Sui lavori in quota, l’uso dei DPI e le carenze dei piani di sicurezza
Roma, 02 Nov – Sono molte le cadute nel comparto delle costruzioni che avvengono con assenza di dispositivi di protezione individuali (DPI) della testa e con conseguente aumento della gravità degli infortuni. E sono molte anche le sentenze della Corte di Cassazione che, in questi anni, si sono occupate di ricorsi relativi a processi in cui uno degli elementi contestati è proprio il mancato utilizzo o l’inidoneità dei DPI. Come ad esempio la Sentenza n. 27543 dell’1 giugno 2017 che si è soffermata, come molte sentenze della Cassazione, anche sul tema dell’eventuale abnormità del comportamento del lavoratore.
Una pronuncia della Corte che ha analizzato la legittimità di una condanna correlata alla mancanza di un elmetto protettivo è, invece, la sentenza n. 42261 del 15 settembre 2017 che affronta il tema dei lavori in quota, dell’uso dei DPI e dell’efficacia del Piano Operativo di Sicurezza. E che permette anche qualche riflessione su vari altri aspetti rilevanti: quali sono i limiti del giudizio della Corte di Cassazione? può la Corte giudicare il contenuto di una prova? Per i rischi di caduta nei lavori in quota qual è il punto di riferimento per il calcolo della quota?
La Corte di Cassazione indica che “P.R. ricorre per cassazione avverso una sentenza” con la quale, in riforma della pronuncia assolutoria di primo grado, “è stata dichiarata la penale responsabilità del ricorrente, in ordine al reato di cui all'art. 590 cod. pen. perché, in qualità di datore di lavoro, cagionava lesioni personali gravi, dalle quali derivava una malattia guarita in giorni 60, al dipendente M.G., non esigendo che quest'ultimo indossasse il previsto elmetto protettivo, messogli a disposizione durante l'esecuzione dei lavori, all'interno del cantiere edile, e non contemplando, nel Piano operativo di sicurezza, l'apprestamento dell'opera provvisoria su cui lavorava il M.G., il quale, mentre smontava quest'ultima, privo del previsto l' elmetto protettivo, cadeva al suolo da un'altezza di 1,87 m”.
La sentenza si sofferma poi sui motivi del ricorso.
Con un primo motivo si fa riferimento a violazione di legge e vizio di motivazione, “poiché erroneamente la Corte d'appello non ha annesso rilevanza alla delega alla sicurezza rilasciata, in data 1° gennaio 2010, al professionista M.M., che era amministratore di una società specializzata nella sicurezza. Dunque al ricorrente non toccava l'obbligo di verificare se un'opera provvisoria era contemplata nel Piano operativo di sicurezza e se l'operaio, la mattina dell'incidente, indossasse o meno il casco, considerata anche la presenza, oltre che del delegato, anche di un coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione dell'opera”.
Inoltre non sarebbe neanche dimostrato – sempre come indica il ricorrente - che, “al momento dell'infortunio, il lavoratore non indossasse il casco, poiché dai rilievi fotografici si evince la presenza di un elmetto protettivo rovesciato, che ben potrebbe essere quello in dotazione all'infortunato, il quale non ha mai chiarito questa circostanza. Le perdite di sangue dalla nuca evidenziano semmai un cattivo allacciamento dell'elmetto ma il dipendente aveva partecipato a corsi di formazione ed era sicuramente in grado di indossarlo correttamente, onde di ciò non può essere fatto carico a terzi”. Inoltre non vi è prova che l'opera provvisoria da cui è caduto il M.G. “non fosse prevista nel Piano operativo di sicurezza, poiché manca agli atti la copia di quest'ultimo. E comunque non è affatto certo che, se l'opera fosse stata prevista, con tutte le specificazioni del caso, il lavoratore non avrebbe compiuto ugualmente quella manovra che gli è costata la caduta”. E “erroneamente è stato ritenuto che si tratti di lavori in quota, poiché il piano di calpestio era posto all'altezza di metri 1,80 e dunque non può affermarsi che i lavori siano stati eseguiti ad un'altezza superiore a metri 2”.
Il ricorso indica poi che “ingiustificatamente non sono state concesse le circostanze attenuanti generiche, nonostante il precedente penale si riferisca a fatti lontani nel tempo; il relativo reato sia stato dichiarato estinto, in quanto definito con sentenza di patteggiamento; le sanzioni amministrative siano state pagate; il risarcimento vi sia stato; le violazioni in materia antinfortunistica contestate siano solo due e non certo di particolare gravità. Poiché in primo grado il processo si era svolto con rito abbreviato, la Corte d'appello avrebbe dovuto applicare la diminuente del terzo. Viceversa, di quest'ultima non vi è traccia nella motivazione della sentenza”.
