
Le responsabilità del Committente “di fatto”

La quarta sezione della Cassazione Penale, con la sentenza n. 7005 del 20 febbraio 2025, ha precisato alcuni aspetti fondamentali riguardanti il ruolo del committente nel caso in cui questa posizione di garanzia venga rivestita “di fatto”.
Il caso riguarda l’infortunio mortale di un lavoratore per caduta dall’alto in un cantiere dove si eseguivano lavori edili o d’ingegneria civile.
La Corte di appello di Firenze, il 7 giugno 2024, aveva integralmente confermato la sentenza, appellata dall'imputato in qualità di committente, con cui il GUP del Tribunale di Firenze, il 13 aprile 2021, all'esito del giudizio abbreviato, aveva riconosciuto l’imputato responsabile del delitto di omicidio colposo con colpa specifica riguardante la violazione degli artt. 90 comma 1, 90 comma 3, 96 comma 1, 148 comma 1, 148 comma 2, 64 comma 1, 18 comma 1, 37 comma 1 e 95 comma 1, del D. Lgs. n. 81/2008 ed anche della violazione dell'art. 22, comma 12, del D. Lgs. 1998, n. 286.
La prima tipologia di violazioni (art. 90 commi 1 e 3) riguarda, palesemente gli obblighi propri del committente in merito all’applicazione dei principi e misure generali di tutela ed alla nomina del CSP).
La violazione degli artt. 95 comma 1 (Misure generali di tutela) e 96 comma 1 (Obblighi dei datori di lavoro) così come l’art. 148 comma 1 (lavori speciali e protezioni contro la caduta dall’alto), riguardano il datore di lavoro anche “di fatto”.
Idem per gli artt. 18 comma 1 (obblighi dei datori di lavori, dei dirigenti e dei preposti) e 37 comma (Formazione dei lavoratori).
La violazione dell'art. 22, comma 12, del D. Lgs. n. 286/1998, invece, riguarda la violazione inerente l’impiego, alle proprie dipendenze, un lavoratore privo di permesso di soggiorno.
Da quanto sopra elencato, appare chiaro che l’imputato aveva rivestito sia la posizione di garanzia di committente che quella di datore di lavoro.
Questa è una situazione simile a quella che spesso si riscontra anche nei piccoli interventi edili dove il comune sig. Rossi, totalmente all’oscuro dei gli obblighi che la legge pone a suo carico, affida a soggetti privi delle benché minime competenze, l’esecuzione di piccoli lavori.
A tal riguardo va evidenziato che già da tempo la Suprema Corte si era pronunciata sugli adempimenti che, anche il committente “non professionale”, deve attuare al momento dell’affidamento dei lavori. Da ultima la sentenza della Cassazione Penale con la sentenza n. 33705 del 5 settembre 2024 ha specificato bene cosa si possa pretendere da un committente privato riguardo la verifica dell’idoneità tecnico professionale:
<<La giurisprudenza di questa Corte, tuttavia, distingue ormai da anni il committente professionale da quello privato. Si ritiene che il committente privato - in quanto tale non professionale - che affidi in appalto lavori di manutenzione domestica, non sia tenuto a conoscere, alla pari di quello professionale, le singole disposizioni tecniche previste dalla normativa prevenzionale. Gli si chiede tuttavia, se non vuole assumere su di sé tutti gli obblighi in materia di sicurezza e rispondere penalmente degli eventuali infortuni dei lavoratori, di scegliere adeguatamente l'impresa, verificando che essa sia regolarmente iscritta alla C.C.I.A., che sia dotata del documento di valutazione dei rischi e che non sia destinataria di provvedimenti di sospensione o interdittivi ai sensi dell'art. 14, D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81. Si profilerà, inoltre, una sua responsabilità penale quando vi sia prova che si sia ingerito nell'organizzazione o nell'esecuzione del lavoro o in presenza di un'agevole ed immediata percepibilità delle situazioni di pericolo>>.
Nel caso in esame, però, non ci si trovava di fronte ad un committente “non professionale”.
L’evento era avvenuto nell’estate del 2019: un lavoratore, mentre stava operando in quota sulla copertura di un capannone <<per spegnere, adoperando una scopa, l'incendio di una guaina in catrame che era stata apposta per porre rimedio ad una infiltrazione di acqua dalla copertura, a causa del cedimento della rottura della copertura in cemento-amianto intervallata da lucernai in vetroresina, non essendo assicurato in alcun modo, è precipitato dall'altezza di circa otto metri e ha perso la vita a causa del conseguente gravissimo trauma cranio-toracico-addominale>>.
