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I rischi che il datore di lavoro deve rilevare a prescindere dall’RSPP

L’affidamento che il datore di lavoro è legittimato a riporre nella consulenza tecnico-valutativa dell’RSPP, con riferimento all’attività di valutazione dei rischi e alla redazione del DVR, non è, sotto il profilo delle responsabilità penali del datore di lavoro stesso in relazione a tali suoi obblighi, incondizionato e illimitato.
Detto in parole più semplici, anche allorché l’RSPP ometta di segnalare un rischio al datore di lavoro (e quindi ferma restando ovviamente la potenziale responsabilità colposa dell’RSPP), il datore di lavoro non è sempre e comunque liberato dalla sua responsabilità penale legata all’omissione dell’obbligo datoriale di valutare i rischi e di redigere il relativo documento, dal momento che l’individuazione dei rischi non richiede in tutti i casi competenze specialistiche.
Giuridicamente parlando, vi sono infatti limiti ben precisi - sottolineati, come vedremo, dalla giurisprudenza - all’applicazione del principio di affidamento all’ambito della responsabilità penale del datore di lavoro correlata all’individuazione dei rischi (e alla successiva valutazione degli stessi), quali attività che, ai sensi dell’art.33 del D.Lgs.81/08, sono ex lege oggetto dell’incarico - di natura consulenziale - conferito all’RSPP.
Ciò anzitutto in quanto il datore di lavoro, pur non essendo un soggetto dotato (necessariamente) di competenze specialistiche in materia di salute e sicurezza, è comunque destinatario, come qualunque altra persona, di tutta una serie di conoscenze “diffuse” che derivano dalla comune esperienza (oltre che, in prospettiva, a seguito dell’entrata in vigore dell’Accordo Stato-Regioni 17 aprile 2025, di una formazione ad hoc in tale materia).
In aggiunta a ciò, essendo il datore di lavoro destinatario dell’obbligo indelegabile di valutare i rischi lavorativi e redigere il relativo documento, la giurisprudenza esige da lui una verifica sull’attività del professionista (RSPP) per tutto ciò che rientra nelle sue competenze datoriali, pur non specialistiche.
Andando ad approfondire questo aspetto, tali competenze del datore di lavoro ricomprendono da un lato il vasto ambito delle informazioni relative all’organizzazione aziendale (mansioni affidate ai lavoratori, attività svolte, aree aziendali nelle quali si svolgono le singole attività etc.), che egli, quale dominus dell’organizzazione stessa, non può non detenere; circostanza, questa, che gli impone - come da sempre ribadito dalla giurisprudenza, v. oltre - di verificare la completezza e l’adeguatezza del documento di valutazione dei rischi con riferimento a tali elementi.
Dall’altro lato, le competenze di tale soggetto investono - per giurisprudenza costante - anche tutti i rischi rilevabili dal datore di lavoro stesso “con la ordinaria diligenza sulla base di competenze tecniche di diffusa conoscenza ovvero di regole di comune esperienza”.
Questo elemento emerge con molta chiarezza nelle sentenze che fino ad oggi si sono pronunciate su casi in cui il datore di lavoro - quale soggetto cui è stata imputata una carenza nel DVR in relazione a rischi di cui si è omessa la valutazione e che sono da ritenersi rilevabili secondo le regole di comune esperienza o, addirittura, a rischi di intuitiva evidenza - ha addotto, quale argomentazione difensiva, il fatto che la valutazione dei rischi e la redazione del relativo documento erano stati da lui affidati all’RSPP (senza che tale argomentazione abbia recato alcun vantaggio al ricorrente sotto il profilo difensivo).
Vediamo a questo proposito una interessante pronuncia dell’anno scorso, che illustra con molta chiarezza i principi che abbiamo preso in esame finora, e qualche ulteriore significativo precedente giurisprudenziale.
Con Cassazione Penale, Sez.IV, 15 aprile 2024 n.15406, la Corte ha confermato la condanna del datore di lavoro A. della T.P. s.r.l. per l’infortunio avvenuto nel 2016 all’interno di uno stabilimento produttivo di manufatti in alluminio.