Veniamo ora a quanto dice la sentenza n. 42261 della Corte di Cassazione.
Innanzitutto si indica che il primo motivo di ricorso non può essere accolto: la Corte d'appello ha chiarito, “con motivazione esente da vizi logico-giuridici, che gli ufficiali di polizia giudiziaria operanti hanno attestato che non è emerso, durante le indagini, il rilascio di deleghe in materia di sicurezza sul lavoro né queste ultime sono state esibite, nonostante esplicita richiesta, in sede di sopralluogo”.
E anche il secondo e il terzo motivo di ricorso sono infondati e si indica che il giudice di legittimità, “nel momento del controllo della motivazione, non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento, atteso che l'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. non consente alla Corte di cassazione una diversa interpretazione delle prove. In altri termini, il giudice di legittimità, che è giudice della motivazione e dell'osservanza della legge, non può divenire giudice del contenuto della prova, non competendogli un controllo sul significato concreto di ciascun elemento probatorio. Questo controllo è riservato al giudice di merito, essendo consentito alla Corte regolatrice esclusivamente l'apprezzamento della logicità della motivazione (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 3, n. 8570 del 14-1-2003, Rv. 223469; Sez. fer., n. 36227 del 3-9-2004, Rinaldi; Sez. 5, n. 32688 del 5-7-2004, Scarcella; Sez. 5, n.22771 del 15-4-2004, Antonelli)”.
In questo caso il giudice a quo, di cui s'impugna la sentenza, ha evidenziato, per quanto attiene alla problematica relativa al casco protettivo, “la rilevanza probatoria delle dichiarazioni della persona infortunata, la quale ha riferito che, al momento del sinistro, calzava solo le scarpe antinfortunistiche, e di tutti i testimoni escussi, che hanno concordemente affermato che il collega, al momento dei primi soccorsi, non aveva l'elmetto. Del resto - precisa la Corte d'appello -, le gravi lesioni patite al capo escludono, con ragionevole certezza, che la vittima avesse il casco. D'altronde, l'elmetto capovolto è stato rinvenuto ad una distanza di alcuni metri dal sito in cui l'infortunato è stato soccorso e - argomenta il giudice di secondo grado -, considerando l'altezza, davvero modesta, dalla quale il lavoratore cadde, è decisamente poco verosimile che un elmetto regolarmente indossato potesse essere sbalzato così lontano, per effetto dell'impatto con il suolo. Per di più, tra gli indumenti dell'infortunato rimossi dal 118, in sede di soccorso, e rinvenuti dagli operanti, era presente un cappellino con evidenti tracce presumibilmente ematiche”.
Veniamo invece a quanto indicato relativamente alla valutazione dei rischi, al Piano operativo di sicurezza (POS).
La sentenza indica che per ciò che concerne l'assenza di previsione del ponteggio interno, nell'ambito del Piano Operativo di Sicurezza, il giudice di cui s'impugna la sentenza “ha posto in rilievo che tale lacuna è stata riscontrata dal tecnico della prevenzione, il quale ha riferito che la realizzazione della predetta opera provvisoria e le relative metodologie lavorative, poste in essere sulla struttura stessa, non erano state contemplate né nel Piano Operativo di Sicurezza né nel Piano di Sicurezza e Controllo. Ciò è stato confermato dallo stesso coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione dell'opera, il quale ha riferito che nulla era riportato nei predetti documenti in ordine alla realizzazione della struttura dalla quale era caduta la vittima. Di qui la conclusione secondo cui l'assenza di una specifica valutazione dei rischi riguardanti l'allestimento del ponteggio interno non aveva consentito di regolamentare la sua realizzazione, con l'individuazione di adeguate misure, volte a salvaguardare l'incolumità fisica dei lavoratori. Se vi fosse stata una specifica determinazione delle metodologie lavorative da osservare e delle opere prevenzionali da adottare, l'infortunio - precisa il giudice a quo - non si sarebbe verificato”.
L'apparato argomentativo a sostegno della sentenza è dunque “puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l'iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame tutte le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in questa sede”.
Veniamo al motivo di ricorso relativo al lavoro in quota.
