La responsabilità da reato degli enti e la colpa di organizzazione
Per la morte di un lavoratore dipendente di una azienda a seguito di un infortunio occorsogli per essere caduto in un pozzetto nel quale è poi annegato la Corte di Cassazione, in questa sentenza della IV Sezione penale, ha individuata la responsabilità per omicidio colposo oltre che del datore di lavoro, anche della società di appartenenza in applicazione del D. Lgs. n. 8/6/2001 n. 231 avendo la stessa scelto deliberatamente di risparmiare sull'impiego di personale e su un'adeguata formazione del lavoratore deceduto. All'impresa, oltre alla mancata previsione di misure specifiche volte ad impedire infortuni, era stato imputato anche di avere sì previsto, nel documento di valutazione dei rischi aziendali, il pericolo di caduta posto alla base dell’evento accaduto ma solo in termini generici facendo, con tali omissioni, conseguire alla società un duplice vantaggio economico a scapito della vittima.
A seguito del ricorso presentato sia dal datore di lavoro che dalla società, la suprema Corte ha trovata l’occasione di ribadire diversi principi, già espressi in precedenti proprie espressioni, in merito all’applicazione del citato decreto legislativo n. 231/2001 sulla responsabilità amministrativa delle società e degli enti per reati in materia di salute e sicurezza sul lavoro. La stessa ha richiamato il concetto di " colpa di organizzazione", da intendersi in senso normativo e cioè ricollegata all'inottemperanza da parte della società o dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati colposi, posti in essere in violazione della normativa antinfortunistica (art. 25 septies del D. Lgs. n. 231 del 2001), da inserire in specifici modelli di organizzazione e gestione (MOG) precisando tuttavia che, ai fini della configurabilità della responsabilità da reato degli enti, non è sufficiente comunque accertare ex se la mancanza o l’inidoneità di tali modelli oppure la loro inefficace attuazione, essendo necessario dimostrare appunto l’esistenza della citata "colpa di organizzazione", che caratterizza la tipicità dell'illecito amministrativo e che è distinta dalla colpa degli autori del reato.
Il fatto e l’iter giudiziario.
La Corte di Appello ha confermata la sentenza del Tribunale, resa all'esito di un giudizio abbreviato, con la quale il datore di lavoro di una azienda agricola era stato condannato, pena sospesa, per il reato di cui all'art. 589, comma 2, c.p. ai danni di un lavoratore dipendente e la società che gestiva l’azienda stessa alla relativa sanzione pecuniaria perché ritenuta responsabile dell'illecito amministrativo dipendente dal reato.
In particolare, la vittima, da anni dipendente della citata azienda agricola, era stata ritrovata priva di vita all'interno del condotto fognario sottostante le stalle, ove era precipitato attraverso un tombino, trascinato dal potente flusso dei liquami. Lo stesso, secondo la ricostruzione d'accusa recepita già nella sentenza di primo grado, era caduto nel condotto, nel contesto lavorativo al quale era stato assegnato e cioè durante le operazioni di pulizia della stalla. I fatti erano stati così ricostruiti in base agli accertamenti espletati e alla consulenza disposta dal P.M.: l'uomo aveva perso il sifone (che i lavoratori sfilavano per far defluire meglio i liquami), sganciato dal pozzetto di comunicazione tra stalla e il condotto fognario (sifone, infatti, non ritrovato nel pozzetto ma a pochi metri dal corpo) e si era abbassato per recuperarlo cadendo accidentalmente nel pozzetto; stordito dai gas dei liquami, era stato travolto dal flusso di essi ed era annegato (causa del decesso accertata ad esito di una consulenza autoptica). Era stata, peraltro, esclusa la presenza di sostanze tossiche e/o farmacologiche tali da poter compromettere l'efficienza sensoriale e psicomotoria del lavoratore, nonché la presenza di stati patologici preesistenti o di patologie spontanee che avessero potuto agire come fattori alternativi o concorrenti nel determinismo della caduta e/o del decesso.
Tale essendo la ricostruzione operata nel doppio grado di merito, quanto alle responsabilità, era stato rimproverato al datore di lavoro e responsabile per la sicurezza dei luoghi di lavoro di non avere segregato l'interno dei pozzetti (nei quali defluivano i liquami da deiezione degli animali, per poi essere incanalati nel condotto fognario) con idonee chiusure per impedire l'eventuale caduta all'interno (lasciando solo la possibilità del passaggio di arnesi da lavoro) e di avere previsto nel DVR solo in termini generici il pericolo di caduta, senza individuare procedure lavorative standard e tecnicamente adeguate per la manutenzione delle condotte di scolo e con la previsione della necessaria contemporanea presenza di almeno due lavoratori.
