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Lo stress e l’importanza del lavoro: mobbing, bossing e straining
Urbino, 10 Lug – Non sempre è facile comprendere l’importanza che il lavoro può assumere per una persona. Per molte persone il lavoro “è il più significativo ambito di realizzazione” e spesso il tipo di lavoro svolto “incide moltissimo nel definire chi siamo, e quindi risulta strettamente connesso ai nostri sentimenti e senso di identità che assumiamo anche verso gli altri”. E ricordando che le persone spesso “investono la maggior parte delle proprie energie e risorse personali proprio sul lavoro” si può sottolineare quanto segnalato dalla Cassazione: ‘il lavoro non è solo un mezzo di guadagno, ma costituisce un mezzo prevalentemente di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino’ (Cass., 13 agosto 1991, n. 8835). Partendo da questi dati “è inevitabile che l’attività lavorativa mobiliti nel soggetto molte reazioni emotive” e che condizioni negative lavorative, “eccessivamente stressanti o avversative, suscitano frustrazione, delusione e sofferenza”.
A fare queste affermazioni e a ricordarci l’importanza del lavoro per ciascuno di noi, è un intervento al convegno “La prevenzione dei rischi da stress lavoro-correlato. Profili normativi e metodiche di valutazione” (8 novembre 2013, Università degli studi di Urbino). Segnaliamo che gli atti del convegno sono stati pubblicati, a cura di Luciano Angelini (Professore aggregato di Diritto del lavoro nell’Università di Urbino Carlo Bo), tra i “Working Papers” di Olympus e con il titolo “ La prevenzione dei rischi da stress lavoro-correlato. Profili normativi e metodiche di valutazione - Atti del Convegno Urbino - 8 novembre 2013”.
In “Stress e mobbing: aspetti teorici e metodologici sulla valutazione” - intervento a cura di Monia Vagni, ricercatrice a tempo determinato di Psicologia sociale nell’Università di Urbino Carlo Bo - si sottolinea dunque che il lavoro forse “è il più significativo ambito di realizzazione personale e relazionale”. Ed è palese “quanta affettività esso mobiliti e, in negativo, quali e quante frustrazioni e sofferenze possa causare. Proprio a queste ultime si riferisce il termine mobbing, dal verbo inglese to mob, che significa attaccare, assalire”.
Il fenomeno del mobbing può essere definito “come l’attuazione, all’interno di un ambiente lavorativo, di condotte intese ad emarginare, discriminare, screditare e perseguitare un dipendente”. E alcuni autori (Fornari) definiscono il mobbing come “l’aggressione sistematica e continuativa che viene attuata contro un lavoratore con diverse modalità e gradualità e con chiari intenti discriminatori dal datore di lavoro o da un suo preposto o da un superiore gerarchico oppure dai suoi colleghi”. L’attività discriminatoria del mobbing è infatti “protesa ad emarginare e/o estromettere il lavoratore dal proprio ambiente di lavoro, allo scopo di arrecargli un danno psicofisico, morale ed economico”.
E quando il mobber è l’azienda stessa - con una strategia persecutoria che “assume i contorni di una vera e propria strategia aziendale di riduzione, ringiovanimento o razionalizzazione del personale, oppure di semplice eliminazione di una persona indesiderata” - siamo di fronte “a quello che viene chiamato Bossing: una vera e propria politica di Mobbing, compiuta dai quadri o dai dirigenti dell’azienda con lo scopo preciso di indurre il dipendente divenuto ‘scomodo’ alle dimissioni, al riparo da qualsiasi problema di tipo sindacale (Ege, 2010)”.
Rimandando ad una lettura integrale degli atti relativi all’intervento di Monia Vagni, ricordiamo che generalmente “si possono individuare due forme di mobbing:
- mobbing verticale: “dal grado gerarchico più alto a quello inferiore; oltre il 50% dei casi di mobbing è di tipo verticale; di norma implica la prevaricazione dal più forte al più debole; strategia aziendale pianificata per forzare un dipendente alle dimissioni; terrorismo psicologico;
- mobbing orizzontale: attuato tra pari grado; riscontrabile in circa il 40% dei casi; dinamiche intragruppo caratterizzate da rivalità”.
