Quando la valutazione del rischio chimico è sotto la lente delle Corti
Pur essendo il mondo delle aziende chimiche caratterizzato normalmente - quantomeno per la mia esperienza - da un elevato livello di attenzione alla gestione della salute e sicurezza sul lavoro che si traduce anche nelle notevoli competenze specialistiche e professionalità che vi operano all’interno (in corrispondenza all’elevato livello di rischio), non mancano però, anche in tale ambito, delle situazioni - che la giurisprudenza poi fotografa con i suoi pronunciamenti - nelle quali eventuali carenze organizzative e/o violazioni delle norme di salute e sicurezza sfociano in infortuni o malattie professionali che - proprio in virtù di quel particolare livello di rischio di cui si diceva - possono essere (e si rivelano spesso) anche molto gravi.
Si aggiunga poi il fatto che le problematiche connesse alla valutazione del rischio chimico non coinvolgono solo le aziende che potremmo definire propriamente chimiche, ma bensì riguardano a più livelli tutte le realtà organizzative che presentano, tra gli altri, anche tale profilo di rischio, le quali ultime, proprio perché a volte toccate solo incidentalmente e collateralmente dall’esigenza di gestire tale rischio, possono talvolta non avere una piena consapevolezza delle criticità e ricadute ad esso connesse.
Le questioni connesse al travaso, al trasporto, alla movimentazione e alla manipolazione delle sostanze chimiche, che impegnano fortemente - sotto il profilo organizzativo, procedurale e tecnico - gli operatori della prevenzione coinvolti, sono da sempre all’attenzione dei Tribunali e delle Corti.
Riporto qui dunque la sintesi di alcune sentenze - che ho selezionato per il loro interesse e la loro rappresentatività rispetto alla giurisprudenza che si è affermata in questo settore - che hanno posto la loro attenzione principalmente, anche se non esclusivamente, sui documenti di valutazione dei rischi aziendali in relazione agli eventi occorsi (infortuni e malattie professionali).
Non sfugga al lettore il fatto che, in queste pronunce (e ciò vale anche nei casi in cui, per brevità, non ho provveduto a specificarlo), alla carente valutazione del rischio chimico si è accompagnata anche una scarsa formazione e informazione del lavoratore.
Il primo caso giurisprudenziale che propongo è molto recente.
Con una interessante sentenza di quest’anno ( Cassazione Penale, Sez.IV, 20 febbraio 2024 n.7415), la Corte ha confermato la condanna del datore di lavoro (A.) di un’unità produttiva della R. S.p.a. (esercente attività di produzione di fogli autoadesivi) e di un preposto (B.) della stessa per l’infortunio causato ad un lavoratore (C.) addetto al laboratorio chimico.
Quest’ultimo, “il giorno dei fatti, stava svolgendo le attività necessarie alla preparazione di un particolare adesivo denominato “S.”, introdotto nel processo produttivo nell’autunno del 2016”, la quale prevedeva l’utilizzo di “una sostanza chimica - il “Laromin 327” - particolarmente pericolosa”.
La sentenza “riporta la scheda di sicurezza di questo materiale nei seguenti termini: “tossico a contatto con la pelle, mortale se inalato, nocivo se ingerito, capace di provocare ustioni della pelle e gravi lesioni oculari”.”
Dagli accertamenti era emerso che “le norme di sicurezza da applicare nella “lavorazione S.” erano state elaborate il 15 novembre 2015 all’esito della fase di ricerca e sperimentazione ed erano state illustrate ai lavoratori dello stabilimento di B - tra questi anche a C. - in due incontri del 14 e 22 novembre 2016.”
Quanto al documento di valutazione dei rischi, che era stato “redatto il 30 settembre 2016”, esso “stabiliva che tutte le attività rilevanti per la “lavorazione S.” (in particolare: “manipolazione, stoccaggio, trasporto di materie prime, smaltimento rifiuti, pulizia, manutenzione e attività ausiliarie in genere”) fossero “condotte in sicurezza”.”