In particolare, era accaduto che, “mentre l’operaio B. era intento a raccogliere le impurità dell’alluminio in fusione (c.d. “scorificazione”) all’interno di un forno che era aperto adoperando un mestolo metallico, la immersione del mestolo nell’alluminio fuso a 700 gradi ha prodotto una violenta reazione chimica con conseguente proiezione di schizzi di metallo fuso sul viso e sul corpo dell’uomo e causazione di ustioni di secondo grado alle mani e di ustioni di primo grado al volto, all’addome ed agli arti inferiori”.
A seguito dei dovuti accertamenti, “si è ritenuto che le dotazioni lavorative di sicurezza fornite non fossero adeguate, indossando guanti in pelle con resistenza meccanica ma non al calore ed alti soltanto sino al polso, grembiule e pantaloni della tuta in tessuto di cotone, anziché indumenti “alluminizzati”, ed occhiali da lavoro, ma non già protezioni del viso e del capo quale una visiera con calotta”.
Al datore di lavoro A. è stata imputata la “violazione dell’art.77, comma 3, del d.lgs.9 aprile 2008, n.81, secondo cui il datore di lavoro deve fornire al lavoratore i dispositivi di protezione individuale (acronimo: D.P.I.) conformi ai requisiti di cui all’art.76 del D.Lgs.n.81 del 2008, ossia, tra l’altro, adeguati ai rischi da prevenire e alle condizioni esistenti sul luogo di lavoro, mentre nel caso di specie ciò non è avvenuto, non essendovi al momento dell’infortunio indumenti protettivi adeguati in azienda.”
Nel ricorrere in Cassazione, A. ha contestato - tra i vari motivi di ricorso - il fatto che “dalla motivazione della sentenza non si ricava in alcun modo la certezza che l’imputato potesse essere a conoscenza che il tipo di dispositivi individuali di protezione concretamente utilizzati in azienda non fosse adeguato a proteggere il lavoratore per l’evenienza di schizzi di alluminio fuso: infatti - si sottolinea - dall’istruttoria […] è emerso che il datore di lavoro si era avvalso di un professionista tecnico esterno all’azienda, l’ing. C.C., per elaborare il documento di valutazione del rischio e che la valutazione del rischio era aggiornata a dicembre 2015, cioè a pochi mesi prima dell’infortunio.”
Secondo la difesa dell’imputato, “A. aveva fatto affidamento sulle determinazioni tecniche del documento di valutazione del rischio recentemente aggiornato e sulla circostanza della esperienza, protratta negli anni, del lavoro in azienda proprio con quel tipo di protezioni: donde - si assume - la mancanza di prova che l’imputato conoscesse o potesse conoscere della inadeguatezza dei dispositivi rispetto al rischio “schizzi di alluminio bollente”.”
La Cassazione ha rigettato il ricorso di A., ritenendo in particolare l’argomentazione dell’imputato - su riportata - priva di fondamento, dal momento che essa “sottende l’assunto difensivo che l’obbligo di sicurezza sia delegabile a figura tecnicamente attrezzata, essendo stato nel caso di specie incaricato un ingegnere della elaborazione e redazione del documento di valutazione del rischio”.
Tale affermazione, però, secondo la Corte, “impone qualche precisazione, a partire dal richiamo, da parte del Collegio, al principio di diritto già affermato da Sez.4, n.43350 del 05/10/2021, Mara, Rv.282241, secondo cui “In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la redazione del documento di valutazione dei rischi e l’adozione di misure di prevenzione non escludono la responsabilità del datore di lavoro quando, per un errore nell’analisi dei rischi o nell’identificazione di misure adeguate, non sia stata adottata idonea misura di prevenzione”.
Fatta tale premessa, la Cassazione chiarisce che, “affinché possa escludersi la colpa soggettiva del datore di lavoro che si sia avvalso di “saperi esperti” per la individuazione del rischio e delle modalità per prevenirlo, è necessario che l’informazione fornita dal tecnico non sia verificabile dal datore di lavoro tramite le proprie competenze e la ordinaria diligenza.”