Nelle indagini effettuate a seguito dell’evento, l’imputato aveva cumulato le posizioni di garanzia di sostanziale committente dei lavori di riparazione dell'immobile e di datore di lavoro di fatto dell'operaio precipitato e deceduto.
Questo era emerso da una serie testimonianze e degli accertamenti svolti sul telefono cellulare dell’infortunato e dei tabulati telefonici. In particolare, era emerso che il capannone era stato ceduto in locazione all’imputato al fine di utilizzarlo come magazzino e che il giorno dell’evento l’imputato aveva telefonato ad un teste ascoltato in Tribunale, riferendogli testualmente <<mi è cascato un ragazzo dal tetto>> confidandogli di aver inviato l’infortunato nel capannone per effettuare dei lavori di pulitura. Il proprietario dell’immobile aveva escluso di avere mai autorizzato l’imputato ad effettuare lavori sull'immobile; la moglie della vittima, invece, aveva confermato che il coniuge lavorava da cinque mesi come saldatore, "in nero", esclusivamente per l’imputato.
Pertanto, la Corte d’appello aveva ritenuto l’imputato colpevole di aver causato la morte del lavoratore:
- avendolo inviato a lavorare in quota senza nessun dispositivo di protezione e senza alcuna formazione;
- per non avere nominato il coordinatore per l'esecuzione dei lavori, che, predisponendo il piano di sicurezza e coordinamento, avrebbe pianificato la sicurezza del cantiere e gestito i rischi interferenziali;
- per non avere redatto il piano operativo di sicurezza (POS) per i lavori di riparazione del tetto;
- per avere iniziato i lavori sul tetto senza avere verificato la resistenza del piano rispetto ai pesi degli operai e delle attrezzature e senza avere predisposto tavole, reti di sicurezza o imbracature e, più in generale, dispositivi anticaduta;
- senza avere messo a disposizione estintori, nonostante la presenza nel cantiere di materiali infiammabili e il rischio di incendio;
- per non avere fornito al dipendente dispositivi di protezione individuali, tra cui scarpe antinfortunistiche e imbracature di sicurezza;
- per non avere formato sufficientemente il lavoratore dipendente;
- per avere omesso di adottare, le misure di cautela di cui all'art. 15 D. Lgs. n. 8/2008;
- per avere impiegato alle proprie dipendenze lavoratore privo di permesso di soggiorno.
Tribunale e Corte di appello hanno motivatamente confutato la tesi difensiva secondo cui la vittima non era dipendente dell'imputato ovvero non lo era quel giorno e per quell'attività, essendo stato chiamato in precedenza solo per ripulire l'immobile ma non per riparare il tetto, attività per la quale era stato "cooptato" da un parente presso il quale aveva dormito la notte precedente.
Nonostante un quadro accusatorio di questa portata e con motivazioni piuttosto chiare nelle decisioni del Tribunale e della Corte d’appello, l’imputato, con il suo legale, ha fatto ricorso per Cassazione, affidandosi a quattro motivi con i quali lamenta violazione di legge (i primi due motivi) e vizio di motivazione (il secondo, il terzo e il quarto) chiedendo l’annullamento della sentenza.
L’imputato, con il primo motivo ha lamentato violazione di norma processuale (artt. 64-65 cod. proc. pen.) con riferimento alle sommarie informazioni rese da un parente dell’infortunato, emergendo sin dall'inizio elementi di possibile reità nei suoi confronti. Si tratterebbe di dichiarazioni decisive quanto alla presenza dell’imputato sul tetto intento alla esecuzione dei lavori, circostanza che altrimenti - si assume - non sarebbe dimostrata.
Con il secondo motivo ha censurato la violazione di legge (art. 589 cod. pen.) e difetto di motivazione, che sarebbe manifestamente illogica, in ordine alla posizione di garanzia dell'imputato, che non sarebbe mai stata quella di datore di lavoro della vittima ma, invece, di committente dei lavori ma senza alcuni tra i profili di colpa contestati, in quanto inconsapevole della partecipazione dell’infortunato, quel giorno "cooptato" dal parente che - sì - era stato incaricato dall’imputato della riparazione del tetto e che quel giorno in concreto dirigeva i lavori nel cantiere. L'imputato aveva in precedenza soltanto chiesto all’infortunato, in effetti privo di permesso di soggiorno ed irregolarmente assunto, di effettuare lavori di pulizia e di sistemazione dell'immobile, ma non altro.
