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Technostress post-pandemico: la nuova variante social

Technostress post-pandemico: la nuova variante social
Massimo Servadio

Autore: Massimo Servadio

Categoria: Rischio psicosociale e stress

25/02/2022

Il technostress al “lavoro”: aspetti pratici, soluzioni emergenti.

Technostress post-pandemico: la nuova variante social

Il technostress al “lavoro”: aspetti pratici, soluzioni emergenti.

Come forse molti sanno, il technostress è un concetto introdotto in ambito lavorativo che definisce la pressione esercitata nel favorire il cambiamento tecnologico; è noto anche che, per incrementare la visibilità commerciale e per attrarre nuovi clienti, la maggior parte delle aziende tendono, ad oggi, ad appoggiarsi moltissimo sui social network. Ci siamo mai chiesti, però, se il technostress viene subito anche per l’utilizzo i social network da chi in azienda si occupa degli aggiornamenti dei profili a scopo commerciale? Partiamo da un primo presupposto: il  technostress  è nato in ambito lavorativo e verteva (si cominciò a parlarne in modo più intenso intorno agli anni ottanta) sulle difficoltà e lo stress percepito dai dipendenti alle prese con il grande cambiamento tecnologico che era in atto. L’introduzione di massa delle nuove tecnologie nelle aziende ha trovato non poche resistenze in quei lavoratori che sostenevano: “io ho sempre lavorato così, perché cambiare?”, e che quindi si ritrovavano a dover modificare il loro modus operandi non spinti da una motivazione personale, ma da scelte aziendali quindi esterne, in un certo modo, alla loro sfera personale.

 

Secondo il famoso psicologo Craig Brod è possibile dividere il concetto in due atteggiamenti specifici dell’individuo che, se presenti, inducono technostress nel soggetto stesso:

 

-“OVERIDENTIFICATION WITH COMPUTER TECHNOLOGY”: ovvero un eccessivo interesse alla tecnologia anche a discapito della propria obiettività

e

-“STRUGGLE TO ACCEPT COMPUTER TECHNOLOGY”: ovvero una vera e propria battaglia o presa di posizione contro l’uso delle nuove tecnologie.

 

In questo frangente non si parlava ancora di smartphone, tablets o di internet, ma solo di hardware: oggi è sicuramente possibile ricondurre una certa dose di stress anche nell’uso dei social newtwork; quindi potrebbe essere corretto affermare che qualcuno soffra di un certo grado di “networking  stress”? Per rispondere a questa domanda possiamo partire dalla definizione di Technostress e dalle sue componenti. Il Professor J. Kupersmith ha per primo definito il technostress attraverso 4 dimensioni:

 

1_ANSIA DA PERFORMANCE: data da un insieme di pensieri svalutanti, auto-valutazioni negative, aspettative di fallimento (pensieri come: “non ce la farò mai”, “sbaglio sempre tutto”, “non riesco a stare al passo con gli altri”);

 

2_OVERLOAD DI INFORMAZIONI: dato da una numerosità eccessiva di compiti per cui è necessario impiegare le nuove tecnologie;

 

3_CONFLITTO DI RUOLI: l’introduzione delle nuove tecnologie ha apportato in modo significativo un cambiamento nei ruoli (in ambito lavorativo si è risentito molto, per esempio, del “gap generazionale”, a causa del quale i più giovani diventano gli esperti in brevissimo tempo rispetto ai più anziani);

 

4_FATTORI ORGANIZZATIVI: dati da tecnologie insufficienti da un punto di vista numerico, o a causa di poca disponibilità o perché ritenute poco utili, che però causano problemi nella gestione del loro uso.

 

Se quindi spostiamo il focus dall’uso del computer alle logiche dei social possiamo immaginare una parziale sovrapposizione. Oggi che molti lavoratori sono diventati abili nella gestione delle attrezzature “smart”, è subentrato un nuovo orizzonte: quello della vita sui social anche da parte delle aziende e dei suoi rappresentanti. I social network sono diventati una componente importante della vita lavorativa e forse le sue logiche rischiano di non venir ancora ben comprese da tutti.