Una circostanza, questa, che peraltro “nel caso di specie non può ritenersi, in quanto hanno ritenuto i giudici di merito con motivazione che risulta logica” che “guanti in pelle, peraltro alti solo sino al polso, grembiule e pantaloni della tuta in cotone, anziché indumenti “alluminizzati”, e occhiali da lavoro senza calotta che protegga il viso ed il capo non erano, con intuitiva evidenza, idonei a riparare il corpo da pericolosi schizzi di alluminio fuso a 700 gradi.”
A questo punto la Corte, nell’illustrare tale concetto, istituisce questo interessante parallelismo: “si tratta, peraltro, di ragionamento non dissimile, naturalmente mutatis mutandis, da quello che consente di individuare i limiti al principio di affidamento nell’ambito della colpa professionale sanitaria: la posizione di garanzia del sanitario, anche agente in equipe, comporta la necessità che lo stesso faccia presente ai colleghi, anche se più anziani ed anche al capo-equipe, eventuali errori che possano essere colti con le proprie cognizioni tecniche e con la necessaria diligenza (cfr., tra le altre, Sez.4, n.39727 del 12/06/2019, Perugino, Rv.277508; Sez.4, n.7667 del 13/12/2017, dep.2018, Capodiferro, Rv.272264: Sez.4, n.35953 del 15/05/2014, Spagnuolo, Rv.260165; Sez.4, n.556 dei 17/11/1999, dep.2000, Zanda, Rv.215443).”
A parere della Cassazione, “allo stesso modo - può affermarsi - il datore di lavoro ha il dovere di rilevare eventuali rischi non evidenziati dal responsabile dei servizio di prevenzione e protezione ovvero l’adeguatezza della modalità di prevenzione dei rischi pur in effetti correttamente individuati, ove ciò emerga con la ordinaria diligenza sulla base di competenze tecniche di diffusa conoscenza ovvero di regole di comune esperienza nel caso di specie: il rischio, correttamente individuato, di ustione da metallo fuso non è contenibile mediante materiali quali pelle o cotone ma tramite indumento alluminizzato che coprano tutte le parti del corpo esposte al rischio.”
Infatti - sottolinea a questo punto la Corte - “opinando altrimenti, si rischierebbe di giungere ad ammettere una possibilità concreta di traslazione di responsabilità datoriale, che è invece estranea al sistema della sicurezza nei luoghi di lavoro (art.17 del d.lgs.n.81 del 2008), mentre una saggia e prudente applicazione del discrimine indicato (tramite la valorizzazione di conoscenze, anche tecniche, diffuse, ove eventualmente esistenti, e della ordinaria diligenza) può contribuire al raggiungimento di risultati in cui, esclusi automatismi decisori, l’affermazione del diritto si coniughi con la soluzione secondo giustizia del caso concreto.”
I medesimi principi sono stati affermati - tra le altre - anche da una sentenza di qualche anno fa ( Cassazione Penale, Sez.IV, 20 luglio 2018 n.34311), che ha precisato che, se da un lato “per la redazione di tale documento [DVR, n.d.r.], fondamentale per lo svolgimento in sicurezza della vita lavorativa all’interno di ogni azienda, il datore di lavoro può avvalersi della collaborazione di un professionista, prevedendo la legge la consulenza del responsabile del servizio di prevenzione e protezione”, tuttavia l’ausilio che tale soggetto presta per la “redazione di suddetto documento non esonera il datore di lavoro dall’obbligo di verificarne l’adeguatezza e l’efficacia, di informare i lavoratori dei rischi connessi alle lavorazioni in esecuzione e di fornire loro una formazione sufficiente ed adeguata (Sez.4, n.27295 del 2/11/2016, Rv.270355), con particolare riferimento al proprio posto di lavoro ed alle proprie mansioni (Sez.4, n.22147 del 11/2/2016, Rv.266859).”