Second la difesa, le fonti di conoscenza valorizzate dai giudici di merito non offrirebbero la prova che la vittima quel giorno fosse alle dipendenze dell'imputato, poiché non sarebbero univoche e risulterebbero travisate. Inoltre, la testimonianza di un teste che aveva parlato della presenza dell’imputato sul tetto anche il giorno dell’evento non sarebbe elemento idoneo a dimostrare che l'imputato abbia avuto una concreta ingerenza nei lavori.
Con il terzo motivo si duole di manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla condanna per successivi capi di imputazione, richiamando gli argomenti svolti al punto precedente.
Il quarto motivo, si riferisce al trattamento sanzionatorio, che sarebbe eccessivamente gravoso sia quanto all'omesso riconoscimento delle attenuanti generiche sia quanto alla mancata riduzione degli aumenti in continuazione con i reati ulteriori rispetto al primo capo d’imputazione. In particolare, si lamenta che le attenuanti generiche siano state negate alla luce della negatoria da parte dell'imputato della qualifica di datore di lavoro della vittima cioè in sostanza della mancata ammissione dell'addebito, ciò che non sarebbe consentito senza confrontarsi con gli altri elementi sviluppati dalla Difesa.
La Suprema Corte, preso atto di quanto emerso nei precedenti giudizi, ha ritenuto il ricorso manifestamente infondato, motivandolo come segue.
Riguardo al primo motivo (con cui si lamenta la violazione degli artt. 64-65 cod. proc. pen. con riferimento alle sommarie informazioni rese dal parente della vittima il giorno dell’evento), come correttamente osservato dal P.G. di legittimità nella requisitoria, la Corte territoriale, rispondendo al primo motivo di appello, ha puntualizzato che la responsabilità dell'imputato è stata accertata indipendentemente dal rilievo attribuito alle dichiarazioni del citato parente della vittima ma sulla base di testimonianze di altri soggetti e dell'esito degli accertamenti svolti sul telefono cellulare dell’infortunato e sui tabulati telefonici. Si tratta, perciò, di motivo meramente reiterativo.
Inoltre, non corrisponde a quanto effettivamente accertato dai giudici di merito l'assunto secondo il quale, non emergerebbe la presenza dell'imputato sul tetto quel giorno. Trascurando la testimonianza del parente della vittima, sullo specifico punto vi è anche la testimonianza, ritenuta attendibile, di un altro teste che colloca, il giorno dell’evento, l’imputato sul tetto del capannone.
Per quanto riguarda il secondo motivo (violazione di legge e vizio motivazionale in relazione alla posizione di garanzia dell'imputato) e il terzo motivo (vizio di motivazione quanto all'affermazione di penale responsabilità per i capi di accusa riguardanti la posizione di garanzia di “datore di lavoro” dell’infortunato), anche essi si risolvono nella mera reiterazione di doglianze già prese in considerazione e disattese nella sentenza impugnata che ha confutato gli assunti difensivi secondo cui l’imputato aveva dato incarico della riparazione del tetto al parente dell’infortunato ma non era al corrente che quest’ultimo sarebbe stato chiamato dal primo a “collaborare” per l’esecuzione dei lavori.
Pertanto, la posizione dell'imputato visto che:
- si era avvalso concretamente dell'opera della vittima;
- era compresente sul tetto dell'edificio durante i lavori ed il maldestro tentativo di spegnimento dell'incendio;
- aveva fornito la bombola GPL,
andava ricondotta quantomeno a quella del “committente di fatto” con fattiva ingerenza.
Infine, in relazione al quarto ed ultimo motivo (in tema di trattamento sanzionatorio, stimato dal ricorrente eccessivamente gravoso sia per il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche sia per la ritenuta eccessiva severità degli aumenti in continuazione), si osserva che, quanto al diniego delle generiche, la Corte territoriale, conformemente al Tribunale, ha osservato che non vi sono elementi positivi per il riconoscimento (nell'atto di appello si era sottolineato soltanto avere l'imputato risposto all'interrogatorio, fornendo la propria versione dei fatti). Quanto, invece, alla lamentata mancata riduzione per gli aumenti, il motivo è indicato nell'epigrafe ma poi non è in alcun modo sviluppato nel ragionamento, risultando, quindi, sotto questo aspetto, inammissibile.
In conclusione, secondo la Suprema Corte, essendo, in definitiva, il ricorso inammissibile e non ravvisandosi ex art. 616 cpp assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost., sentenza n. 186 del 7-13 giugno 2000), alla declaratoria di inammissibilità segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della sanzione pecuniaria nella misura, che si ritiene congrua e conforme a diritto, che è indicata in dispositivo.
Carmelo Catanoso
Ingegnere Consulente di Direzione

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