Tuttavia gli studi relativi allo stress lavorativo individuano anche “altre forme disagio, che si pongono a cavallo tra le più comuni situazioni di stress occupazionali e il mobbing, e che vengono definite Straining”.
In particolare con il termine Straining (Ege, 2005) si intende “una situazione di Stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un’azione, che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. Si tratta di una condizione di stress forzato, cioè superiore a quello connesso alla natura del lavoro e diretto nei confronti di una vittima o di un gruppo di vittime. Un esempio di straining è rappresentato dal demansionamento, o da tutte quelle situazioni che implicano un forzato stato di isolamento”. Tuttavia una tale condizione lavorativa “non rientra nel Mobbing, poiché le azioni ostili subite dalla vittima non sono oggettivamente sistematiche, ripetute e frequenti”.
L’intervento cerca poi di “sfatare” alcune credenze o miti per “meglio comprendere il fenomeno del mobbing e le sue conseguenze psichiche”:
- “i soggetti più colpiti sono sopra ai 55 anni, ritenuti spesso meno remunerativi per l’azienda, che quindi preme per il loro prepensionamento. Sono anche quelli più vulnerabili perché hanno affettivamente investito di più, con meno opportunità di trovare un analogo impiego e quindi sono quelli che possono presentare conseguenze psichiche più gravi;
- i quadri dirigenziali risultano più colpiti;
- altresì vero il mobbing si verifica nei posti di ‘minor prestigio’, dove prevalgono alcuni aspetti culturali e il minor potere posseduto dai dipendenti limitano la loro capacità di opporsi;
- il mobbizzato non è però sempre una personalità debole. A volte i mobbizzati sono coloro che sono più restii a piegarsi ad alcune politiche aziendali, e per certi aspetti risultano più combattivi o sicuri delle proprie competenze”.
Riguardo agli aspetti clinici, metodologici e diagnostici del mobbing, l’autrice segnala che il mobbing può “giungere a causare una malattia, rientrando come fenomenologia nella psicopatologia delle cosiddette ‘reazioni ad eventi’ (Camerini, Sabatello, Sartori, Sergio, 2011)”. Infatti ogni stressor che perturba l’omeostasi dell’organismo “richiama immediatamente delle reazioni regolative neuropsichiche, emotive, locomotorie, ormonali e immunologiche”, e le reazioni agli stressor assumono una valenza dieustress quando rappresentano l’aspetto positivo dello stress, intesa come attivazione dell’organismo; distress, al contrario, quando lo stress assume una valenza negativa, e porta con sé a reazioni che non risultano garanti di quel nuovo adattamento richiesto o necessario per eliminare la situazione avversiva”.
L’intervento si sofferma anche su quella che Seley (1971) definì come “Sindrome Generale di Adattamento”: “la risposta che l’organismo mette in atto quando è soggetto agli effetti prolungati di svariati tipi di stressor, quali stimoli fisici (ad es. fatica), mentali (ad es. impegno lavorativo), sociali o ambientali (ad es. obblighi o richieste dell’ambiente sociale)”. Vengono descritte nel dettaglio l’evoluzione della sindrome che avviene in tre fasi (allarme, resistenza e esaurimento).
Si ricorda poi che il mobbing, “oltre ad avere una dimensione oggettiva legata all’entità e natura dei comportamenti vessatori messi in atto dall’azienda, ha una forte valenza soggettiva che incide in modo significativo sullo stato psichico del soggetto stesso”. Spesso il soggetto si ritrova “assorbito in un vortice psicologico caratterizzato da meccanismi di evitamento, dove si evita di tornare al lavoro, a parlare con colleghi, etc.; ad atteggiamenti di costante rimuginazione, dove il ricordo di quanto accaduto, nonostante gli sforzi evitanti, diventa intrusivo e dominante”.
L’intervento si sofferma infine sull’accertamento psicodiagnostico del mobbing, segnalando che dal 2011 il Centro di Ricerca e Formazione in Psicologia Giuridica dell’Università degli Studi di Urbino ha stipulato una convenzione con l’INAIL della Regione Marche “per l’accertamento psicodiagnostico dei lavoratori che hanno denunciato una condizione di costrittività organizzativa sul lavoro”.
Riportiamo alcuni degli obiettivi della psicodiagnostica in relazione alle situazioni di stress lavorativo e mobbing:
- “il supportare la valutazione clinica dello psichiatra con elementi più oggettivi possibili;
- il fornire un inquadramento della personalità più completo possibile;
- l’evidenziare il funzionamento psicologico del soggetto nelle sue principali aree, con particolare attenzione a quella socio-affettiva e lavorativa;
- il delineare quei processi, funzioni e abilità che risultano solo parzialmente indagabile attraverso il colloquio clinico”;
- “il rilevare eventuali simulazioni;
- l’indicare una possibile prognosi”.
Il contributo si conclude sottolineando che “di certo l’accertamento psicodiagnostico deve essere inteso come un contributo alla valutazione del singolo caso, ma esso da solo, senza ad esempio la valutazione psichiatrica, non può fornire un’esaustiva risposta”. Ed infatti la complessità del fenomeno, relativo alle diverse forme di stress connesse al mondo del lavoro, “implica in modo inevitabile il doversi confrontare con diverse professionalità e cornici scientifiche”.
Olympus - Osservatorio per il monitoraggio permanente della legislazione e giurisprudenza sulla sicurezza del lavoro, “ La prevenzione dei rischi da stress lavoro-correlato. Profili normativi e metodiche di valutazione - Atti del Convegno Urbino - 8 novembre 2013”, a cura di Luciano Angelini (Professore aggregato di Diritto del lavoro nell’Università di Urbino Carlo Bo e Condirettore di Olympus), Working Paper di Olympus 31/2014 inserito nel sito di Olympus il 6 marzo 2014 (formato PDF, 978 kB).
Tiziano Menduto
Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.
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Rispondi Autore: Maria Rosaria Bovi - likes: 0 | 10/07/2015 (19:01:42) |
Articolo molto chiaro, tuttavia, a me sembra che manchi sempre una casistica del mobbing (o forse non appartiene a questa fattispecie di aggressione nei riguardi del lavoratore). Mi riferisco a quelle situazioni di molestia non compiute propriamente per estromettere il lavoratore dal ciclo produttivo, ma piuttosto per tenerlo in una certa posizione economico funzionale dove dever lavorare molto (sennò va tutto allo scatafascio) e non avanzare mai, perché gli avanzamenti a lui spettanti, denigrandolo e minimizzandolo, si possano attribuire ad altri 'più congrui' alle esigenze della dirigenza. Non perché questi ultimi abbiano maggiore competenza, bensì per la loro 'malleabilità' nel supportare gli interessi personali, anche di interi gruppi dirigenziali, non necessariamente volti all'interesse aziendale. E quel che mi pare più strano è che non se ne parli negli articoli specializzati che si pubblicano in Italia, dove è proverbiale la non considerazione del merito e l'avanzamento degli incompetenti. Nessuno ha mai collegato questo fatto all'attuazione del mobbing di tipo Bossing? |
Rispondi Autore: Inge Zamboni - likes: 0 | 11/07/2015 (10:03:06) |
Ottimo articolo; dopo anni di sofferenza da Bossing, ricordando che è difficilissimo dimostrare di subire vessazioni ecc. da dirigenti, sono contenta che se ne riparli e che ci siano ancora studi che vanno in tale direzione. Peccato che questi non vengano allargati a macchia di leopardo soprattutto nella scuola delle varie regioni d'Italia(in particolarein quella dell'obbligo), dove negli ultimi anni la pressione è più forte, correlando stress prestazionali con assurda richiesta di sempre maggiore burocrazia, da cambi di direzione continui e conseguenti adattamenti di programmi, tipologie di lezioni e a finire l'enorme potere dato ai dirigenti dall'ultimo decreto che di fatto fa della scuola pubblica una scuola clientelare quanto o più di quella privata, visto che ne istituzionalizza i metodi in particolare di assunzione e scelta degli insegnanti. E il dirigente chi lo controlla? |