Nel caso di specie trattato dalla sentenza, è stata confermata la condanna del datore di lavoro G.G., del direttore di stabilimento Ca.P. e dell’ RSPP V.C. per aver consentito che il lavoratore “C.P. eseguisse operazioni di ingrassaggio delle parti interne della vasca di mescolamento di un impianto di betonaggio, installato presso la A. s.r.l., senza che, da parte del G.G., fosse stato redatto un DVR che individuasse i fattori di rischio connessi alle dette operazioni, necessarie prima dell’inizio di ogni ciclo di produzione di calcestruzzo e che comportavano l’ingresso di un lavoratore in zona ad alto rischio; disponendo e consentendo, il G.G. ed il Ca.P., che tali operazioni avvenissero in un impianto privo di una bobina di sgancio di minima tensione, con tutto il circuito elettrico di sicurezza (compresi i pulsanti di emergenza per l’interruzione dell’alimentazione e gli interruttori di sicurezza) isolato dal resto dell’impianto ed assolutamente inservibile, mettendo quindi a disposizione del lavoratore un’attrezzatura che presentava rischi di contatto meccanico e non idonea ai fini della salvaguardia della salute e della sicurezza sul lavoro; ancora, senza aver predisposto, i medesimi due imputati, una procedura di verifica, anche periodica, dell’efficienza delle sicurezze dell’impianto elettrico, sicurezze che impedissero la rotazione degli alberi durante la presenza dell’addetto all’interno della vasca per le operazioni di lubrificazione”.
Era stato accertato che “il DVR non contemplava affatto l’operazione quotidiana di ingrassaggio delle pale, e nulla quindi specificava su come tale intervento dovesse essere realizzato, se dall’interno o dall’esterno della vasca, né con quali dotazioni di protezione individuale, né con quali norme di sicurezza rispetto all’accensione dell’impianto; nulla si diceva altresì riguardo alle operazioni di manutenzione straordinaria, che veniva per forza svolta dall’interno della vasca. Si trattava dunque di un documento palesemente e incontestatamente lacunoso.”
Peraltro, la Cassazione precisa che “a tali lacune non suppliva il sistema di qualità, invocato a difesa quale parte integrante e complementare del DVR, in quanto volto ad una finalità diversa, quella cioè di garantire la realizzazione del prodotto nel rispetto degli standards di qualità e sicurezza, in favore dei clienti”; ed “in ogni caso le istruzioni operative, che componevano il manuale del Sistema Qualità, elencavano semplicemente le operazioni da compiere, ma non si soffermavano sulle modalità di esecuzione ed i connessi rischi - anzi era prevista una pericolosa accensione della betoniera prima dell’ingrassaggio delle pale - e comunque non erano integrative del DVR, non presentando i contenuti legislativamente previsti per tale documento.”
Dunque, a fronte di “carenze evidenti del DVR”, la Corte ha affermato che “la collaborazione prestata dal responsabile del servizio di protezione e prevenzione nello svolgimento di tale attività e nell’individuazione delle misure atte a fronteggiare i rischi presenti in azienda, non esimeva il datore di lavoro dal sottoporre il documento redatto dal professionista ad una approfondita analisi critica e verifica circa la concreta individuazione e indicazione della evidenziata situazione di palese rischio e delle misure precauzionali atte a fronteggiarlo.”
Di conseguenza, “di qui la colposa condotta omissiva del datore di lavoro, il quale, a fronte di un DVR così inidoneo a consentire in sicurezza il lavoro cui era addetto il C.P. [lavoratore, n.d.r.], non ha svolto alcun doveroso controllo sul contenuto del documento, imponendone al professionista incaricato le necessarie integrazioni.”
Infine, con Cassazione Penale, Sez.IV, 26 maggio 2016 n.22147, la datrice di lavoro ricorrente M.A., “proprio al fine di valutare correttamente la presenza di rischi, è ricorsa all’ausilio di una società accreditata …, la P. s.r.l., che ha sviluppato il documento, ricorrendo, quindi, ai fini dell’esonero da responsabilità, il principio dell’affidamento nell’altrui condotta.”