L'ente ispettivo, nel verbale di prescrizioni, aveva rilevato la situazione di pericolo di caduta (art. 64, comma 1, lett. a) e in riferimento ai punti 1.5. e 14.1 dell’allegato IV del D. Lgs. n. 81 del 2008), prescrivendo la segregazione dell'interno dei pozzetti con grigliato d'acciaio; nella imputazione, era stata contestata anche la violazione degli artt. 15, lett. c) e 28, comma 1 e 2, lett. d) del D. Lgs. n. 81 del 2008, con riferimento alla attuazione delle procedure lavorative descritte (in base a quanto rinvenibile nella sentenza appellata: una volta al mese il singolo lavoratore provvedeva a smontare il sifone, previa apertura del tombino adiacente la stalla, i cui coperchi erano solo appoggiati; l'operazione era svolta in piedi dal lavoratore piegandosi in avanti o in ginocchio sul bordo del tombino; i lavoratori erano consapevoli del rischio di essere travolti dal flusso dei liquami e avevano imparato la procedura osservando i colleghi, senza aver seguito apposito corso di formazione).
Il ricorso per cassazione e le motivazioni.
Avverso la sentenza d'appello, hanno proposto ricorsi sia il datore di lavoro che l'ente. La difesa del primo ha formulato un motivo unico, con il quale ha dedotto un vizio della motivazione, con riferimento ai punti devoluti con il gravame. Il deducente ha osservato che i giudici d'appello non avrebbero esaminato tutti i motivi rassegnati dalla parte, allegando un silenzio motivazionale sulla rilevata assenza di lesioni sul corpo del lavoratore, ritenuta dalla difesa incompatibile con una caduta accidentale, tenuto conto altresì che, all'eventuale caduta di oggetti, poteva ovviarsi recuperandoli da un tombino lontano 45 metri dal luogo in cui fu rinvenuto il cadavere.
La difesa ha inoltre espressamente contestato i tre aspetti di colpa specifica attribuita (assenza di protezioni anti caduta; omessa previsione del pericolo nel DVR; omessa previsione della presenza di una coppia di lavoratori) rilevando che i tombini avevano dimensioni tali da non far temere il pericolo di caduta al loro interno. L'esistenza di un pozzetto più grande, inoltre, garantiva il recupero di oggetti caduti nelle condutture e il silenzio nel DVR sulle procedure lavorative era compensato dalla conoscenza della prassi da parte della vittima; neppure l'ente ispettivo infine aveva formulato prescrizioni sulla necessità della presenza di due lavoratori per eseguire il distacco del sifone. Quanto al nesso causale, la difesa ha rilevata la genericità della risposta della Corte territoriale, formulata senza neppure aver "compreso" l'effettiva dinamica dei fatti, essendo state riportate contraddittoriamente due spiegazioni alternative (caduta accidentale e stordimento per le esalazioni; oppure accesso volontario).
La difesa della società invece ha dedotto un vizio motivazionale circa il ravvisato vantaggio conseguito al reato. Secondo la stessa nei due gradi di merito i giudici si sarebbero limitati ad asserirne l'esistenza, quello d'appello avendo tentato di supplire alla carenza motivazionale della sentenza appellata, censurata sul punto, limitandosi a una ricostruzione soggettiva della vicenda, senza dar conto della ragione per la quale l'impiego di due lavoratori per quella lavorazione determinasse un costo per la società, dal momento che la stessa avrebbe potuto farlo semplicemente impiegando lavoratori già assunti e quotidianamente presenti, soluzione, quest'ultima, certamente più logica da un punto di vista imprenditoriale. Sotto altro profilo, poi, la difesa della società ha rilevato che la Corte territoriale nulla avrebbe specificato in ordine all'entità del vantaggio che si era assunto fosse stato conseguito da parte dell'ente, indispensabile presupposto per inferire la prova dell'oggettiva prevalenza delle esigenze della produzione e del profitto rispetto alla tutela dei lavoratori. Né l'ente ispettivo aveva rilevato profili di criticità connessi allo sfilamento del sifone da parte di un solo lavoratore, prescrivendone l'affiancamento con altro collega. Gli stessi rilievi ha articolato la difesa quanto alla presunta, mancata previsione di istruzioni specifiche ai dipendenti (aspetto parimenti non censurato dall'organo ispettivo): anche con riferimento alla inadeguatezza organizzativa la Corte non aveva indicato in cosa sarebbe consistito il vantaggio conseguito e quale ne fosse stata l’entità.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.
La Corte di Cassazione ha rigettato entrambi i ricorsi. Con riferimento alla ipotesi sostenuta dalla difesa secondo la quale il lavoratore si era infilato di sua iniziativa nel condotto finendo per essere trascinato nel flusso dei liquami nei quali è annegato forse per recuperare un telefonino, ipotesi ritenuta dal Tribunale fantasiosa, oltre che del tutto illogica, posto che nessuno si introdurrebbe volontariamente all'interno di una rete fognaria, percorrendo carponi decine di metri per recuperare un apparecchio già compromesso dai liquami, la Corte di Appello ha risposto escludendo una abnormità del comportamento del lavoratore interruttiva del nesso di causa, atteso che la vittima, al momento dell'infortunio, stava espletando mansioni affidategli e il suo tentativo di recuperare un pezzo caduto in una delle condutture era prevedibile in relazione alle descritte modalità lavorative invalse nell'azienda e alle caratteristiche del luogo di lavoro.