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Il Networking stress a livello lavorativo agisce su ciascuna di queste quattro dimensioni:

 

1_I soggetti che “cominciano da sé” (soprattutto commercianti o liberi professionisti) spesso, peccando di ottimismo, pensano che basti pubblicare un post per avere successo e poi scontrarsi con la dura realtà: l’impegno richiesto è grandissimo e per prima cosa bisogna abituarsi ad un nuovo modo di comunicare (ma prima bisognerebbe chiedersi: “io davvero lo so fare?”);

 

2_L’alto numero di piattaforme social esistenti potrebbe essere percepita come un’altra fonte di stress: ciò che forse è perfetto per Facebook potrebbe non essere adatto per Twitter? Quindi, è essenziale la riflessione da parte dell’azienda su cosa puntare e su cosa pubblicare.

 

3_ Una nuova rilevanza (spesso incompresa) della comunicazione online ha portato come conseguenza  nuove professioni che oggi tendono ad emergere a discapito di vecchi ruoli aziendali che vengono definiti obsoleti.

 

4_A livello organizzativo spesso le risorse umane dedicate alla gestione dei social sono “poche” a livello numerico, in quanto considerate ancora materia per adolescenti e per il tempo libero.

 

Addirittura, a causa del Networking Stress aziendale, iniziano a registrarsi i primi casi di “nomofobia”, ovvero la paura di rimanere disconnessi.

Se provassimo a chiedere a noi stessi di non usare il nostro cellulare (anche aziendale) per i prossimi 30 minuti, senza neppure controllare lo schermo? O addirittura provare a lasciarlo a casa per un’intera giornata lavorativa?

Sicuramente, una parte di popolazione aziendale potrebbe anche fare i salti di gioia se messo di fronte a una situazione simile, ma una discreta percentuale della stessa potrebbe addirittura sentirsi a disagio o “andare in crisi”, perché potrebbero perdere telefonate importanti, non portare a termine obbiettivi, non essere reperibili per i loro superiori o per i clienti a loro affidati; questa situazione emotiva potrebbe essere un primo campanello di allarme di nomofobia. Viene anzi dato un nome alla generazione dei lavoratori sempre connessi tra loro, “Generazione Always On”, costantemente in contatto e con una quantità enorme di informazioni a disposizione.

È difficile poi differenziare questo stato emotivo tra un bisogno personale, una patologia, una necessità aziendale che è diventata intrinseca della persona, o una necessità sociale. In generale, comunque, l’idea di rimanere senza cellulare, sottolineo anche quello aziendale, non è per niente piacevole fino ad arrivare ad un proprio bisogno estremo dell’apparecchio (una sorta di astinenza).

Il termine nomofobia nasce in Gran Bretagna da “No Mobile Phobia”, ovvero, la fobia di rimanere senza cellulare. Non si tratta della sensazione di quando, per esempio durante un viaggio, ci rendiamo conto di aver dimenticato qualcosa di importante quando ormai ci troviamo a chilometri di distanza da casa (ad esempio: devo proiettare una presentazione ad un nuovo cliente e mi sono dimenticato l’adattatore per collegare il mio PC alla sala riunioni del cliente), ma di tutta una serie di piccoli sintomi che si traducono in ansia anche se solo pensiamo di non avere il cellulare appresso.

Addirittura, i sintomi possono essere nausea, sudorazione intensa, giramenti di testa, tremori, tutti sintomi tipici di una fobia! Guardandola da un punto di vista neurologico, diversi studi hanno osservato all’interno del cervello alcuni processi molto simili a quelli da dipendenza da sostanze, con un incremento notevole di dopamina (sostanza che regola alcune funzioni cognitive, fra cui la capacità di attenzione, la motivazione, l'umore, perfino il sonno).

Secondo lo Psichiatra Dott. Claudio Mencacci, “..il problema non è dovuto solo alle informazioni che perdiamo se non abbiamo il cellulare, ma al fatto che lo strumento viene percepito come parte integrante di Sé; da ciò il profondo dolore all'idea di perderlo”.

Sconnettiamoci e annoiamoci!

 

Massimo Servadio

Psicoterapeuta e Psicologo del lavoro e delle organizzazioni




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