Ma - a parere della Suprema Corte - “la censura, sebbene condivisibile in diritto, non coglie nel segno avendo la Corte del merito collegato, in riferimento a quello specifico rischio, come ampiamente illustrato, la condotta della ricorrente alla causazione dell’evento.”
Infatti, con riferimento al “dedotto principio dell’affidamento, quale esonero da responsabilità, la ricorrente dimentica che il datore di lavoro è l’unico destinatario degli obblighi prevenzionali e, quand’anche abbia delegato [commissionato, n.d.r.] ad altri la stesura del documento di valutazione dei rischi, non di meno è tenuto, nel momento della sua attuazione, a verificarne la completezza e l’efficacia, adempimento che la M.A. non ha svolto, attesa l’evidente inadeguatezza del documento, come prima evidenziato.”
Anna Guardavilla
Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro

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Rispondi Autore: Massimiliano ![]() | 02/10/2025 (04:42:05) |
Come richiamato nell'articolo, trovo che l'art. 17, c. 1, lett. a) del d. lgs 81/08 smi rappresenti il principale fondamento che accomuna le pronunce trattate e che può sinteticamente motivare l'orientamento assunto dalle stesse. |
Rispondi Autore: Domenico ![]() | 02/10/2025 (07:55:10) |
Nelle società più complesse, come ad esempio le multinazionali, un RSPP che "gestisce" la salute e sicurezza in 30 siti in Italia ma che si avvale effettivamente di ASPP sul campo che nello specifico effettuano le valutazioni dei rischi specifici, redigono procedure ed adempiono a quanto indicato dall'art. 33 "compiti del servizio di prevenzione e protezione", in caso di infortunio mortale causato da una errata procedura scritta da parte di ASPP, chi ne risponde in base all'art. 33 per colpa professionale? ASPP o RSPP? |
Rispondi Autore: Anna Guardavilla ![]() | 02/10/2025 (08:51:04) |
Buongiorno Domenico, è astrattamente possibile che, in un caso come quello da lei descritto, un RSPP possa dimostrare che l’azione o l’omissione dell’ASPP - sulla quale l’RSPP abbia fatto un legittimo affidamento - commessa con colpa sia stata la causa esclusiva dell’evento lesivo o comunque una causa tale da escludere la responsabilità dell’RSPP stesso. Tuttavia, anche in considerazione del fatto che l’RSPP - secondo la relativa definizione - “coordina il servizio di prevenzione” (ovvero coordina gli ASPP), l’eventuale responsabilità penale dell’ASPP in caso di infortunio è, ad oggi, un fenomeno privo di reale consistenza sotto il profilo giurisprudenziale. Vedremo in futuro. Cordialmente Anna Guardavilla |
Rispondi Autore: LUCA CHEW ![]() | 05/10/2025 (08:15:01) |
Buongiorno Dot.ssa, sono a chiederle, a questo punto, quale rilevanza abbia per la CdC, in questi casi; il preposto alla sicurezza in istituito ai sensi della legge 215/2021. Grazie. |
Rispondi Autore: alberto cuomo ![]() | 05/10/2025 (11:08:48) |
Il DVR è certamente un documento fondamentale per la gestione della sicurezza in un'azienda (non solo per individuare i rischi ma anche e soprattutto per programmare le misure di miglioramento), tuttavia sono molto perplesso quando si dice che il fatto che una specifica attività non fosse stata affrontata nel DVR abbia avuto un ruolo determinante nel provocare un infortunio. Mi pare che la deriva di questo modo di ragionare sia arrivare a DVR enormi, lunghi, pieni di dettagli tecnici, spesso poco comprensibili e quindi, alla fine, poco leggibili e poco utili alla reale sicurezza. |
Rispondi Autore: Sono_un_ASPP ![]() | 06/10/2025 (12:40:42) |
Buongiorno, se il DL ha problemi di salute tali da non permettere di seguire direttamente l'azienda per un periodo più o meno lungo, ma provvedono i figli che sono dirigenti, come è possibile regolarizzare la situazione? Grazie |