Le doglianze difensive sono state ritenute dalla Corte di Cassazione manifestamente infondate alla stregua del consolidato orientamento della stessa Corte di legittimità, E' certamente vero, ha sostenuto la stessa, che in materia di prevenzione antinfortunistica si è passati da un modello "iperprotettivo", interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori (non soltanto fornendo i dispositivi di sicurezza idonei, ma anche controllando che di questi i lavoratori facciano un corretto uso, imponendosi contro la loro volontà), a un modello "collaborativo", in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori, in tal senso valorizzando il testo normativo di riferimento (art. 20 del D. Lgs. n. 81 del 2008), il quale impone anche ai lavoratori di attenersi alle specifiche disposizioni cautelari e agire con diligenza, prudenza e perizia; in altri termini, si è passati dal principio "dell'ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore" al concetto di "area di rischio" che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva.
Tuttavia, ha precisato la Sezione IV, va fermamente ribadito il principio secondo il quale non può esservi alcun esonero di responsabilità all'interno dell'area di rischio, nella quale si colloca l'obbligo datoriale di assicurare condizioni di sicurezza appropriate anche in rapporto a possibili comportamenti trascurati del lavoratore. All'interno dell'area di rischio considerata, quindi, deve ribadirsi il principio per il quale la condotta del lavoratore può ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo ove sia tale da attivarne uno eccentrico o esorbitante dalla sfera governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia, oppure ove sia stata posta in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e, come tale, al di fuori di ogni prevedibilità da parte del datore di lavoro, oppure vi rientri, ma si sia tradotta in qualcosa che, radicalmente quanto ontologicamente, sia lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro.
La risposta approntata dai giudici del merito è stata quindi ritenuta dalla suprema Corte assolutamente coerente con tali principi: la regola cautelare violata (mancato approntamento di cautele atte a impedire l'entrata nei pozzetti da parte dei lavoratori addetti alla manutenzione e pulizia delle stalle) era intesa a prevenire proprio il rischio di caduta, a prescindere dalla volontarietà o accidentalità della presenza del lavoratore all'interno del pozzetto, prima, e del condotto dove ha trovato la morte, dopo; l'assenza del presidio di sicurezza, peraltro, non era stata neppure compensata dalla adozione di procedure lavorative (intervento in coppia) idonee a scongiurare che la caduta del lavoratore intento alle operazioni di pulizia potesse restare inosservata.
Parimenti infondato è stato ritenuto il motivo legato al fatto che la Corte territoriale non avrebbe indicato, con riferimento all’inadeguatezza organizzativa, in che cosa fosse consistito il vantaggio conseguito e quale ne fosse stata l’entità. Nel caso di responsabilità degli enti ritenuta in relazione a reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica, ha precisato la suprema Corte, si parla di " colpa di organizzazione", da intendersi in senso normativo, ricollegata cioè al rimprovero derivante dall'inottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individui i rischi e delinei le misure atte a contrastarli. Si è peraltro chiarito, in via interpretativa, che i criteri di imputazione oggettiva vanno riferiti alla condotta del soggetto agente e non all'evento, in conformità alla diversa conformazione dell'illecito, essendo possibile che l'agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l'evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell'ente.
Peraltro, “ai fini della configurabilità della responsabilità da reato degli enti, non sono ex se sufficienti la mancanza o inidoneità degli specifici modelli di organizzazione o la loro inefficace attuazione, essendo necessaria la dimostrazione, per l'appunto, della ‘colpa di organizzazione’, che caratterizza la tipicità dell'illecito amministrativo ed è distinta dalla colpa degli autori del reato”. L’ente risponde per fatto proprio e deve essere verificata una "colpa di organizzazione" da parte dello stesso dimostrandosi che non sono stati predisposti accorgimenti preventivi idonei a evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato. E' quindi il riscontro di un tale deficit organizzativo a consentire l'imputazione all'ente dell'illecito penale realizzato nel suo ambito operativo e spetta all'accusa, pertanto, dimostrare l'esistenza dell'illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa dell'ente e l'avere essa agito nell'interesse del secondo, previa individuazione di precisi canali che colleghino teleologicamente l'azione dell'uno all'interesse dell'altro.
Nel caso in esame, ha così concluso la suprema Corte, dalla lettura combinata delle due sentenze di merito, è stato possibile ricavare in che cosa sia consistito il vantaggio al quale è stata ricollegata la responsabilità amministrativa dell'ente e di valutarne l'oggettivo rilievo in termini di colpa di organizzazione. Il primo giudice ha affermato che il deficit di sicurezza dal quale era derivato l'evento mortale era dipeso dal "minor impegno" da parte dei soggetti apicali, con conseguente vantaggio economico; la Corte territoriale, dal canto suo, ha ravvisato tale vantaggio nella mancata formazione di squadre di lavoro (personale aggiuntivo) per svolgere in sicurezza mansioni pericolose, omissione a sua volta direttamente ricollegata al problema organizzativo accertato (mancato affiancamento e informazione adeguata del lavoratore).
Per quanto sopra detto quindi la Corte di Cassazione ha rigettato i ricorsi e condannato i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.
Gerardo Porreca
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Rispondi Autore: andrea tonizzo - likes: 0 | 07/09/2023 (21:04:22) |
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