Inoltre nel DVR “era previsto che il Laromin dovesse essere sempre utilizzato sotto cappa e indossando dispositivi personali di protezione (guanti, mascherine, occhiali e tuta).”
Occorre a questo punto tener conto di un elemento decisivo ai fini della ricostruzione dei vari passaggi della vicenda.
Infatti, “quando la “lavorazione S.” fu introdotta nel processo produttivo, il Laromin 327 era fornito dal produttore […] in flaconi da 500 grammi l’uno”; successivamente, però, “il prodotto iniziò ad essere fornito in fusti metallici da 160 kg ciascuno, sicché sorse la necessità di travasare la sostanza in contenitori più piccoli.”
Dunque, “a novembre del 2017, su iniziativa del preposto B., inserito un rubinetto nei fusti, il prodotto fu porzionato” e a tale scopo vennero utilizzati “barattoli di vetro simili a quelli che si usano per gli alimenti, di capienza pari a circa un chilo di prodotto.”
Il giorno dell’infortunio, “non riuscendo ad aprire il barattolo, C. si recò in officina, dove trovò il capo turno E.” e, facendosi aiutare da quest’ultimo (e memore di quanto aveva visto fare al preposto tempo prima in una analoga occasione), appoggiò il barattolo sul tavolo tenendolo con entrambe le mani “togliendosi i guanti per fare miglior presa e E. prese la chiave a pappagallo”; “appena iniziò ad allentare il tappo, però, il barattolo esplose”.
Come già anticipato, a partire dal momento in cui il produttore cominciò a “fornire il Laromin in fusti metallici da 160 kg e pertanto si pose il problema di travasare il prodotto in recipienti più piccoli”, emerse la necessità di regolare le modalità del travaso.
Tale problema “era noto a A. il quale, con mail del 30 maggio 2017 (allegato 5), dispose che il travaso fosse eseguito da un fornitore esterno specializzato.” Nonostante ciò, “in concreto, tuttavia, ciò avvenne solo a novembre del 2017, quando la “I. Srl” restituì alla R. il contenuto di un fusto da 160 kg di Laromin che aveva provveduto a travasare in fustini da 10 kg”.
La Cassazione specifica a questo punto che “la condotta alternativa doverosa che A. avrebbe dovuto tenere per evitare l’evento è stata individuata - coerentemente con le emergenze istruttorie - nell’aggiornamento del DVR, il quale, tenuto conto delle nuove modalità con le quali il Laromin veniva fornito, doveva: o vietare ogni attività di travaso del prodotto all’interno dello stabilimento, oppure, in alternativa, disciplinare nel dettaglio questa attività in modo da garantire che fosse svolta in sicurezza.”
All’interno del documento di valutazione dei rischi dell’azienda, che era stato redatto prima che nascesse l’esigenza di travasare il Laromin in fustini da 10 kg, “le prescrizioni impartite per l’utilizzazione […] non coprivano i rischi derivanti dall’attività di travaso”, laddove invece, “per individuare contenitori idonei alla conservazione e al successivo utilizzo in sicurezza del prodotto, sarebbe stato necessario valutare in questa prospettiva le caratteristiche del Laromin.”
Dall’altra parte, poi, “l’esternalizzazione concretamente attuata non era sufficiente: in primo luogo, perché non fu stabilito che si trattasse dell’unica modalità di travaso consentita; in secondo luogo, perché non si valutò se bastava suddividere il prodotto in fustini da 10 kg oppure era necessaria - e funzionale all’utilizzazione del materiale in condizioni di sicurezza - la predisposizione di contenitori di dimensioni ancora inferiori.”
In conclusione, “le nuove modalità di fornitura avevano ricadute sullo svolgimento del lavoro e pertanto A.A. aveva l’obbligo giuridico di indicare prassi operative idonee a prevenire i rischi, nuovi e diversi, che ciò comportava.”
