a corpo;
h) il compenso orario presupponeva il controllo del committente sull'attività espletata;
i) il lavoratore non aveva un mezzo proprio e strumenti propri che trovava sul cantiere e non era stato in grado di produrre altre fatture.
Di qui la conclusione che la titolarità della partita IVA fosse un dato formale, essendo diffuso il fenomeno del lavoro subordinato mascherato da lavoro autonomo ed ha perciò condannato gli imputati per i reati di cui ai capi b) e c)”.
Inoltre la sentenza continua indicando che “tutta la difesa è incentrata su una lettura alternativa del compendio probatorio che porti alla conclusione dell'esistenza di un rapporto di lavoro autonomo e di qui l'esigenza di sentire anche gli ulteriori due testi”, il cui ascolto era stato considerato dal giudice superfluo. “Sennonché, la motivazione dell'accertamento di responsabilità appare solida, coerente ed immune dai vizi censurati. Il Giudice ha valorizzato tutti gli indici, prevalentemente documentali, che mascherano il rapporto di lavoro subordinato con quello autonomo con un ragionamento non manifestamente illogico o contraddittorio e perciò il ricorso sul punto si appalesa manifestamente infondato, mentre i ricorrenti non hanno dedotto la rilevanza e decisività delle dichiarazioni dei testi”. E “ampia e pertinente è anche la motivazione sull'elemento psicologico, per il quale è stato valorizzato che gli imputati erano imprenditori e dunque incombeva su di essi un preciso onere di diligenza, sì che non erano scusabili nemmeno laddove si fosse ritenuto che avessero valutato con semplice leggerezza la qualificazione giuridica del rapporto”.
In conclusione “la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per i ricorrenti, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento”.
RTM
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