Anche in questo caso “il motivo di ricorso è privo di fondamento. Si è infatti condivisibilmente ritenuto, in giurisprudenza, che l'altezza superiore a m 2 dal suolo, tale da richiedere le particolari misure di prevenzione prescritte dall'art. 122 d. lg. n. 81 del 2008 (che ha sostituito l'art. 16 d. P. R. n. 164 del 1956, ponendosi però in continuità con esso), va calcolata in riferimento all'altezza alla quale il lavoro viene eseguito, rispetto al terreno sottostante, e non al piano di calpestio del lavoratore (Cass., Sez. 4, n. 43987 del 28-2-2013, Rv. 257693; Cass., n. 741 del 1982; n. 7604 del 1982; n. 5461 del 1983). Sotto il profilo giuridico, non ha dunque rilievo che il piano di calpestio fosse posto ad un'altezza inferiore a metri 2, se il lavoro si svolgeva ad un'altezza superiore. E, in questa prospettiva, occorre osservare come la Corte d'appello abbia sottolineato che l'operaio lavorava a un'altezza tale per cui c'era il rischio, sia teorico che effettivo, che egli potesse cadere dall'alto, trattandosi di un lavoro da effettuarsi, ad operaio in posizione eretta, a oltre 2 m. Ragion per cui il rischio di caduta era prevedibile e doverosamente evitabile, sia in via preventiva, nel POS, sia nel momento esecutivo: trattasi di motivazione del tutto immune da censure”.
Rimandando ad una lettura integrale della sentenza le indicazioni della Corte di Cassazione sulle determinazioni del giudice di merito in ordine al trattamento sanzionatorio, segnaliamo che, invece, secondo la Corte è fondato l'ultimo motivo di ricorso.
Si indica infatti che risulta dalla sentenza impugnata “che, in primo grado, il processo si era svolto con rito abbreviato. Orbene, il giudice di appello, qualora pronunci sentenza di condanna, in riforma della sentenza assolutoria emessa in primo grado, nell'ambito di un processo svoltosi con rito abbreviato, deve applicare la diminuzione di pena prevista dall'art. 442 cod. proc. pen. (Cass., Sez. 3, n. 13812 del 12-2-2008, Rv. 239685). Erroneamente pertanto la Corte d'appello non ha applicato la diminuente in esame. Si impone pertanto un pronunciamento rescindente sul punto”.
Pertanto la sentenza impugnata va dunque “annullata senza rinvio, limitatamente alla misura della pena, che va determinata in mesi 2 e giorni 20 di reclusione”, mentre il ricorso “va rigettato nel resto”.
Ricordiamo, infine, altri articoli di PuntoSicuro che hanno affrontato il tema della definizione di lavori in quota a partire dalle pronunce della Corte di Cassazione:
- Ponteggi, sicurezza del lavoro e rischi di caduta nei lavori in quota;
- Le norme a protezione dalla caduta dall'alto nei lavori in quota.
RTM
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Rispondi Autore: Riccardo Coletti - likes: 0 | 02/11/2017 (09:02:22) |
ritorniamo all'annosa discussione sulla definizione di lavoro in quota: come si può affermare che la quota da cui bisogna calcolare i 2 m sia quella alla quale sto svolgendo il lavoro?!?!? Io sono alto 1,8 m, se sto su uno sgabello di 40 cm e attacco un chiodo all'altezza del mio viso, sto svolgendo un lavoro in quota?! ?!?!?!?! Mi sembra veramente assurdo.... |
Rispondi Autore: MF - likes: 0 | 02/11/2017 (11:12:53) |
Uno alto 2,01 fà sempre dei lavori in quota! ahahah. Che schifo l'Italia. |
Rispondi Autore: RAFFAELE Giovanni - likes: 0 | 02/11/2017 (13:02:55) |
Solita solfa, ..... oramai sembra che la Corte si stia stabilizzando sul concetto di lavoro in quota per come nella sopra descritta sentenza e cioè rispetto al lavoro e non al piano stabile dove il lavoratore poggia i piedi . Questo è un problema e che tutti avranno a che fare, pertanto, sarebbe auspicabile che il legislatore prendesse più consapevolmente decisioni in merito e legiferasse tale punto (lavoro in quota) con maggiori indicazioni e non lasciare il libero arbitrio su questioni tecniche al giudice di merito . |
Rispondi Autore: massimo pelamatti - likes: 0 | 04/11/2017 (09:16:27) |
l'importante è non usare i telefonini durante i lavori in quota. Troppe persone sono morte per cadute causate dall'utilizzo dei cellulari che hanno distratto in momenti in cui non è consentito distrarsi... |