Per quanto attiene infine al preposto B., che fu colui che decise di utilizzare “anche barattoli di vetro a collo largo”, la Corte precisa che, benché egli “non agì al di fuori delle proprie competenze […], tuttavia, poiché la procedura non era disciplinata dal DVR, ai sensi dell’art.19, comma 1 lett.f), d.lgs.n.81/08, B. avrebbe dovuto segnalare i problemi derivanti dalle operazioni di travaso e le difficoltà riscontrate nell’apertura dei barattoli.”
Passiamo ad esaminare un altro caso.
Con una interessante sentenza di due anni fa ( Cassazione Penale, Sez.III, 11 luglio 2022 n.26481), la Corte ha confermato la condanna del delegato V.R. e di A.F. - quest’ultimo in qualità di Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione - per il reato di omicidio colposo, a seguito di un “infortunio mortale avvenuto nel reparto produzioni chimiche della “D.U.” della Soc. A. farmaceutici S.p.a.” ai danni di un lavoratore (M.P.) “addetto alla macchina centrifuga C11, utilizzata per la centrifugazione dei prodotti chimici con solventi infiammabili ed utilizzata anche per la produzione dell’acido colico.”
La sentenza spiega che, “per la corretta esecuzione di tale ciclo produttivo, a fini di sicurezza, occorreva tenere sotto controllo la concentrazione di ossigeno tramite l’aggiunta di gas inerti e la pressione all’interno della macchina” e che, “prima di avviare il ciclo in sicurezza, era necessario inertizzare l’apparecchiatura, il che avveniva in modalità automatica.”
Poi “la centrifuga doveva essere caricata progressivamente con dosi parziali della miscela che riempivano la vasca della quantità di prodotto dovuta, per verificare la quale non esisteva alcun sistema strumentale, essendo rimessa al controllo visivo del lavoratore.”
Il giorno dell’evento, “M.P. aveva effettuato lo scarico dei prodotti, l’insaccamento dell’acido colico presente della centrifuga dopo l’esaurimento completo del ciclo di lavoro, lo svuotamento del sacco e il reinserimento del suo contenuto nella centrifuga, la chiusura della macchina e l’avviamento della stessa. A quel punto, secondo quanto si ricava dalla lettura degli atti, si verificavano l’esplosione e l’incendio; il M.P. veniva colpito al capo dal coperchio della centrifuga e raggiunto dalle fiamme.”
A seguito degli accertamenti, “la causa della esplosione era individuata nella mancata inertizzazione dell’apparecchiatura: la valvola che consentiva il passaggio dell’azoto nella centrifuga esplosa, infatti, era stata trovata chiusa e il commutatore risultava in posizione “manuale”, il che aveva consentito l’avvio della centrifuga nonostante che la percentuale di ossigeno presente rispetto a quella dell’azoto fosse al di sopra dei livelli di sicurezza in relazione all’infiammabilità del composto che vi circolava all’interno.”
A fronte di tale quadro, “M.P. aveva potuto avviare il ciclo, sebbene la valvola di azoto fosse chiusa, perché l’impianto si trovava in modalità “manuale” che era attivabile mediante l’inserimento della chiave di sicurezza nel selettore.”
La Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello, la quale “affermava la penale responsabilità degli imputati, in quanto, nonostante gli errori commessi dal lavoratore - ossia la mancata apertura del rubinetto dell’azoto e la mancata inertizzazione -, nondimeno il nesso causale era da attribuire alla non corretta precedimentalizzazione dell’uso delle chiavi, necessarie a commutare la macchina da manuale in automatico, sicché se le chiavi fossero state sottratte alla disponibilità degli operatori e la macchina collocata in automatico, questa non sarebbe partita.”
Procedendo ancora a ritroso di qualche anno, il tema del trasporto e della movimentazione di fusti contenenti sostanze pericolose è stato al centro di Cassazione Penale, Sez.IV, 4 luglio 2017 n.32101, con cui la Corte si è pronunciata sulla responsabilità del datore di lavoro M. per l’infortunio subito dal lavoratore S.
