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Datore di lavoro: l’indelegabilità delle scelte di politica aziendale
Commento a cura di Gerardo Porreca
È un tema che in questi ultimi tempi sta ricorrendo spesso quello affrontato dalla Corte di Cassazione in questa sentenza e cioè quello riguardante l’individuazione dei limiti della delegabilità degli obblighi che al datore di lavoro rivengono dall’applicazione delle disposizioni di legge in materia di salute e di sicurezza sul lavoro per ultima, tra le altre, la sentenza Sez. IV Pen. n. 25222 del 13/6/2014, Pres. Brusco, P.M. Iacoviello in proc. M.G. in base alla quale in materia di salute e di sicurezza sul lavoro non sono delegabili le scelte generali di politica aziendale, dalle quali possono derivare carenze strutturali, e l’organizzazione generale della sicurezza sul lavoro anche se lo stesso ha provveduto ad una ripartizione delle competenze specifiche all’interno della propria azienda. Pur a fronte di una delega corretta ed efficace, infatti, ha ribadito la Corte suprema in questa sentenza, non potrebbe andare esente da responsabilità il datore di lavoro allorché le carenze riscontrate nella disciplina antinfortunistica e, più in generale, nella materia della sicurezza attengano a delle scelte di carattere generale della politica aziendale oppure a delle carenze strutturali, rispetto alle quali nessuna capacità di intervento possa realisticamente attribuirsi ad un delegato alla sicurezza.
Il fatto e l’iter giudiziario
La Corte di Appello, in parziale riforma di quella resa all'esito del giudizio abbreviato condizionato dal Tribunale, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del Presidente del Consiglio di Amministrazione di una società in ordine alla contravvenzione ascrittagli (art. 4 comma 2, 88 quinquies e 88 novies d.lgs. n. 626 del 1994) perché estinta per prescrizione ed ha invece confermata la condanna alla pena di mesi uno e giorni dieci di reclusione sostituita con quella pecuniaria di € 1.520 di multa, in ordine al reato di lesioni colpose con violazione delle norme a tutela degli infortuni sul lavoro in danno di un dipendente della società medesima.
Secondo l'imputazione, il Presidente del Consiglio di Amministrazione della società, avente ad oggetto la produzione di prodotti chimici, attività a rischio di incidente rilevante ai sensi dell'art 8 D. Lgs n. 334/99 (c.d normativa anti Seveso), nonché il delegato in materia di prevenzione e sicurezza sul lavoro dallo stesso nominato in forza di una delega e di una successiva procura notarile, entrambe non indicanti il budget di spesa a disposizione dei delegato e gestore dello stabilimento ai sensi del D. Lgs n. 334/1999 (con designazione analogamente priva di indicazione dei poteri di spesa) per colpa consistita nella violazione di norme in materia di prevenzione infortuni, cagionavano lesioni personali gravi (pericolo di vita e comunque durata superiore ai 40 giorni) ad un dipendente della società il quale, assunto come operaio, dopo aver ricevuto il giorno stesso due sole ore di informazione-formazione, era intento nel turno di notte a travasare, attraverso il boccaporto, in un reattore contenente liquidi infiammabili un sacco in polietilene contenente polvere di DBTO (dibutilossido di stagno), anch'esso altamente infiammabile come evidenziato nelle schede tecniche dei prodotto, peraltro senza adeguati dispositivi di protezione individuale. Durante lo scuotimento del sacco, con movimento vorticoso della polvere e/o sfregamento della polvere stessa contro il sacco in polietilene ed a causa delle cariche elettrostatiche che fungevano da innesco dei vapori presenti all'interno del reattore, il lavoratore veniva investito da una fiammata, riportando così ustioni di 2° e 3° grado sul 60% del corpo (volto, torace e arti superiore).
Al Presidente del Consiglio di Amministrazione, in particolare, era stata contestata la violazione dell'art. 4 comma 2, 88-quinques e 88-novies del D. Lgs. 19/9/1994 n. 626 per non aver redatto un documento di valutazione dei rischi da atmosfere esplosive, e per non avere indicato le relative misure di prevenzione e protezione, incombenza alla quale lo stesso era specificamente tenuto e che non poteva essere oggetto di delega.
Il ricorso in Cassazione, le motivazioni e le decisioni della Corte suprema
Il Presidente del Consiglio di Amministrazione ha fatto ricorso in Cassazione denunciando una violazione di legge in relazione all'art. 1, comma 4 dei D.lgs. n. 626/1994 sostenendo che la norma doveva essere interpretata secondo il principio ad impossibilità nemo tenetur dovendosi ritenere che la valutazione del rischio era indelegabile solo nel senso che il datore di lavoro, che nel caso di specie doveva occuparsi di quattro distinte aziende di cui una in Germania e l'altra negli USA, deve preoccuparsi che la valutazione sia fatta e non che non potesse per far questo avvalersi dell'opera di terzi così come appunto aveva fatto lui. Il ricorrente ha altresì sostenuta una contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione addotta dalla Corte laddove la stessa, dopo avere affermato che l'obbligo di valutazione dei rischi è indelegabile, subito dopo ha sostenuto che il datore di lavoro, consapevole dei propri limiti di competenza e conoscenze, deve ricorrere all'ausilio di professionisti specializzati.
Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione che lo ha pertanto respinto. La stessa ha fatto presente che la sentenza impugnata ha richiamato l'art. 4 ter del D. Lgs. n. 626/1994 laddove lo stesso ha stabilito che il datore di lavoro non può delegare gli adempimenti previsti all'art. 4, commi 1, 2, 4 lett. a) e 11 primo periodo e l'art. 4 dello stesso D. Lgs. che ha precisato che spetta al datore di lavoro effettuare la valutazione dei rischi ed elaborare il documento di valutazione dei rischi indicando le relative misure di prevenzione e protezione. Correttamente, ha sostenuto la Sez. IV, la Corte di Appello ha ritenuto che in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in virtù della sopra richiamata normativa, il datore di lavoro non può delegare l'attività di valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza del lavoratore e la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dei rischi neanche nell'ambito d'imprese di grandi dimensioni.
Anche correttamente la Corte territoriale aveva ritenuto che il rischio era insito nella pericolosità fisica e chimica del prodotto DBTO e nelle modalità di lavorazione consistenti in uno sversamento che poteva determinare, come appunto è accaduto, la formazione di polveri che, miscelate con l'aria contenuta nel reattore e idonee a caricarsi elettrostaticamente per effetto dello stesso sversamento a causa dello strofinio della polvere stessa contro la superficie del sacco, potevano provocare una scintilla sufficiente ad innescare, con la potente miscela di sostanze infiammabili già presenti nel reattore, la fiammata ed il conseguente infortunio. Il rischio suddetto, al quale poteva essere sottoposta nella circostanza anche la popolazione, avrebbe dovuto essere considerato in una appropriata scheda di valutazione dei rischi con l’indicazione delle relative precauzioni e ciò da parte del datore di lavoro senza che potesse delegare tale obbligo ad altri.
Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, ha fatto ancora presente la Sez. IV, è una sorta di consulente del datore di lavoro ed i risultati dei suoi studi ed elaborazioni sono fatti propri dal datore di lavoro che lo ha nominato, con la conseguenza che quest'ultimo è chiamato a rispondere delle eventuali negligenze del primo. Il ricorso all'ausilio di professionisti specializzati, infatti, non implica alcuna possibilità di scaricare sugli stessi ogni responsabilità di cui è espressamente onerato il datore di lavoro ma significa solo che questi può avvalersi, facendole proprie, delle segnalazioni, raccomandazioni, consigli precauzionali e prevenzionali espressi dagli specialisti in relazione alla specifica attività lavorativa per la quale è stato sollecitato il loro intervento.
È vero, ha quindi proseguito la Corte suprema, che nelle imprese di grandi dimensioni si pone la delicata questione, attinente all'individuazione del soggetto che assume su di sé, in via immediata e diretta, la posizione di garanzia, la cui soluzione precede, logicamente e giuridicamente, quella della (eventuale) delega di funzioni e che in imprese di tal genere non può individuarsi questo soggetto, automaticamente, in colui o in coloro che occupano la posizione di vertice, occorrendo un puntuale accertamento, in concreto, dell'effettiva situazione della gerarchia delle responsabilità all'interno dell'apparato strutturale, così da verificare la eventuale predisposizione di un adeguato organigramma dirigenziale ed esecutivo il cui corretto funzionamento esonera l'organo di vertice da responsabilità di livello intermedio e finale. In altri termini, ha precisato la Sez. IV, nelle imprese di grandi dimensioni non è possibile attribuire senz'altro all'organo di vertice la responsabilità per l'inosservanza della normativa di sicurezza, occorrendo sempre apprezzare l'apparato organizzativo che si è costituito, sì da poter risalire, all'interno di questo, al responsabile di settore, e se così non fosse si finirebbe con l'addebitare all'organo di vertice quasi una sorta di responsabilità oggettiva rispetto a situazioni ragionevolmente non controllabili, perché devolute alla cura ed alla conseguente responsabilità di altri.
È altrettanto vero però, ha tenuto a precisare la Corte di Cassazione, che il problema interpretativo ricorrente è sempre stato quello della individuazione delle condizioni di legittimità della delega e questo per evitare una facile elusione dell'obbligo di garanzia gravante sul datore di lavoro e, nel contempo, per scongiurare il rischio, sopra evidenziato, di trasformare tale obbligo in una sorta di responsabilità oggettiva, correlata in via diretta ed immediata alla posizione soggettiva di datore di lavoro.
“Altrettanto consolidato”, ha sostenuto però la Sez. IV, “è il principio che la delega non può essere illimitata quanto all'oggetto delle attività trasferibili. In vero, pur a fronte di una delega corretta ed efficace, non potrebbe andare esente da responsabilità il datore di lavoro allorché le carenze nella disciplina antinfortunistica e, più in generale, nella materia della sicurezza, attengano a scelte di carattere generale della politica aziendale ovvero a carenze strutturali, rispetto alle quali nessuna capacità di intervento possa realisticamente attribuirsi al delegato alla sicurezza” per cui, ha così concluso la suprema Corte, “è da ritenere, quindi, senz'altro fermo l'obbligo per il datore di lavoro di intervenire allorché apprezzi che il rischio connesso allo svolgimento dell'attività lavorativa si riconnette a scelte di carattere generale di politica aziendale ovvero a carenze strutturali, rispetto alle quali nessuna capacità di intervento possa realisticamente attribuirsi al delegato alla sicurezza. Tali principi hanno trovato conferma nel D.Lgs. n. 81 dei 2008, che prevede, infatti, gli obblighi del datore di lavoro non delegabili, per l'importanza e, all'evidenza, per l'intima correlazione con le scelte aziendali di fondo che sono e rimangono attribuite al potere/dovere del datore di lavoro”.
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