Nello specifico, si era verificato che “il S. stava movimentando con un carrello elevatore dei fusti metallici quando uno di questi subiva uno schiacciamento, che provocava la fuoriuscita del liquido in esso contenuto, il quale colpiva al corpo e al volto il lavoratore, che riportava lesioni personali gravissime, consistite in un indebolimento permanente dell’apparato respiratorio e dell’organo deputato alle funzioni digestive (fegato).”
Al datore di lavoro è stato ascritto “di aver omesso la valutazione del rischio chimico connesso al trasporto di sostanze pericolose e la valutazione dell’uso dell’accessorio utilizzato per il sollevamento di due fusti contemporaneamente, posto che l’abbinamento di esso con i vari carrelli presenti in azienda non era stata prevista dal produttore; di aver posto a disposizione del lavoratore un carrello elevatore privo di vetri; di non aver formato ed informato il personale dipendente sulle attività da compiersi ed i connessi rischi; di aver negligentemente gestito l’infortunio, non avendo fornito al lavoratore ed ai medici che lo presero in carico notizie circa le operazioni da compiersi, pur descritte nella scheda tecnica del prodotto (lavare le parti del corpo colpite, togliere gli indumenti contaminati, mantenere l’infortunato sotto controllo medico per più giorni).”
Concludiamo questa breve (e ovviamente non esaustiva) analisi con una sentenza ( Cassazione Penale, Sez.IV, 17 novembre 2016 n.48815) con cui la Corte ha confermato la condanna del datore di lavoro della S. Abrasivi per il reato di lesioni colpose ai danni di un’operaia (F.A.) che aveva contratto una malattia professionale a seguito dell’esposizione a resine epossidiche.
Già il Tribunale aveva considerato attendibili “le dichiarazioni rese da F.A. (dipendente della suddetta società, in qualità di operaia) in punto di: a) mansioni svolte (dapprima, nel 1991, come addetta allo smontaggio/scarico dei carrelli; e poi, sino al 2010, come addetta alla produzione di dischi lamellari); b) protezioni di cui disponeva (soli guanti in gomma, in lattice, fragili, in quanto si rompevano con l’abrasivo, ragion per cui lei stessa si era comprata dei guanti di cotone in modo da proteggersi le mani da arrossamenti e sanguinamenti).”
Tali dichiarazioni avevano trovato poi conferma in altre testimonianze.
In particolare, la “dott.ssa S., medico del lavoro, all’epoca dei fatti dipendente Asl, che aveva effettuato l’ispezione […] aveva riferito che i problemi subiti dalla F.A. derivavano essenzialmente dall’utilizzo di guanti inadeguati in alcune fasi della lavorazione (e precisamente in quella dello sostituzione del fusto, che conteneva la resina), che la esponevano a contatto cutaneo diretto non occasionale con resine epossidiche”.
Inoltre ella “aveva aggiunto che nel documento aziendale di valutazione del rischio era stata forse presa in considerazione la possibilità di inalazione di resine epossidiche ma non era stata certo presa in considerazione la possibilità di contatto con la suddetta sostanza e inoltre non erano state analizzate tutte le fasi del ciclo produttivo.”
E ancora, “aveva precisato che, per quanto verificato nel corso dell’ispezione, alla F.A. non erano state impartite informazioni sufficienti in ordine ai rischi delle lavorazioni di cui si occupava e neppure le era stata impartita una formazione adeguata al riguardo.”
Nel confermare la responsabilità dell’imputato, la Cassazione rifiuta di applicare la norma sull’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, indicando “come elemento ostativo al riconoscimento richiesto proprio la consuetudine con la fonte del rischio, la tolleranza a lungo mostrata dal ricorrente (nella contestata qualità di amministratore unico della società per la quale lavorava la F.A.) nel consentire che la lavorazione avvenisse a mani nude e l’accettazione dell’utilizzo di guanti non idonei.”
Anna Guardavilla
Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro